Mario Benedetti, Materiali di un’identità

In “Materiali di un’identità” (Transeuropa Edizioni 2010, euro 9,50) – prefazione di Antonella Anedda – Mario Benedetti ci presenta una nuova poetica, di forte impatto emotivo.
L’autore calandosi nella sua relazione più intima – l’esperienza della poesia – smaterializza, decompone, disintegra, l’identità dell’uno per consegnare al lettore un corpo poetico dai molteplici significati, chiusi all’interno dell’opera.
Il libro è suddiviso in sei sezioni, La lacerazione del vertice, Ti ricordi?, A metà sulla terra, a metà nel cielo, Maggio 2009 (Intervista con Claudia Crocco), Mi ricordi?, Biosfere.
Ne La lacerazione del vertice scritto in una tipologia testuale saggistica, Benedetti spezzetta frammenti di identità che sospendono il materializzarsi di una sola – di soltanto una – identità e, al tempo stesso, compatta e aderisce a un percorso poetico assoluto che l’identità contiene e ricompone, attraversamento che si realizza a partire da un’iniziazione, un reclutamento.
Chi è veramente quella persona in cui vive e si muove la poesia?
Benedetti sa e non sa.
L’identità del poeta è e rimane un’entità misteriosa. Di essa si può dire solo che è nascosta nel fondo dell’essere e che viene rivelata dalla parola che si fa poesia.
Come accede Benedetti a quel fondo?
“So da chi iniziare e come”, scrive, “ma fino a un certo punto”.
Dopo questa ammissione e presa di distanza (so-non so) Benedetti spalanca il suo laboratorio segreto: il filosofo Michaelstaedter innanzitutto, ma anche Apollinaire, Bataille, Rilke, Celan, Bonnefoy e, Beppe Salvia. Tutti i reclutati hanno un comune denominatore, parlano della stessa cosa, l’anima del mondo.

La “trasparenza” produce “frammenti” scrive Benedetti. Eppure e da lì che viene il dato concreto, esperienziale. Il discorso parte da questi materiali e procede per brandelli – assonanze, interruzioni, intermittenze – fino a raggiungere “la scossa estetica”, il brivido che percorre la colonna vertebrale quando ci si trova di fronte a un’apparizione, a un’immagine divina.

Da quel lontano arriva il timbro inconfondibile della parola che innalza il corpo della poesia: “Gente passava e vi cercavo il mio corpo./ Tutti quelli che sopraggiungevano e non erano me stesso portavano a uno a uno (forse a due a due, coppia amante) i pezzi (gli arti) di me stesso. Mi costruivano a poco a poco come si innalza una torre. Popoli si accatastavano e io apparivo / formato da tutti i corpi e le cose umane.” Qui Benedetti riprende e traduce la prima strofa della poesia Cortège dalla raccolta Alcools di Guillaume Apollinaire. Il discorso però si interrompe bruscamente: “Mi fermo al primo corpo”, scrive Benedetti, “oltre non so andare”. Un atto di rinuncia dopo un’estrema tensione nel corpo della poesia, nell’angoscia-lacerazione, il silenzio, la parola che si chiude, il sacrificio – rendere sacro – il separarsi da – atto propiziatorio – non proseguire, non andare oltre, perché in quel primo corpo c’è già tutto. “Addio versi di Cortège”, scrive Benedetti, “addio torre innalzata. Popoli. Ho le pastiglie per la notte. Guardo i comignoli mentre altri guardano altro. Vado a letto tra poco. E’ tutto.”
Ed è proprio là, nella battuta di arresto, in quello spazio e in quel tempo indefinito, che il vertice si lacera.

“Spiel mit mir ein Spiel, Spiel mit mir ein Spiel” (gioca con me un gioco , gioca con me un gioco) scrive Benedetti riportando una frase tratta da Sehnsucht dei Rammstein. “Tutto si fa diverso – registra il poeta – in questo fragore. Persecutorio. Ossessione compulsiva che non libera. Accompagna. Si ripete.”

