Emanuele Trevi, ‘Il libro della gioia perpetua’

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“Ho coltivato da sempre, sin dall’infanzia due immensi poteri: il potere di mentire e il potere di assentarmi”. Emanuele Trevi

                                  Il Libro della gioia perpetua di Emanuele Trevi (Rizzoli, 2010) euro 19,50
                                                            Premio Napoli 2010    www.premionapoli.it

C’era una volta il favoloso mondo di Lossiniere, un paese dove non suonano i telefoni e si viaggia in carrozza. Napoli, invece, è un inferno vero di traffico e spazzatura. Uno scrittore, appena arrivato da Roma, scopre che l’evento a cui doveva partecipare è stato annullato all’ultimo minuto. Il viaggio, in apparenza inutile, gli fa conoscere una enigmatica maestra e lo porta all’incontro fortuito con un manoscritto ambientato nel paese di Lossiniere, Il libro di Clara e Riki, e con il mistero della sua autrice: una bambina di otto anni. Nel Libro regnano la calma interiore, la concentrazione imperturbabile, la forza d’animo necessaria a essere nient’altro che se stessi. Bambini simili a dèi, Clara e Riki sembrano conoscere il segreto della gioia perpetua. Il sovrano istinto dell’attimo libera infatti la loro esistenza dall’obbligo di significare qualcosa agli occhi del prossimo. Ma qual è il potere di queste pagine capaci di riscuotere il protagonista dal torpore e dalla rassegnazione in cui era sprofondato? E chi è la bambina che le ha scritte, come fosse un oracolo in miniatura, un maestro zen di otto anni? Emanuele Trevi conferma in queste pagine la sua capacità di fondere le seduzioni del racconto con l’indagine appassionata e imprevedibile sulle meraviglie e i terrori dell’infanzia, e sulle radici più profonde dell’arte e della creatività. Un romanzo dal coraggio sfrontato, capace di avvolgerci in una spirale che, complice una prosa perfetta, porta dritti dritti al nucleo del nostro vivere.

Canio Loguercio, “Le canzoni sussurrate”

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                              Nel video di YouTube: Canio Loguercio, Peppe Servillo e Maria Pia De Vito

Canio Loguercio menestrello del terzo millennio che fa risuonare parole e musica in appassionate performances da palco… poeta-musicista-performer reinventa antichi linguaggi per mettere in scena un personalissimo sound poetico-musicale… alla sua corte poeti, musicisti, artisti e innamorati… sollecitano il pubblico ad attivare percezioni plurisensoriali, che riposizionino e allertino tutti i cinque sensi… con le composizioni e gli arrangiamenti intimi e raffinati del pianista Rocco De Rosa, che si snodano fra minimalismo, jazz e musica popolare… la voce di Silvana Matarazzo che declina in absentia i testi dei poeti e… a viva voce

Canio Loguercio (nella foto) venerdì 26 e sabato 27 novembre 2010 alle 19.00 sarà a La Habana, Cuba, al Patio del Centro de Arte Contemporaneo Wilfredo Lam, Calle San Ignacio 22, Esquina Empedrado, Plaza della Catedral, per partecipare alla “XIII semana de la cultura italiana en Cuba”.
Le “canzoni sussurrate” di Canio Loguercio si incontreranno con la poesia di alcuni dei più importanti poeti della scena contemporanea italiana:pasiones è infatti un concerto, ma anche un recital poetico.

Partecipano: Canio Loguercio, Rocco De Rosa, Tommaso Ottonieri, Silvana Matarazzo.

Testi: Canio Loguercio, Tommaso Ottonieri, Mariano Bàino, Gabriele Frasca, Rosaria Lo Russo, Valerio Magrelli, Lello Voce.

Musiche: Canio Loguercio, Rocco De Rosa.

Video: Antonello Matarazzo, Rita R. Florit, Enrico Frattaroli.

Direzione artistica a cura di Nietta Caridei (Edizioni d’If) e Angelo Melpignano (Melange).

Coordinamento e produzione di Alives Magaly e Dayara Bernal Roque (Cacwl-La Habana)

Arte e Poesia, Tano Festa 18 ritratti di Mao

Tano Festa 18 ritratti di Mao

I 18 ritratti inediti furono realizzati da Tano Festa nel 1980 da “Mastino”, stabilimento balneare di Fregene, vicino Roma, dove l’artista usava passare l’estate. I lavori, tutti realizzati a pennarello su un blocco da disegno, prodotto dalla Cartotecnica Industriale del Tirreno (cm 24×34), provengono dalla collezione privata di Francesco Soligo, storico gallerista e archivio legale di Tano Festa, nonché autore del primo tomo del Catalogo Ragionato del lavoro del maestro.

