Addio a Luciano Erba

È morto a Milano Luciano Erba, uno dei più grandi poeti del Novecento e illustre francesista. Aveva 88 anni. 
Erba era nato a Milano il 18 settembre 1922. È stato docente di letteratura francese all’Università Cattolica di Milano. Nel capoluogo lombardo Erba ha sempre vissuto, pur allontanandosi per alcuni lunghi periodi (soggiornò in Svizzera durante la seconda guerra mondiale, poi a Parigi e anche negli Stati Uniti). Si laureò alla Cattolica nel 1947 in lingua e letteratura francese, dedicandosi all’insegnamento, prima nelle scuole superiori e poi all’università. Tradusse vari autori francesi tra i quali Sponde, Cendrars, Michaux, Ponge.

Strinse amicizia con il gruppo dei cattolici del dissenso, tra cui Camillo Maria De Piaz e David Maria Turoldo. Esordì con Linea K nel 1951. Seguirono poi le raccolte Il bel paese (1955), Il prete di Ratana (1959), Il male minore (1960), Il prato più verde (1977), Il nastro di Moebius (1980), Il cerchio aperto (1984), Il tranviere metafisico (1987), L’ippopotamo (1989), Variar del verde (1993), L’ipotesi circense (1995), Nella terra di mezzo (2000). 

Quartieri solari

Milano ha tramonti rossi oro.
Un punto di vista come un altro
erano gli orti di periferia
dopo i casoni della «Umanitaria».
Tra siepi di sambuco e alcuni uscioli
fatti di latta e di imposte sconnesse,
l’odore di una fabbrica di caffè
si univa al lontano sentore delle fonderie.
Per quella ruggine che regnava invisibile
Per quel sole che scendeva più vasto
in Piemonte in Francia chissà dove
mi pareva di essere in Europa;
mia madre sapeva benissimo
che non le sarei stato a lungo vicino
eppure sorrideva
su uno sfondo di dalie e di viole ciocche.

da L’ippopotamo, (Einaudi, 1989)

Linea Lombarda

Adoro i pregiudizi, i luoghi comuni
mi piace pensare che in Olanda
ci siano sempre ragazze con gli zoccoli
che a Napoli si suoni il mandolino
che tu mi aspetti un po’ in ansia
quando cambio tra Lambrate e Garibaldi.

da Nella terra di mezzo, (2000)

Milano da sera a mattina

Le nuvole hanno smesso di piovere
sta per ricominciare la sera
i cortili avranno voci più chiare
la luna compie un giro in più.

La felicità vive a notte nel sogno
della città labirinto
un monte in periferia
un vagone abbandonato sulle rotaie.

Superstite del primo Novecento
di case d’epoca lungo i bastioni
resto un borghese di tarda mattina:

per svegliarmi ripasso il latino
campestr silvester paluster
esco, cravatta, scarp luster

da Poesie 1951-2001 (Oscar Mondadori, 2002)

«Il male minore, libro riassuntivo che Luciano Erba pubblica nel 1960, è in qualche modo un punto decisivo di confine. Sia per l’esperienza poetica dell’autore, sia per quella della nostra poesia di questi ultimi decenni. Il primo Erba si era già ben manifestato negli anni Cinquanta: nel ’51 con una consistente plaquette (seguita poi da altre) come Linea K, successivamente con la sua presenza fra i sei poeti della Linea Lombarda di Luciano Anceschi nel ’52, e con la partecipazione, in veste di co-autore (assieme a Piero Chiara) e autore nell’antologia Quarta generazione, del ’54, dedicata ai giovani poeti di allora.
La fisionomia, la novità di Erba, trovano dunque un pieno coronamento proprio alla vigilia della prima antologia dei Novissimi (1961) rispetto ai quali la sua posizione appare totalmente estranea. E in questo periodo di sperimentazioni inizia per Erba, forse non a caso, un lunghissimo silenzio interrotto solo alla fine del decennio successivo, con il volumetto Il prato più verde (1977), ripreso poi in un nuovo libro complessivo, Il nastro di Moebius (1980, comprendente anche Il male minore). E’ forse opportuno aggiungere a queste annotazioni che Edoardo Sanguineti, nella sua Antologia della poesia italiana del Novecento (1969), esclude tutti gli autori della quarta generazione non appartenenti all’avanguardia con due sole eccezioni: Pier Paolo Pasolini e, appunto, Luciano Erba.
Anche attraverso questi segnali si può intuire il carattere di coerenza autonoma della poesia di Luciano Erba. Agli esordi è semmai ravvisabile qualche traccia di illustri esempi come quelli di Eugenio Montale e Vittorio Sereni, ma soprattutto risalta netta, naturale, la sua distanza dall’ermetismo degli anni Quaranta, come dai tentativi di opposizione il più delle volte ingenua del neorealismo. Erba appare subito orientato dal dono di una felice leggerezza naturale del tocco, dalla finezza del gusto, con cui esprime il proprio legame con l’esperienza, con la concretezza dei dati, degli oggetti e delle figure, che egli riesce all’istante a sottrarre all’opacità in virtù di una grazia del dire e di un infallibile equilibrio linguistico, che nella loro piena plausibilità, “normalità”, non hanno alcun bisogno di reticenze o astuzie letterarie, da cui anzi rifuggono. La “piccola magia”, la musica sottile e apparentemente pacata della poesia di Erba, come Il male minore evidenzia al livello più alto, consiste dunque nel rendere leggeri, leggiadri, anche, nella loro presenza, nelle loro movenze, dettagli di un reale altrimenti inerte, o greve, o solo indifferente, fino alle più trascoloranti apparenze spesso affidate, ad esempio, al gioco scenico degli abiti (“Lei portava i calzoni del fratello/ una borsa alla cinghia/ un farsetto come un giustacuore”; “in fondo/ avrebbe voluto la Grande Jeanne/ diventare una signora perbene/ aveva già un cappello/ blu, largo, e con tre giri di tulle” ecc.)
Al disegno della sua poesia contribuisce una formazione culturale che incrocia una tradizione lombarda profondamente sentita con esperienze soprattutto francesi, che comprendono Apollinaire e non escludono Prévert.
Erba finge di porsi ai lati, con marginale eleganza, con discreta ironia fantasiste, rispetto ai percorsi dominanti o ai grandi temi dichiarati, per introdurli più di striscio o in sottinteso, o in improvvisi (ma strutturali) scarti interni, che increspano l’ambigua normalità della vicenda.
L’assenza di Erba in una fase della poesia del nostro tempo è probabilmente il sintomo, di un suo disagio, di una sua insofferenza nei confronti di una sperimentazione, dichiarata o meno (e dunque non solo quella della neoavanguardia), a cui non poteva appartenere, e il suo riapparire non vuole certo introdurre un netto mutamento di stile, tant’è vero che nel Nastro di Moebius riprende testi più antichi, compreso, come si diceva, Il male minore forse nell’idea di un unico libro, composto per successivi accumuli, e perciò sempre da aggiornare, che riassuma un percorso poetico. […]»
di Maurizio Cucchi

