Michael Kruger, Il coro del mondo

Protagonista della scena culturale tedesca e austriaca e attento lettore di letterature straniere, fra cui l’italiana e l’israeliana, Michael Krüger è un nome di primo piano nella lirica tedesca, insignito dei più prestigiosi premi nazionali. In italiano è già apparso come poeta, saggista e narratore. Il coro del mondo (Mondadori 2010 (euro 15), tratto dall’antologia tedesca “Archine des Zweifels” (2001), dalle raccolte “Kurz vor dem Gewitter” (2003), “Unter freiem Himmel” (2007) e dalla recente “Ins Reine” (2010), è un itinerario in una poesia vicina e comprensibile, estranea alla mistica della parola ma con la grande liederistica romantica alle spalle. Kriiger è un malinconico, un “amico della morte” che tende l’orecchio al “cantico dell’inanità” ma fa parlare il visibile – la natura viva, acque, boschi e animali ora tangibili ora alieni -, gli uomini in perenne ricerca di giustificazioni e anche un suo io che dice cose che non si aspettava di dire. Inatteso per noi anche il suo ironico ma cordiale “undicesimo comandamento”: “non morire, / ti prego”. E la storia? Per l’ironico, per l’irridente non conta granché, e meno ancora conta la grandezza: “Una mucca pascola davanti alla casa / l’ultima di una fila di mucche. / Una loro antenata, bianco-marrone,/ fu presentata a Napoleone, / poco prima che incontrasse Goethe a Weimar”.

Questa raccolta, curata da una poetessa e traduttrice come Anna Maria Carpi, comprende versi pubblicati in Germania tra il 2000 e il 2010: essa presenta perciò al pubblico italiano nel modo finora più ampio e articolato la poesia di un autore che si caratterizza per l’asciutta esattezza intellettuale della sua pronuncia e per l’efficacia della sua meditazione in versi, capace di coinvolgere i temi più diversi con ironia e tensione al tempo stesso.

Come vanno le cose

E’ tutto tranquillo. Non è successo niente.
L’errore si scoprire il mondo lo rimpiangiamo da un pezzo.
Ogni colpo di vanga, ogni osso ritrovato, ogni speranza dissepolta:
la loro inefficacia è dimostrata da un pezzo. Le rovine
si edificano su progetto, anche questa una vecchia soluzione per dopo.
Sulle macerie artificiali abitano famiglie, accanite
a distribuire foto a colori: istantanee senza garanzia.
Si parlava di una piccola lista di obiezioni,
ridicolaggini, non mette conto di parlarne: non mette conto
comunque d’interrompere gli altri.

Tutto è tranquillo. Non è successo niente.
Le piccole ferite sanguinano come al solito, i ritardi
non hanno motivo. In altre parole, in altro modo,
detto altrimenti: il caso ne esce di nuovo vittorioso,
la ragione è battuta: nemmeno questo
le si vede addosso. Il suo profilo si è fatto più morbido
da quando parla solo di se stessa, i suoi occhi sono
più accademici, ogni sua uscita è facilmente scusabile.
E’ uno spasso diabolico starla a guardare: le soavi
drammatizzazioni della sua indifferenza.

E’ tutto tranquillo. Non è successo niente.
I sentimenti si sono fatti meno vistosi, era da aspettarselo, l’odio,
si è mutato in invidia. Non vi eccitate,
niente storie, niente malinconie: il finanziamento dell’apatia
è assicurato. L’export si sta riprendendo. La vita
è ora capace di miglioramento, finalmente
gli sforzi sono valsi la pena. Al museo, indifese,
le timide ambizioni dei passati:
a ognuno si fa chiaro come il sole su cosa si è infranta la storia.

Non è successo niente. E’ tutto tranquillo.
L’alfabeto è di nuovo in uso, le tabelline,
il dialogo ha congiuntura. I vecchi cappelli,
le vecchie profezie, i vecchi fenomeni: tutto
sembra nuovo. Ognuno da ieri ha la chiara sensazione
di esserci. Ognuno si presenta bene. Ognuno guarda ognuno
con interesse. Le conversazioni balbettanti
sono ammutolite, tutto scorre, fluisce, gli intimi
deragliamenti non ci sono più. L’oscuro è stato eliminato:
aforismi descrivono il mondo con mortale chiarezza.

da Il coro del mondo, Mondadori 2010

Michael Krüger, sassone, è nato a Wittgendorf nel 1943 ed è cresciuto a Berlino. Attualmente risiede a Monaco, dove dirige la casa editrice Hanser e la rivista “Akzente”.
Poeta e romanziere, in Italia ha pubblicato le raccolte Di notte tra gli alberi (2003) e Poco Prima del temporale (2005). Fra le traduzioni italiane delle sue opere ricordiamo Perchè Pechino (1987), Il ritorno di Himmelfarb (1995), La fine del romanzo (2000), La violoncellista (2002) e La commedia torinese (2007).