 

La vicinanza di Tano Festa a Andy Warhol in questo caso appare evidente sia per il soggetto ritratto (ricordiamo i celebri Mao dell’artista americano), sia per la ripetizione quasi ossessiva dell’oggetto che diviene mezzo e messaggio della rappresentazione artistica.

Tano Festa è stato uno dei protagonisti della scena romana degli anni Sessanta. Insieme a Mario Schifano e Franco Angeli (tra gli altri), appartenenva alla così detta Scuola di Piazza del Popolo, gruppo oramai storico dello scenario artistico contemporaneo.
I temi prediletti dall’artista sono tratti dall’iconografia dei mass media e della storia dell’arte.

999Gallery
da mercoledì 20 ottobre 2010 al 9 novembre
Vicolo Sugarelli, 5 – 00186 Roma
Lun-Sab 10.00-20.00
Tel/Fax: 0696845976
info: info@999gallery.com – www.999gallery.com

Gabriela Adamestanu e Mauriusz Szczygiel

Mariusz Szczygiel e Gabriela Adamesteanu ospiti al Salone dell’editoria sociale di Roma: 22 e 24 ottobre (spazio ex-Gil, Largo Ascianghi, 5)


venerdì 22 ottobre, ore 18.30

Presentazione del romanzo di Gabriela Adamesteanu, L’incontro intervengono l’autrice e Goffredo Fofi.

Gabriela Adamesteanu è una delle maggiori scrittrici romene, di cui nottetempo pubblica giovedì 21 ottobre L’incontro, suo primo romanzo tradotto in italiano. Figura di spicco della cultura romena, alla fine degli anni ’80 ha fondato insieme a un gruppo di intellettuali dissidenti la rivista “22” e dal 2004 è caporedattore del periodico cultuarale “Bucurestiul Cultural”. Nel 2002 le è stato conferito il Premio Human Rights Watch, per l’attività a difesa dei diritti umani e della democrazia condotta dopo il 1989 come redattore capo di “22”, nonostante gli attacchi e le minacce subiti dai partiti nazionalisti ed ex-comunisti.

domenica 24 ottobre, ore 16.30
Sopravvivere nella storia – Dittature di ieri, democrazie di oggi. Ne discutono Goffredo Fofi e Mariusz Szczygiel

Mariusz Szczygiel è l’autore dell’ acclamata raccolta di reportages sulla storia della Cecoslovacchia, Gottland che ha vinto lo European Book prize come miglior libro del 2009. Nella narrazione “cubista” di Szczygiel, degno erede di Kapuscinski ma soprattutto di Erwin Kisch, il geniale reporter influenzato dagli scrittori delle avanguardie, si incontrano le vicende dei protagonisti secondari della storia cecoslovacca: quella della famiglia Bata che fondò l’impero delle scarpe, dell’attrice Lida Bàarova, che fece innamorare Goebbels e prese il té con Hitler, di Karel Gott, il Pavarotti cecoslovacco o dell’architetto che costruì la più grande statua di Stalin al mondo e poi si suicidò. Un affresco fatto di racconti assolutamente veri che hanno il sapore del romanzesco e che illustrano perfettamente la storia e la particolare Resistenza del popolo cecoslovacco.

Michele Melotta, il mondo interiore

“De Forma” è il titolo della personale di Michele Melotta, a cura di Fabrizio D’Amico. A Roma dal 20 ottobre 2010 alla “Diagonale”, la Galleria di Luca Bellocchi. In esposizione 25 sculture in bronzo e 13 sculture in gesso dell’artista.