Vi è esposizione del corpo in questo libro, materia, ma anche eccedenza della materia. Perché è traboccando, debordando, che si vanifica il senso del nostro limite, la finitude di cui scrive Benedetti richiamando Bonnefoy che “è tutta dappertutto”. Ecco che i materiali del poeta sfiorano o fuoriescono da altri materiali senza mai del tutto concedersi a uno solo. Materiali che sono, ancora una volta, riconoscimento – so da dove vengo – ma anche separazione – non so chi sono -.

“Terrore per la dismisura” scrive Benedetti “di fronte a cui la via seguita non è l’eccedere, l’ ‘ esplodere’ di Bataille ma l’implodere…” E ancora è il “bianco” di cui parla Beppe Salvia a “snebbiare le parole”, ad avere l’effetto di annullare ogni relazione tra le cose, fino a renderle equivalenti, a placare la tensione dall’interno, a scaldare la misura , “la bianca bianca eroina”…

Il corpo tragico di Benedetti si spezza, più e più volte, nel silenzio: “L’intimo della cosa è la sua discrezione, riservatezza, il suo saper mantenere un segreto, ed è pure il suo incantesimo, il suo rimanere ‘incantata’, in qualche modo un suo particolare silenzio.”
Chiuso nell’invisibile, nel vuoto della parola, il corpo indomabile precipita: “Riguardo al mio morire è stato per me un difendersi, un difendersi strenuamente. Non più. Ma non faccio fatica. Come dentro un’epidemia vivo nel casuale.”
La materia viva si contrappone o si sovrappone a altra materia, fino a diventare crosta, strato su strato, come nei gretti di Burri, ma essa è anche materiale umano nel suo disfarsi, che si porta verso il morire.

Figure si schiariscono in forme e essenze che non ci sono, o che non ci sono più: “Essere qui è molto”, scriveva Rilke nella nona elegia, la penultima, “tutto qui ha bisogno di noi”, ma questo stato, questo stato terreno, non sembra revocabile, ci accade una sola volta. Mai più. L’essere transitorio, perituro, caduco di cui parla Benedetti è il non revocabile, il terreno, di cui parla Rilke. Ecco dunque che nell’ultima sezione Biosfere, il poeta ci parla di un fegato “appuntato con gli spilli”, prima di cadere nella malattia del “poco respiro”, dove si soffoca: “… lo so,/ che tutto è qui, adesso, con tutto quello che c’è, di me e di noi.”

di Luigia Sorrentino

«Sono uscito di mattina prima di partire, di corsa fino alla chiesa per vedere l’interno. Ho preso del vino, delle caramelle per il viaggio. Ho fatto colazione. Non so, cosa dovevo fare?
Che cosa si deve fare? Dico anche i vestiti, il caldo alle mani, il guardare le mani rigirandole…»
Da ‘Materiali di un’identità’ di Mario Benedetti

Mario Benedetti è nato a Udine nel 1955. Vive a Milano.
Ha pubblicato fra l’altro le raccolte I secoli della Primavera, Sestante, Ripatransone 1992, Umana gloria, Mondadori, Milano 2004 e Pitture nere su carta, Mondadori, Milano 2008 (Premio “Stephen Dedalus” 2009).
Ha tradotto il volume antologico delle poesie di Michel Deguy, Arresti frequenti, Luca Sossella, Roma 2007. Ha curato per gli Oscar Mondadori l’antologia Bloggirls – Voci femminili dalla Rete. Collabora all’Almanacco dello Specchio di Mondadori.