Giorgio Vigolo, il tempo del ritorno

 

Con il suo libro “L’eremita di Roma” Vita e opere di Giorgio Vigolo (Fermenti Edizioni 2010, euro 16) Magda Vigilante si concentra sulla scrittura creativa di Giorgio Vigolo che la porta a disegnare il tracciato del poeta e del prosatore per consegnare al lettore un ritratto assolutamente inedito dello scrittore. La Vigilante, forte della conoscenza delle carte vigoliane, traccia una prima e documentata ricostruzione della biografia dell’autore che è – soprattutto – biografia intellettuale, che colloca Vigolo sullo sfondo dell’ambiente culturale romano del primo e del secondo dopoguerra, seguendone il tartto a partire dall’infanzia fino alla piena maturità.

 

“Spesso mi capita di chiedermi perché Giorgio Vigolo tardi ad avere il seggio eminente che gli spetta nel Parnaso letterario del nostro Novecento. Avrà certo inciso, in vita, il suo carattere esigente, una consapevolezza del proprio valore che dai tanti critici militanti e dirigenti editoriali distratti o superficiali (tanti ieri, ancor più oggi) poteva scambiarsi per alterigia. Ma certo, a quasi trent’anni dalla sua morte, la causa va ricercata altrove. Innanzitutto, nella vastità della sua cultura e nella poliedricità della sua scrittura, in tempi in cui la cultura profonda è merce rara e di poliedricità si pavoneggiano giornalisti e tuttologi. Quale faccia del prisma vigoliano non basta da sé a diffondere una luce cristallina? La sua poesia, così visionaria e solitaria, così controcorrente, moderna insieme e classicamente restìa al facile avanguardismo? La sua mirabile traduzione del potente Holderlin? La sua prosa d’arte e i suoi racconti, stesi in punta di penna, ma una penna intinta di un inchiostro nero e lucente che non si trova nei minuziosi calamai di certi rondeschi? La musicale prosa del critico musicale? La sua acribìa filologica e interpretativa, nel saggio e nel commento all’opera di Giuseppe Gioacchino Belli, penetrato negli abissi della psiche come nei risvolti dello stile?” […]

dalla Prefazione, di Pietro Gibellini

Il ritorno di sera

Un silenzio m’invita
di perduti sentieri
a un alto prato ove fra i monti sola
mi sorprende la sera: e come chiudo
in me lo sguardo a contemplar intento
vedo nel buio cuor sorgere un’alba
e illuminarsi un ignorato mondo:
dentro di me nascondo un altro cielo.
E par che il sole che nei boschi cade
e brune lascia le contrade e i monti,
in me stesso rinasca ad albeggiare…
e non tramonti
Anima senza tempo in te mi perdo.
Dal profondo m’attiri
come incantato specchio
ove per quanto io miri
non vedo l’ombra del mio viso umano;
ma nei tuoi gorghi affiora
un paesaggio arcano
che di sé le cangianti acque colora.
Così veduto ho un’altra volta ancora
le foreste sul mare
piegar nell’ombra le ispirate fronti,
mentre i ghiacciai sui nuvolosi monti
ardean sospesi come organi d’oro
nell’alba d’antichissimi orizzonti.
Di memoria in memoria alle perdute
vite del cielo tornare mi sembra,
e su laghi di larghi argentei fiori,
quanto più si rimembra
l’anima di que’ suoi lontani albori.
E sento ormai che del corporeo mondo
ogni apparenza trema e si dilegua;
questa è la soglia estrema
ove il pensiero degli umani è spento;
qui d’un alto spavento io provo il gelo
e, se tornare anelo,
non so la via che riconduce in terra.
Dal nodo delle membra si disserra
lo schiavo, sciolto; e si ritrova in cielo.
Ma più grata, al riaprir gli occhi, la cara
terra che amiamo e le borgate e il fiume
che il moribondo lume
della sera d’autunno in se trattiene
e con purpuree vene
l’ultima luce per le valli sparge.
Caro viso di donna anche ritrovo
sulle fidate soglie
della casa serena;
e quasi gli occhi inumidisce il pianto
se sull’amata bocca e sulle chiome
bacio l’antica pena
e il ritrovato incanto
della vita serena.