La densa memoria
“È un mondo segreto e ansioso, quello che Michele Melotta mette in figura: da anni, da decenni chiuso in un suo bozzolo, ripiegato in sé, geloso del proprio silenzio, della propria appartatezza. Non sono valse, a spezzare quel silenzio – tranne che in casi rari e distanti – le episodiche sollecitazioni che ha ricevuto a mostrare il suo lavoro: sollecitazioni che egli ha di volta in volta ricevuto a Roma, dove vive e lavora. Né è venuta per caso questa solitudine a tutto tetragona: che inerisce nel profondo non solo al suo animo, ma alla forma della sua scultura, com’essa oggi finalmente si svela in questa mostra sorprendente. Ha memorie dense, Melotta. Troppe, forse, per poter reggere sulle sue spalle quel carico senza tremarne. Giacometti, e Leoncillo: ma anche più in là, ricorda: fino a Matisse, fino a Medardo, fino a Rodin, cui sembra aver rubato la digitazione veloce ed eccitata sul gesso, sul bronzo. “Non posso simultaneamente vedere gli occhi, le mani, i piedi della persona che sta a due o tre metri da me, ma quell’unica parte che guardo trascina con sé la sensazione dell’esistenza del tutto”, ha scritto Giacometti nel 1960. La “parte per il tutto” era stato per lui un limen di verità – non semplicemente un divertissement surrealista – almeno dal ’47 (La main), e a quella soglia era sovente tornato: ne La jambe, bronzo fuso nel ’58, ad esempio. Melotta ricorda quell’ansia di verità di Giacometti, nei suoi torsi mutili, nei suoi corpi acefali, nelle sue gambe appoggiate in precario equilibrio, come stessero per spiccare il balzo da un trampolino. Assieme, ascolta la lezione di Leoncillo, il suo ostinato prendere distanza dal demone tentante dell’ “astratto”, il suo voler cercare sempre la “figura”, il suo intendere la materia non come nume intoccabile, ma come ansa dove lasciare una nuda impronta di sé (“voglio la tua orma, quella dei tuoi anni, dei tuoi patimenti, della tua storia, di quello che ti è accaduto e che senti oggi”, annotava Leoncillo nel 1958 nel suo Piccolo diario, rammentando un incontro di pochi giorni avanti con Toti Scialoja, e un dialogo accaldato con l’amico, denso di pensiero e di conflitti). Credo che le radici di Melotta siano in quegli anni oggi lontani e densi di esiti straordinari; che egli cerchi ancora adesso in quel clima che vedeva spegnersi l’orgoglio della matericità informel, e dell’espressionismo astratto, e a tentoni scavava in una coltre di cenere per trovare nella materia un luogo, soltanto, per lasciar traccia di sé, testimonianza delle proprie speranze, della propria esistenza.

Del corpo, nel suo lavoro, Melotta ha fatto misura per ogni suo gesto formatore: somigliano a corpi infatti i gessi riuniti oggi in una magica sala della “Diagonale”. Corpi esili, diafani, sussurrati nell’aria, quasi. Non so se Melotta li costruisca con la spatola, o lasci soltanto gocciare, con la mano, il gesso su altro gesso, appena rappreso: certo che essi sfiorano l’imponderabilità, la trasparenza. Si allungano filiformi accanto al muro, quei corpi snudati di peso, da cui poi appena divaricano, flettendosi in inchini; sorridono allora, forse, alla luce che qua e là li svela, esaltando il loro biancore. Si confessano innocenti, nonostante la vita che hanno alle spalle; anche se poi, quando qualcuno d’essi sarà trasposto in bronzo, il grumo di materia da cui nascono e dal quale non vorranno separarsi li trascinerà a significare altro, e opposto, dolore: come intrisi adesso, nel nuovo materiale, di una vita gremita e pesante, non più di un sogno leggero, impalpabile. Nel nero di cui ricopre sovente i suoi bronzi, Melotta figura l’esistenza: dal grumo d’essa originario e indifferenziato – quasi un’oscura nascenza – degli Studi per zampa d’elefante, alle immagini forti, simboliche e drammatiche, delle Menadi, alla teoria delle Figure: torsi acefali e privi degli arti superiori che si dispongono adesso in sequenza ottusa, paratattica, alterna solo all’ombra di sé che proiettano sul muro retrostante. Rigorosamente frontali, aliene dall’intento di testimoniare la ‘bravura’ della mano che ne ha alzato le sagome trepide (e del pari lontanissime – ovviamente – da ogni ambizione monumentale), queste Figure – spoglie, immote, silenti – attestano solo la vita che è trascorsa: impronte sulla rena dell’esistenza; impronte – come voleva Scialoja – che serbano, nel loro breve e lento mutare, memoria di quanto è stato pensato, sofferto, vissuto.”
di Fabrizio D’Amico
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Michele Melotta è nato a Cerreto Sannita (Benevento).
Si è formato presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Vive e lavora a Roma. 

 

DIAGONALE GALLERIA
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Orari: martedì – sabato 16 – 20