Renzo Favaron: “Al limite del paese fertile”

Il poeta Renzo Favaron, nato a Cavarzere nel 1959, laureato in psicologia presso l’Università di Padova, vive e lavora vicino Verona, a San Bonifacio.
Ad aprile del 2009 mi ha inviato il suo libro di poesie “Al limite del paese fertile” (Book Editore, 2007) che raccoglie vent’anni della sua poesia in lingua italiana, pubblicato nella collana di poesia FUORICASA a cura di Alberto Bertoni e la piccolissima plaquette in 25 copie “L’ora”, con un eco pittorico di Gaetano Orazio (Edizioni PulcinoElefante, Osnago, 2007). Favaron è un poeta tutto da scoprire anche se già nel 1991, ha pubblicato “Presenze e conparse” in dialetto veneto con una prefazione di Attilio Lolini.

Intervista di Luigia Sorrentino

Lei è uno dei pochissimi poeti italiani che utilizza nelle sue opere di poesia la lingua italiana e la lingua dialettale veneta. Come è riuscito a integrare due forme espressive così differenti?
Lo stacco che mi ha indotto a scrivere in dialetto è stata la morte di mia nonna. A partire da ciò mi sono mosso anche perché, in alcuni momenti della mia vita, lo sento più adatto alla trascrizione di un proprio discorso interiore. Tuttavia il dialetto che uso è un idioletto, cioè una lingua poetica. In altre parole è qualcosa che mi sono cucito addosso, un vestito che si esprime attraverso il discorso poetico. Dirò di più, quasi una bestemmia: ritengo che lo stesso Montale, l’autore di “Ossi di seppia”, sia stato, forse, la massima espressione di “poeta in dialetto”, dal momento che ha dato luogo a una poesia attraverso un linguaggio che è solo suo e che ha usato l’italiano, anche lui, come mezzo per dare corpo a una voce unica e ineguagliabile. Pertanto il mio rapporto con la poesia in lingua non si spiega in un altro modo. Sostanzialmente, si tratta in ogni caso di usare una lingua che sia sempre un idioletto e che sia, in pari tempo, capace di accogliere e tradurre di sé e del mondo una dimensione affettiva ed emotiva che non tradisca mai la propria cifra.

Gli autori che hanno maggiormente influenzato la sua poesia sono stati Philip Larkin e Gottfried Benn, due poeti espressionisti che hanno privilegiato il dato emotivo della realtà … Dall’interno all’esterno: anche lei con la sua poesia entra direttamente nella realtà?
Sì, la mia poesia non è mai avulsa dalla realtà. Di più: lo è tanto meno quanto più vi si può notare e cogliere il sentimento di una progressiva morte sociale, come capita con il mio libro “Testamento”. In questo libro lancio provocazioni taglienti ai miei interlocutori, ai destinatari del libro, con un realismo quasi cattivo, tanto che si può registrare una rottura con l’ambiente circostante o quanto meno a valutarla come effetto di questa mia aggressione. Eppure, in altri testi, uso immagini dolci, come mi capita in “Al limite del paese fertile”, dove si parla di …sei sfuggiti all’occhio di Dio, cioè sei portatori di handicap di cui ho fatto conoscenza in una spiaggia della Corsica. La poesia si chiude così: ‘Quano la parola non nata/ se ne va con loro,/ tutt’intorno echeggia la bestemmia/ dell’arcobaleno./ Più solo.’ A me capita di provare un senso profondo di fratellanza con gli esclusi, al punto che ne ho fatto una ragione di vita occupandomi, per vivere, di mediazione socio-lavorativa.

A proposito del suo lavoro… lei è un operatore sociale, uno psicologo… che relazione vi è tra poesia e psicologia?
E’ una relazione che ha preso forma nel tempo, soprattutto attraverso la frequentazione di C. C. Jung. In particolare rappresenta per me una miniera un libro come “Psicologia e alchimia”. E’ un libro a cui hanno attinto anche altri poeti, tra i quali lo stesso Andrea Zanzotto.

Poesia e immagine. E’ dall’immagine che nasce la sua poesia?
Nel tempo ho imparato che la mia poesia nasce dall’osservazione. E che cosa si ricava dall’osservazione se non immagini? Queste sono le porte attraverso cui entra la poesia e grazie alle quali si può lavorare sulla lingua. Questo lo dico a chi pensa che la poesia sia un fatto di ispirazione, cioè legato a qualcosa di momentaneo. Solo le immagini che si distillano nel tempo diventano poesia. A me, per esempio, è capitato con “Mati tuti i dì (Matti tutti i giorni)”, testo nato dall’osservazione quotidiana di gruppi di persone che vivono in un residuo manicomiale. Per associazione rimando tutto alla poesia “Veci che ‘speta la morte” di Virgilio Giotti.