“Sono rari gli autori italiani del Novecento che si siano interessati a svariate attività culturali come Giorgio Vigolo, il quale unì alle sue qualità di poeta e narratore anche una profonda conoscenza musicale – messa a profitto nelle cronache musicali scritte per giornalie e riviste – una notevole perizia filologica che gli permise di curare per primo, nel Novecento, l’edizione critica dei Sonetti del Belli e doti di fine traduttore che utilizzò nella traduzione di vari autori stranieri, tra cui il poeta tedesco Holderlin. Egli svolse nella sua vita un’attività instancabile, provando però sempre il rincrescimento di non vedere mai pienamente apprezzate dai contemporanei le opere prodotte in tanti anni di assiduo esercizio letterario al quale si era affiancata anche la critica musicale a partire dal secondo dopoguerra.
Non è facile, quindi, ricostruire il complesso itinerario vigoliano non solo per l’estesa produzione artistica che attraversa quasi l’intero secolo ma soprattutto per la grande varietà degli argomenti affrontati dall’autore. Per tale motivo si è deciso d’esplorare solamente l’attività creativa, compiendone un’analisi critica raffrontata anche alle vicende esistenziali di Vigolo. A tale proposito un contributo fondamentale è offerto dalla consultazione dell’esteso Archivio dell’autore conservato presso la Biblioteca Nazionale di Roma – L’Archivio, notevole per la sua completezza, fu acquistato nel 1989 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali dall’erede M. Berardinelli ed è stato ordinato e catalogato dalla scrivente – dove sono documentati, oltre alla genesi delle singole opere, anche gli episodi, gli incontri e le amicizie che costellarono la lunga vita di Vigolo.
L’autore, infatti, ha disseminato numerose tracce per consentire ai futuri studiosi la ricostruzione dell’intera vicenda umana e artistica. D’altra parte, nella produzione narrativa e poetica è ricorrente il tema della memoria che assume un significato quasi sacro. Egli infatti non solo ricollegava ad antiche esperienze numerosi testi poetici e narrativi, ma aveva anche conservato in modo quasi ossessivo remote testimonianze della sua infanzia, dei suoi genitori e delle loro famiglie e dell’ambiente culturale e sociale dove era cresciuto nella sua città natale, Roma, dalla quale si allontanava solo per brevi viaggi.
Per comprendere pienamente la sua arte è necessario compiere con lui il viaggio a ritroso nella sua vita fino ai più antichi ricordi che maggiormente hanno contribuito a definire la sua personalità e la sua ‘topografia poetica’.”
Magda Vigilante

Il mondo sottosopra di Marc Chagall

«Un uomo che cammina ha bisogno di rispecchiarsi in un suo simile al contrario per sottolineare il suo movimento» così come «un vaso in verticale non esiste, è necessario che cada per provare la sua stabilità». È questo il mondo “sottosopra” immaginato da Marc Chagall (1887 – 1985) raccontato in una eccezionale esposizione a venticinque anni dalla sua morte. Dopo il grande successo riscosso al Musée National Marc Chagall di Nizza, che l’ha prodotta e ospitata fino ad ottobre, l’esposizione “Chagall. Il mondo sottosopra” arriva al Museo dell’Ara Pacis di Roma dal 22 dicembre 2010 al 27 marzo 2011. In mostra circa 140 opere tra dipinti e disegni, alcuni dei quali inediti, provenienti da collezioni private, dal Musée National D’art Moderne Centre Georges Pompidou e dal Musée National Marc Chagall di Nizza.
L’evento, a cura del Direttore dei musei nazionali del XX secolo delle Alpi-Marittime Maurice Fréchuret e della Responsabile delle collezioni al Musée National Marc Chagall Elisabeth Pacoud-Rème, è promosso da Roma Capitale, Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione – Sovraintendenza ai Beni Culturali e organizzato dal Musée National Marc Chagall in collaborazione con Zètema Progetto Cultura.

