Con “Stanze all’aperto” (Moretti e Vitali, 2008) lo sguardo di Alessandro Moscè torna a soffermarsi sui Luoghi in cui il poeta vive: il mare di Ancona e la collina marchigiana.
Con una parola piana, innamorata, Moscè fissa storie marginali e domestiche in cui si immerge totalmente. Il vissuto diviene il centro dell’opera rimarcando la distanza del poeta da ogni ideologia.
Nell’introduzione alla raccolta Alberto Bertoni aggiunge il nome di Moscè al gruppo dei poeti marchigiani d’eccellenza: Piersanti e Scarabicchi, D’Elia e De Signoribus, Garufi e Gezzi, “sostenuti dalla viva intelligenza critica di Massimo Raffaeli”.
Intervista di Luigia Sorrentino
Lei è molto giovane, ma il suo nome viene già affiancato al gruppo dei poeti marchigiani più importanti. Credo che questo ‘essere a fianco’ derivi da una comune formazione poetica?
Senz’altro. Mi sono formato incarnando idealmente il concetto di residenzialità coniato da Franco Scataglini, il grande anconetano morto prematuramente nel 1994. Che senso ha vivere qui e non altrove? Scataglini alludeva a Kant e alla sua Könisgberg prefigurante. Questa domanda me la sono sempre posta anch’io, sin dagli anni dell’adolescenza. La conoscenza di Umberto Piersanti e Massimo Raffaeli, in particolare, un poeta e un critico notevoli della mia terra, le Marche, ha accentuato la “sonda” della scrittura ambientata nei luoghi della nascita e della crescita fisica e spirituale.
Perché le sue poesie raccontano storie dai ‘margini’?
E’ un’intuizione che condivido la sua, in effetti, perché marginali sono i personaggi dei miei libri: i nonni che non ci sono più e che vivono in un ricordo “terso come l’aria”, i giovani che passeggiano nel tardo pomeriggio, la donna della porta accanto, il vecchio della casa di riposo. Penso che la vita provinciale e marginale sia il vero motore della mia scrittura, come il dialogo immaginario tra i vivi e i morti. Ma a volte il margine diventa centro e il centro periferia. Ce lo ha dimostrato il più grande antropologo vivente, Marc Augé. Ecco allora che l’universalità di luoghi e figure si trasforma in simboli perfino storici.
Qual è il simbolo della sua ispirazione poetica?
Ho in parte risposto. Luoghi e ambienti domestici, piazze e sentimenti lontani. Credo che in fondo il mio scenario sia fortemente esistenziale e un po’ neo-crepuscolare. Il giardino comunale, per esempio, è un luogo riflessivo, mai contemplativo o naturalistico. Il correlativo oggettivo è tra il sentire e lo spazio dell’autunno, del buio, della sensitività di ombre e immagini riflesse, per questo immaginifiche, oltre che concrete.
Qual è la differenza tra poesia e linguaggio?
La poesia è l’altro linguaggio, l’anti-comunicazione, una parola anacronistica. Il linguaggio comunica, la poesia nomina, fissa il tempo, la memoria. Quello che non è esprimibile con un linguaggio ridotto in pillole, retorico e sintetico, sbrigativo, svela, di converso, il mondo nascosto e taciuto della poesia, che può essere rappresentato anche attraverso i gesti.
Come definirebbe la sua poesia?
Mi definirei un poeta lirico lungo la linea della tradizione italiana, quella che nasce dalla poesia ‘onesta’ di Umberto Saba.
I poeti ‘amati’, quelli che maggiormente hanno influito su di lei, quali sono?
Li nomino affastellandoli, ma sono stati la mia guida, consapevolmente: Leopardi, Saba, Caproni, Betocchi, Penna, Gatto, Pasolini, Volponi, Luzi, Bertolucci. Fino ai poeti d’oggi, con i quali anche attraverso il dialogo personale, ho appreso molto.
Perché si scrivono poesie al giorno d’oggi?
Le ragioni possono essere molteplici: io sono sempre stato ossessionato dalla morte, probabilmente per una rielaborazione del lutto, paradossalmente, dove aver superato una grave malattia infantile. Il poeta lotta per rimanere, e il tempo con la nascita e la morte, è il destino che si insegue. Ma si scrive anche per altre ragioni: per esempio per una tensione di tipo erotico. Lo diceva Moravia, e credo avesse ragione.
‘Diario di mare’
….
Ad Ancona spunta lattiginosa
la mattina dei viaggiatori,
le navi fremono
nello scintillio del porto.
Marocchini e algerini rimangono inerti
come foglie secche
nel bar davanti alla banchina.
Qualche traffico illecito
lo vedi dagli sguardi torvi,
te ne accorgi come con gli amori
degli adulti in vacanza:
nascono e non si dicono,
sono di passaggio nelle vie del mare.
(da ‘Stanze all’aperto’ di Alessandro Moscè)