Il suo ultimo libro “In cualche preghiera/ In qualche preghiera” uscito nel 2009 in dialetto veneto ha per oggetto l’esperienza di una malattia che ha determinato una svolta per la sua poesia: “No’ iè pì la stessa storia/ co se torna da n’antra vita:/ el nome,/ el laoro,/ la casa.” Non è più la stessa cosa quando si torna da un’altra vita… Che cosa è cambiato nella sua vita e nella sua poesia?
Dopo la mia esperienza del “grande male” è cambiato tutto e niente. Dopo un periodo di convalescenza e di varie terapie ogni cosa torna in apparenza a essere come prima. Però si è meno crudi e indifferenti nei confronti della vita. Si capisce che ogni minuto che essa ci offre è un vero e proprio miracolo, così che si riesce meglio ad assaporare tutto ciò c’è di buono e anche di cattivo. Tuttavia mi ha anche insegnato che “il grande male” può dividere e allontanare, per cui bisogna stare attenti ai suoi colpi di coda e a credere, perché si appartiene alla schiera dei salvati, che dopo ci possa permettere di venire meno al rispetto verso ciò e chi ci è vicino. “In cualche pregiera (In qualche preghiera)” è il tentativo di fare i conti con l’angelo della morte e insieme con quello della vita, senza però rinunciare alla leggerezza e all’ironia.

 

Il reale, forse

Chi è colui che interroga muto
e ascolta, che andando ciecamente
chiude il seme nella pietra?

Non è più solo che lontano,
ma il suo volto si riscalda
quando guarda e non c’è mai nessuno,
né cosa che l’aiuta, va e a se stesso
non chiede nulla, aspetta,
forse alla fine lo specchia
il turno del possibile…

Lui, prima che sia troppo tardi,
che sia troppo a lato,
si lascia richiudere, è già un’ipotesi
di vita, una pienezza che appartiene
all’esterno, come una pietra
a cui tanto somiglia,
lui che non è meno duro e non può
vivere solo dell’istante che eternamente
lo disperde.

Da: “Al limite del paese fertile” di Renzo Favaron

XIV

Come ranpegare
cô iè i muri a rampegarse
e pì de nu a vegnere drento
a sfregolarse.
De cuesto e gnente altro
so sicuro, chè desso no’ so
ciapare el male,
né come incoconare sul drito de la man
anca la parola pì insulsa.
Ogni domanda resta da fare
e alora se se limita a vardar
cue’o che ognun fa:
par esenpio, cualcun se cava le scarpe
prima de ‘na visita.
Mi no’ me le togo mai: anzi, a casa,
par dire, me meto le scarpe
d’inverno anca in istà – pa’ ciavare sol peso.
Serto no’ se pol suare tanto,
par cuesto serco ‘na pianta che me incuerza
come gò visto fare a diesemia
chiometri da chi, ‘ndove la gente
se comoda soto i baobab e la speta
fin cuando no’ vien zò la frescura
cofà ‘na specie de saracinesca, squasi on scheo
pa’ tirare el fià e trovare ‘ncora posto
in-te sta aria che va lesiera,
lesiera e sola.

XIV – Come domare pareti/ quando sono loro a scalarci/ e più di noi a penetrare,/ a sfaldarci./ Di questo e niente altro/ sono sicuro, ché adesso non so/ come collocare il male,/ né come imboccare sul palmo della mano/ anche la parola più insignificante./ Ogni sviluppo rimane oscuro/ e allora non resta che guardare/ a quello che facciamo:/ per esempio, qualcuno si toglie le scarpe/ prima di una visita./ Io non le sfilo mai: anzi, a casa,/ per dire, mi metto le scarpe/ invernali anche in estate – per fregare sul peso./ Certo, non si può sudare tanto,/ per questo cerco una pianta che mi protegga,/ come ho visto fare a diecimila/ chilometri da qui, dove la gente/ si accomoda sotto i baobab e aspetta/ fino a quando non viene giù la frescura/ come una specie di saracinesca, quasi una ricompensa/ per tirare il fiato e trovare ancora posto/ in quest’aria che va leggera,/ leggera e sola.

Da: “In cualche preghiera/ In qualche preghiera” di Renzo Favaron

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