Sottosopra. Il mondo capovolto di Chagall

di Maurice Fréchuret

“L’osservazione di una qualunque opera di Marc Chagall rivela immediatamente gli aspetti singolari racchiusi nel suo universo pittorico.
Personaggi provenienti da un’altra epoca che abitano spazi insondabili, animali trasfigurati in incroci di specie diverse, architetture raffazzonate, teatro di scene di vita quotidiana che costituiscono altrettanti spettacoli incantati: ogni dipinto dell’artista dà modo di contemplare un mondo a soqquadro, non necessariamente a causa di catastrofi o tragici sconquassi, bensì sulla scia dell’incanto e del piacere. Un motivo in più per accettare senza opporre resistenza di farsi rapire dalle tele di Chagall è che ognuna di esse racchiude episodi in cui anche gli esseri umani, gli animali, gli oggetti raffigurati sono stati trasposti, trascinati, traghettati, cosicché le loro immagini – messe sottosopra – si sono allontanate dal porto sicuro delle verità contingenti. I dipinti si aprono spesso e volentieri su paesaggi compositi in cui gli elementi, sfidando la legge di gravità, roteano senza meta e trasgrediscono le norme dell’ordine classico cui soggiace solitamente qualunque raffigurazione. Sono insomma il frutto di una visione unica del mondo, mondo in cui, come l’artista stesso precisa, ‘un uomo che cammina ha bisogno di un contrario contrapposto per definirne il movimento’ e ‘un vaso che sta in piedi non esiste, bisogna che cada per dare prova della sua stabilità’. È, propriamente parlando, un universo capovolto quello che Chagall illustra, un mondo in cui ‘Il tempo ha rotto ogni argine’, per riprendere il titolo di un quadro degli anni trenta, nel quale fidanzati e mariti, rabbini e musicisti, orologi a pendolo e carri, asini e galli, e il pittore stesso, così spesso autoritratto, si cimentano in audaci acrobazie, alla maniera dei circensi, i quali pure sono un soggetto che l’artista ama raffigurare.
Quando, nel 1937, Marc Chagall ottiene la nazionalità francese – mentre i suoi quadri vengono staccati dalle pareti dei musei tedeschi e tre di essi vengono proclamati ‘arte degenerata’ -, l’artista realizza un grande dipinto che intitola La Révolution (‘La rivoluzione’).

È Chagall stesso a tagliare questa tela nel 1943. Le tre parti risultanti da questo smembramento in seguito vengono rielaborate a più riprese dopo la seconda Guerra mondiale. Attualmente sono accostate in forma di trittico e conservate al Musée national Marc Chagall di Nizza . Disegni preparatori e schizzi servono a impostare una scena complessa in cui si mescolano numerosi elementi appartenenti al consueto universo poetico dell’artista, ma anche – fatto più sorprendente – figure in cui si declina una vera e propria sintassi politica. Difatti, nell’angolo superiore sinistro prende corpo una folla compatta di personaggi muniti chi di armi, chi di bandiere rosse; lo slancio che la porta dal basso verso l’alto della tela pare legittimare il titolo del quadro. Questo concentramento di individui mossi dal fervore rivoluzionario segna già un primo scarto rispetto all’abituale doxa iconografica: alcuni animali variamente ibridati e una scena che evoca l’universo circense costituiscono un tentativo di introdurre la parte destra della tela, ancora più aperta alle associazioni d’immagini arbitrarie e alle composizioni estrose. Un gruppo di musicisti circonda un disco colorato che, come fosse una pista da circo, accoglie un trombettista ribaltato e un uomo accorpato, nel senso letterale del termine, al suo violoncello. Una bandiera rossa interseca la scena. Al suo interno sono iscritti gli emblemi della rivoluzione proletaria, falce e martello, anch’essi capovolti. In basso a destra, si di un tetto-letto sono presenti numerosi personaggi, tra cui una coppia abbracciata, un neonato e vari altri soggetti. Un ebreo munito di un fagotto sembra voler raggiungere lo spazio centrale dell’opera, dove è raffigurato un tavolo, posto tanto in evidenza da occupare la scena principale della composizione.Vi è seduto, un gomito appoggiato al tavolo, un rabbino che regge la Torah tra le braccia e porta il tefillin in fronte. Sul tavolo è raffigurato anche un personaggio in equilibrio su una mano, coi piedi in aria. Un’osservazione più accurata di quest’ultimo permette di individuare i tratti caratteristici dei ritratti di Lenin: baffi, pizzetto, occhi dalle sopracciglia accentuate, cappello. La bandiera coi colori francesi, anch’essi ribaltati, sovrasta il tutto sotto lo sguardo di un asino docilmente seduto su uno sgabello.