Brano tratto dall’antologia Poeti Italiani del Secondo Novecento – Volume Primo (Mondadori, 1996)

Tony Harrison

Leggendo i rotoli: un versi-culo
I.
La Pizia sul suo seggio di pietra
inalando marciume imparò a declamare
prima dell’età di Omero i primi
esametri che un essere umano abbia pronunciato.
Inondato di vapore, l’andatura pigra di drago morto,
il rettile sul suo orlo roccioso,
il putrido serpente, fu il vero
incantatore della vera poesia.

Con pensieri così riconciliavo
gli anni passati a scrivere con l’odore
del gas che perde e fantasticavo
di serpenti quando il fuoco del gas sibilava.
Mi aiutava a concentrarmi, il sibilo
come quello della Pitonessa pestata
che Apollo ridusse a un unico livido,
una pelle di serpente il premio del campione,
pestata così che Apollo potesse
essere l’unico nome tutelare di Delfi.
Bastonò fino alla tana del serpente,
poi barattò la sua clava rivestita di pelle con la lira,
ma ancora aleggiano pezzi fetidi di budella di serpente
quando il dio è sull’onda di un assolo magistrale.
La Musa che faceva la sua manicure
dimenticò di pulire le unghie dal sangue.
Così quando Apollo pizzica le corde
ne esce pura musica con olezzi di serpente.

Per oltre trent’anni passati a scrivere
il miasma che saliva dalla carogna del mostro,
gocciante attraverso il parquet e il tappeto di lana,
è stata l’ispirazione che inalavo.
Ho tollerato quella vaga zaffata
ma ora hanno chiuso i miei rubinetti del gas…
fetidi intestini di rettile, un gas malefico fugge
dai miei tubi di piombo bucati e sfigati.
Non più vecchio gas, grazie a Dio! – CO
quel che il suicida più spesso ha scelto
(e una volta quando provai a scegliere quale,
il gas venne al primo posto insieme con Tyne Bridge).
E’ da lungo tempo che sento sibilare quello del Mare
             del Nord
come quello della Pitonessa assopita di Delfi
i cui incrostati intestini e ossa
hanno appena scaricato nei miei bidoni della spazzatura,
con tutti i miei fornelli benché io recalcitrassi –

E’ fortunato che non ne sia esploso nessuno.

Agitazione sopra un simile odore
posso fin da molto piccolo rievocare.
C’è roba stecchita sotto il pavimento
diceva nonno Chiama Freddy Flea .
Fred, per cinquant’anni, aveva girato
con il suo circo di pulci. Ora in pensione
veniva chiamato per aiutare a scovare l’esatto punto
dove erano morti i ratti e guadagnarsi una pinta.
Il canile di alati segugi di Fred
erano mosconi in un contenitore di sapone.
Fred li lasciava andare, e tutto quello che faceva
per scoprire dove i ratti erano morti.
Loro ronzavano e si fermavano. Appena Fred
             capiva
il punto dove tutti i suoi seguaci correvano
sollevava un asse di pavimento per svelare
un gatto rancido… voilà voilà.
I segugi di Fred avevano il loro babà.
Poi Fred li prendeva in una piccola rete
e spingeva le loro schiene in uno splendido blu faenza
nel contenitore del sapone.

da: Vuoti di Tony Harrison (Einaudi, 2008)
Traduzione italiana di Giovanni Greco 

Tony Harrison, è nato a Leeds nel 1937. Ha vissuto in Inghilterra, Africa, Europa orientale e Stati Uniti. Il suo inconfondibile stile graffiante si affermò con The Loiners (1970). Il poemetto V. trasmesso da Channel Four (1987) suscitò polemiche per la durezza del linguaggio. Harrison ha realizzato diversi “poemi-film”, fra cui Il banchetto dei bestemmiatori, su Salman Rushdie, e Margherite nere per la sposa (Premio Italia 1994 per il documentario). Le sue opere teatrali, scritte in gran parte per il National Theatre e raccolte in tre volumi, sono andate in scena in Inghilterra, a Delfi e in altri teatri antichi e moderni. Vive a New-castel upon Tyne.