Ingeborg Backmann e Paul Celan

Ognuno parla con la colpa dell’amore: è il titolo del convegno sulla profonda e tormentata relazione tra due dei più grandi poeti del Novecento, Ingeborg Bachmann e Paul Celan.
Il 15 e il 16 giugno 2010, presso la Villa Sciarra-Wurts sul Gianicolo (via Calandrelli 25, Roma), sono previste due giornate di studio e discussione sull’intenso carteggio tra i due autori, appena pubblicato dalle edizioni nottetempo con il titolo Troviamo le parole. Lettere 1948-1973 (pagine 336, euro 25,00).
Promosso dall’Istituto Italiano di Studi Germanici e dall’Università Sapienza di Roma, in occasione della pubblicazione del libro, il convegno ospiterà gli interventi di traduttori, scrittori, germanisti, latinisti, curatori, filosofi ed editori: da Franco Serpa, latinista e musicologo, al filosofo Giorgio Agamben; dallo studioso Clemens Härle al germanista Franz Haas; da Ginevra Bompiani di nottetempo a Thomas Sparr di Suhrkamp Verlag.
Durante gli incontri si parlerà dell’intensa storia d’amore e d’amicizia che legò Ingeborg Bachmann e Paul Celan per quasi 25 anni, dal loro incontro a Vienna nel 1947 al tragico suicidio del poeta nella Senna nel 1970. Il legame tra i due fu senza dubbio uno dei capitoli più drammatici della storia della letteratura contemporanea, testimoniato icasticamente dal quel loro primo, folgorante incontro: lei era una diciottenne austriaca, “in fuga” dalle ingombranti colpe di una patria e un padre nazisti; lui un giovane ebreo, fuggito dalla Romania e scampato ai campi di concentramento, dove aveva appena perso tutta la famiglia.
Oltre al dibattito, il convegno sarà arricchito da una mostra fotografica e documentaria, a cura di Christine Koschel e Inge von Weidenbaum, con le fotografie di Garibaldi Schwarze.

Il programma
Martedì 15 giugno, ore 15.30
Francesco Maione (traduttore, Napoli)
Urs Faes (scrittore, Zurigo)
Clemens Härle (germanista, Università di Siena)
Franz Haas (germanista, Università di Milano)
Rita Svandrlik (germanista, Università di Firenze)
Camilla Miglio (germanista, Sapienza Università di Roma)
Inge von Weidenbaum (curatrice dell’opera di Ingeborg Bachmann, Roma)

Mercoledì 16 giugno 2010, ore 15.30
Ginevra Bompiani (nottetempo, Roma)
Giorgio Agamben (filiosofo, Roma)
Franco Serpa (latinista e musicologo, Roma)
Thomas Sparr (Suhrkamp Verlag, Berlino)
Marianne Ufer (germanista, Roma)

Ingeborg Bachmann e Paul Celan, due fra le più grandi figure letterarie e poetiche del ‘900, si sono scritti per 19 anni tra amore e dissapori, amicizia e incomprensione, silenzi e disperazione, sempre alla ricerca delle parole che li facessero incontrare. Quegli anni tormentati furono, per Celan, anche i più cupi: il poeta affondava lentamente nel suo dolore, chiuso in se stesso per l’incomprensione dei critici, l’infedeltà degli amici e per «hitleria, hitleria…», fino al tragico suicidio nella Senna. All’intenso carteggio tra la Bachmann e Celan, si uniscono, verso il 1960, le voci di Gisèle Lestrange, sposa di Paul, e Max Frisch, nuovo compagno di Ingeborg. Leggere queste lettere vuol dire assistere impotenti e abbagliati alla nuda vita di uomini e donne straordinari, autentici, straziati. Il lettore accederà con impudicizia ai loro pensieri ed emozioni segreti. Con meraviglia e, forse, con timorosa vergogna.
Ingeborg Bachmann (1926-1973) è autrice di romanzi, poesie e opere teatrali. Tra i suoi libri ricordiamo Malina, Il trentesimo anno e Invocazione all’Orsa Maggiore. Per nottetempo nel 2008 è uscito Lettere a Felician.

Paul Celan (1920-1970), figlio di genitori ebreo-rumeni morti in un lager nazista, e sopravvissuto lui stesso a un campo di lavoro, è un altissimo poeta di lingua tedesca e grande traduttore. Le sue opere sono raccolte in Poesie, Mondadori, 1998.
Il convegno Ingeborg Bachmann – Paul Celan. Ognuno parla con la colpa dell’amore è promosso dall’Istituto Italiano di Studi Germanici e dall’Università Sapienza di Roma, in collaborazione con Casa di Goethe, Forum Austriaco di Cultura, Istituto Svizzero di Roma ed Edizioni nottetempo.