Malgrado le apparenze, non è facile interpretare tale disposizione di personaggi, oggetti e animali, le cui rispettive cariche simboliche possono entrare in conflitto reciprocamente. Certo, le pietre tombali accanto a cui giace un uomo caduto sulla neve tinta di rosso dal suo stesso sangue sembrano rispondere alla coppia avvinghiata che, dal lato opposto, accompagna i giochi di un bambino. E certamente, il furore rivoluzionario della parte sinistra del dipinto, portatore di violenza e di morte, potrebbe dirsi contrapposto alla scena più placida sulla destra, dove l’amore, la musica e la poesia si manifestano come veri motori del cambiamento. E ancora, sicuramente, il periodo, di intenso inasprimento sociale il cui culmine è rappresentato dal fronte popolare in Francia e dalla guerra civile in Spagna, ricorda senza dubbio all’artista il suo stesso impegno durante la Rivoluzione d’Ottobre e le delusioni cui anch’egli avrebbe dovuto presto far fronte. La rivoluzione si potrebbe dunque interpretare come un’opera dicotomica la cui rigida impostazione in due sequenze distinte e contrarie, potrebbe fungere, da sola, da compendio del pensiero e dei sentimenti dell’artista. Tuttavia, l’osservazione degli schizzi e di altre variazioni sul tema a noi note, può condurci a una lettura leggermente diversa. Franz Meyer, interpretando la postura di Lenin ‘simile all’ago di una bilancia’ come il simbolo dell’ ‘equilibrio delle due metà, delle due rivoluzioni, che costituisce il sogno dell’artista’ apre a una lettura leggermente diversa. Infatti, nei diversi studi realizzati, il personaggio con la posizione acrobatica descritta non è sempre lo stesso. Talvolta assume le sembianze del leader rivoluzionario, ma in un’altra versione ha l’aspetto dell’artista stesso accostato al fianco sinistro di Cristo sulla croce e la cui immagine è di dimensioni più ridotte, come quelle dei donatori sulle predelle o nei quadri antichi. L’intento è dunque quello di interrogarsi proprio su questa successione di personaggi e, quindi, porre delle questioni sulla trilogia politica-religione-arte, cui essa rinvia.

La ‘rivoluzione’, insomma, intesa anche nella sua accezione fisica (roteazione, ribaltamento), si incarna in personaggi dall’identità mutevole posti nel fulcro stesso del dipinto, dello schizzo o dello studio preparatorio. L’immagine del leader rivoluzionario, per quanto risulti sorprendente nelle opere di Chagall, trova così una sua collocazione.
Il rovesciamento radicale di valori condivisi è la chiave di lettura del pensiero rivoluzionario, il quale, nello schema hegelianomarxista, esige il ribaltamento loro e del mondo che li ha generati.
Anche se le interpretazioni successive hanno sensibilmente ridimensionato la portata del pensiero dialettico , le sue parole-chiave conservano intatta la loro elevata carica simbolica. Svolta, bivio, cambiamento, trasformazione, ribaltamento, conversione, sovvertimento, trasmutazione sono tutte nozioni che costellano i testi delle teorie marxiste e, di conseguenza, quelli della vulgata leninista. Il pennello di Chagall le trasforma in singolari immagini dall’impatto visivo dirompente. È l’artista stesso a individuare dei collegamenti: ‘La Russia si copriva di ghiaccio. Lenin l’ha messa sottosopra, proprio come io ribalto i miei quadri’ . Ma una simile risolutezza trova anche altri terreni in cui operare. Nominato commissario delle Belle-Arti di Vitebsk, sua città natale, nel settembre 1918, Chagall organizza immediatamente una grande manifestazione artistica per commemorare il primo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre .
Le strade furono tappezzate di bandiere e numerosi artisti della città e della regione, mobilitati per l’occasione, ebbero modo di partecipare al grande evento. Furono esposte anche le opere di Chagall che rappresentavano figure insolite, che avevano suscitato l’entusiasmo del pittore, la curiosità degli operai, la commozione dei dirigenti di partito: ‘Gli imbianchini, i vecchi con la barba, e anche i loro apprendisti, tutti si sono messi a copiare le mie mucche e i miei cavalli.
E il giorno 25 ottobre, in tutta la città, le mie bestie multicolori sventolavano, gonfie di rivoluzione. Gli operai avanzavano cantando l’Internazionale. A vedere come sorridevano, sono certo che mi avevano capito. I capi, i comunisti, sembravano meno soddisfatti. Perché la mucca è verde? E perché i cavalli volano in cielo?’ .

L’ingenuità dei dirigenti di partito avrebbe presto mutato volto, trasformandosi nelle rigide disposizioni stabilite qualche anno più tardi da Andrej Aleksandrovicˇ Zˇdanov. I principi che fondavano l’estetica del realismo socialista, tra cui quelli che invitavano scrittori e artisti a produrre opere volte a omaggiare il lavoro del popolo e i benefici del Partito, non andavano affatto a genio a Chagall, il quale, pur avendo aderito all’Unione Comunista della Gioventù sin dal 1917, avrebbe persistito nel dipingere le sue mucche, i suoi amanti, i rabbini e i violoncellisti in un movimento che non faceva che travolgerli, sollevarli, rotearli,producendo evoluzioni tra cielo e terra .Una simile iconografia avrebbe trovato presto la collocazione a essa più congeniale: la scena teatrale. E quando nel 1920 Alexis Granowsly, direttore del Teatro nazionale ebraico Kamerny di Mosca, gli propone di lavorare alla scenografia della pièce dello scrittore Sholem Aleichem in programma, Chagall trova lo spazio ideale per svilupparla pienamente . L’Introduzione al Théâtre d’art juif è una delle opere più importanti del pittore. Nel pannello centrale così come nei due pannelli laterali destinati a ricoprire le mura del teatro, i personaggi navigano in uno spazio che, benché fortemente strutturato architettonicamente da linee oblique e curve molto marcate, non riesce a imbrigliarli. Sulla sinistra apre le danze una mucca verde dipinta in verticale, primo elemento di un fregio dove personaggi, animali, oggetti di vita quotidiana e architetture circolano liberamente, in ogni direzione. Un autoritratto del pittore con tavolozza, compare sulla spalla dell’amico Efross, come pure, tre anni prima, su quella della moglie Bella in Doppio ritratto con bicchiere di vino . L’Introduzione al Théâtre d’art juif è un’opera ampiamente autobiografica, non solo perché dà spazio alle persone che lo circondano, ma anche perché l’intero universo di Chagall vi figura, con l’abituale bestiario e gli oggetti che ricorrono nelle sue opere . Le dinamiche in azione nell’insieme dei pannelli raggiungono l’apice assoluto nell’Amore in scena e nel fregio detto Il pranzo di nozze, in cui gli elementi, talvolta al limite del figurativo, danno l’impressione di essere travolti da un turbine che li disperde nello spazio. Alla rinfusa, quel che si riesce a distinguere nel fregio: posate, piatti, bicchieri, coppe di frutta, caraffe e forme di pane sembrano abbandonarsi agli stessi esercizi acrobatici dei personaggi che danzano a testa in giù nella parte superiore a destra del pannello centrale. Costoro sono forse ispirati, come ha suggerito Franz Meyer, dal dinamismo e dall’entusiasmo degli antenati chassidim, la cui comunione con Dio si manifestava molto spesso con e attraverso l’allegra pratica del canto e del ballo.

La cultura religiosa di Chagall è un altro aspetto che può condurre a comprendere la forte propensione al rovesciamento e alla dispersione delle figure che anima tutta l’opera dell’artista. La Torah, anch’essa spesso rappresentata, o la Bibbia nel suo insieme, sono una fonte essenziale per comprendere la sua opera. Così, per esempio, in Genesi la prima immagine descritta è quella del caos, ovverossia l’immensa confusione degli elementi prima dell’intervento divino che li ordina mettendo in opera un processo di separazione: l’acqua e le terre emerse; la luce e l’oscurità; la folla dei viventi nelle acque e nei cieli… Tuttavia l’immagine del continuo peregrinare è quasi sempre associata al popolo ebraico. Numerosi sono gli episodi in cui i protagonisti sono chiamati ad affrontare uno spazio illimitato, propizio a spostamenti e peregrinazioni. L’Esodo racconta per esempio di come il popolo ebraico affronta il deserto per raggiungere la Terra Promessa e, prima di questo, la sua dispersione in Egitto per la raccolta della paglia. Il cammino degli emigranti nelle terre di Canaan fu, secondo i testi, unmomento difficile e faticoso ma, una volta compiuto, divenne per un certo periodo garanzia di equilibrio e stabilità. L’esodo e le numerose diaspore che questo popolo ha dovuto patire per millenni, e che lo hanno condotto ad approdare in miriadi di regioni e paesi in tutto il mondo, trovano una loro collocazione nelle pitture e negli scritti di Chagall. La folla in Mosé percuote la roccia o in Mosè riceve le Tavole della Legge – quadri esposti in permanenza nella Sala del messaggio biblico del Musée national – e quella in fuga dall’incendio in Il cavallo rosso, conservano la memoria degli allontanamenti subiti e delle fughe che la storia, nei suoi sviluppi più brutali, ha spesso reso necessarie. Nel suo libro autobiografico Marc Chagall ricorda: ‘L’esercito avanzava e, di pari passo, la popolazione ebraica retrocedeva, abbandonando le città e i sobborghi’ e conclude, conferendo alla sua arte una missione protettrice, ‘sentivo il desiderio di accoglierli nei miei quadri, per metterli al sicuro’ . Nulla è tanto convincente quanto l’immagine del vecchio ebreo, fagotto in spalla, che appare e scompare nelle opere dell’artista. Provvisto di bastone e di cappello con visiera, protetto dal suo lungo mantello, questo personaggio appare molto di frequente.

Egli solca il cielo di Sopra Vitebsk, si prepara ad attraversare il campo innevato della Rivoluzione, si fa strada nel fondo bianco del Pendolo dall’ala blu, segue il carro affollatissimo della Guerra, per poi proseguire il suo cammino a testa in giù nello spazio rosso del Cantico dei Cantici II. La sua avanzata, solitariama tenace, è una ricerca che mantiene tutto il suo mistero. A meno di individuare, nell’immagine dell’ebreo errante, tanto frequentemente raffigurato nei quadri dell’artista, lo stesso Chagall che, postosi a guardia della memoria di tutti gli esuli, attraversa lo spazio del dipinto come altri hanno attraversato territori e regioni. L’artista rivolge una supplica a Dio, interpellandolo così: ‘Rivelami il mio cammino. Non vorrei essere come gli altri; io voglio vedere un mondo nuovo’ . Colui che cammina è il creatore poiché il suo percorso è invenzione. Colui che cammina è il pittore stesso, come rivelerà Majakovskij a proposito di Chagall, sottolineando, con pertinenza, il senso dello pseudonimo adottato .
Dalla realtà alla tela, numerose sono le possibilità di vagabondare, e, così facendo, di lasciare sgorgare le immagini relative al mondo delineato dai dipinti. Descritte sulla pagina, esse si inseriscono all’istante nel quadro: ‘Accadde che, per via del bel tempo, il nonno si era arrampicato sul tetto, si era seduto sui tubi e si gustava delle carote. Niente male come quadro’ ; ‘E tu, mucchina, nuda e crocifissa nei cieli, sogni’ ; ‘Talvolta la candela sale verso la luna, talaltra la luna scende verso le nostre braccia volando. Anche la strada prega. Le case piangono’ ; ‘Estasiato, coi piedi affondati nel terreno, un maiale trasparente se ne sta qui, davanti a me’ ; ‘Stringo con più forza i corrimani, le mie mani gelano. Io volo e il treno vola con me’ . E se facciamo ricorso alle poesie scritte da Chagall, immagini simili volteggiano verso di noi: ‘Je marche par le monde comme dans une forêt / Sur les pieds, sur les mains, de-ci de-là / D’arbre en arbre les feuilles tombent / Elles me réveillent, j’ai peur’ (‘Cammino per il mondo come in una foresta / Sui piedi, sulle mani, di qui di là / Di albero in albero le foglie cadono / E mi risvegliano, ho paura’); ‘Là où se pressent des maisons courbées / Là où monte le chemin du cimetière / là où coule un fleuve élargi / Là j’ai rêvé ma vie’ (‘Laddove si accalcano case ricurve / Laddove sale il cammino al cimitero / laddove scorre un fiume e s’ingrossa / Là ho sognato la mia vita’).

Come spiega Philippe Jaccottet, che ne ha realizzato la traduzione in francese, le poesie di Chagall ‘ritrovano spontaneamente i grandi temi di cui si nutre la sua pittura’ . La città russa (Vitebsk), gli innamorati, i profeti, i rabbini, lo stesso artista e tanti altri soggetti non nominati che pure appartengono al suo universo. Un universo che, teniamo a sottolinearlo più in dettaglio in questa sede, ritrova nelle immagini del disorientamento la fonte stessa di una ricchezza che si autoalimenta. Per questi motivi l’opera di Chagall ha suscitato l’interesse dei surrealisti, le cui ricerche seppero spesso far posto alle stesse immagini di rovesciamento e capovolgimento . La parola ‘letteratura’ (littérature in francese) diventa ‘eruttaéttil’ oppure ‘lit et ratures’ (‘letto e scarabocchi’…) e i testi contenuti nelle riviste sono altrettanto ‘disordinati’ in quanto le forme del linguaggio sono, agli occhi dei membri del movimento, ancora più forti nel contrapporsi al tradizionale ordine delle parole e all’abituale sviluppo della sintassi. Presso questi artisti, la stessa propensione a sospendere il dispositivo delle rappresentazioni classiche, la stessa tendenza a creare disordine può manifestarsi nella normale percezione delle immagini. La superficie della tela, come quella della pagina, diventa un campo aperto a nuove e fruttuose sperimentazioni, grazie all’introduzione di elementi di dispersione, o alla decostruzione dei codici visivi ordinari, o ancora con l’applicazione di effettive distorsioni delle forme. Il pianeta surrealista è proprio ‘la planète affolée’ (il pianeta impazzito) i cui confini sono stati dilatati, i punti di riferimento cancellati da Max Ernst e tanti altri con lui. L’automatismo della scrittura, la pratica del collage, i dispositivi volti a sparpagliare le immagini e le tecniche di esplosione della forma (tra cui il gioco del cadavre-exquis) hanno largamente contribuito a dipingere il surrealismo come un movimento pronto ad adottare la modalità del rovesciamento per la sua sensatezza poetica. Joan Miró ha fatto ricorso, nelle sue opere pittoriche e, più tardi, nelle sue opere tridimensionali, ad accostamenti casuali di forme o di oggetti, proprio come Max Ernst, le cui composizioni ‘derealizzanti’ si basano su analoghe organizzazioni spaziali.

Il principio del rovesciamento, o della conversione, è attivo anche nei celeberrimi orologi flessibili di Salvador Dalí, o negli oggetti, spesso allungati oltremisura, racchiusi negli spazi illimitati rappresentati nelle opere di questo artista. Stesso discorso per le opere di Yves Tanguy, che l’artista popola di forme minerali e rispettive ombre, che le rendono indubbiamente più concrete, ma tutt’altro che stabili. Le bizzarre creature che popolano le opere di Victor Brauner, gli oggetti aerei liberati dalla legge di gravità di René Magritte (palle metalliche, rocce, sedie, strumenti musicali che fluttuano in cielo…), le forme lisce e biomorfe che costellano i legni di Hans Arp o i dipinti di Miró, tutti questi elementi contribuiscono pienamente alla possente trasfigurazione del reale cui lavora tutto l’insieme di artisti e poeti del gruppo.
Queste posizioni sapranno presto individuare nell’opera di Marc Chagall gli elementi necessari per consolidarsi. La ‘deriva sognante’ che l’artista intende mettere in atto per sé, e nella quale trascina
tutti i soggetti della sua produzione (personaggi, bestiario, oggetti a lui familiari), è in effetti recepita molto positivamente dagli appartenenti al surrealismo, che non si stancheranno mai di sollecitare – inutilmente – l’artista a unirsi ufficialmente al gruppo . Non si sbaglia André Breton quando, nel 1941, nella sua Genèse et perspective historiques du Surréalisme, sottolinea giustamente le proposte innovatrici di Chagall e designa definitivamente il contributo dell’artista come iniziatore dello spirito surrealista: ‘La sua esplosione lirica è datata 1911. A partire da quel momento la metafora, con lui solo, segna il suo ingresso trionfale nella pittura moderna.

Per attuare il ribaltamento dei piani spaziali preparato molto tempo prima da Rimbaud e, al tempo stesso, per liberare gli oggetti dalle leggi della pesantezza e abbattere le barriere che separano gli elementi e i regni, la metafora suddetta nell’opera di Chagall si rivela improvvisamente, su un supporto plastico, nell’immagine ipnagogica e in quella eidetica (o estetica) che sarà scritta solo più tardi con tutte le caratteristiche che Chagall ha saputo conferirgli’ . Non mancano infatti le affinità, e riguardano tanto gli obiettivi quanto i mezzi per raggiungerli. Le immagini del sogno, la loro trascrizione nel quadro, la trasmutazione che implica questo tipo di attività, le metamorfosi riconosciute cui giunge quest’ultima.Tutto avvicina la ricerca surrealista alle invenzioni di Marc Chagall. E tuttavia il legame non sarà per questo più solido, non più di quanto non lo fosse qualche anno prima con altri rappresentanti dell’arte moderna (Malevic, El Lissitzky, Puni…). E questo perché, per Chagall, il lavoro stesso dell’artista deve liberarsi da qualsiasi precetto teorico troppo rigido, sempre suscettibile di limitarne la portata poetica. La sua posizione è semplice, e può essere riassunta con una semplice frase tratta dal suo scritto autobiografico. Frase che gli ha fatto da bussola per tutta la vita: ‘Mi tuffo nelle mie riflessioni e volo al di sopra del mondo’.”

Mimmo Rotella e Alda Merini, atto d’amore

Mimmo Rotella e Alda Merini uniti in un comune ricordo, nella mostra che si inaugura il 18 dicembre nel Palazzo Reale di Milano e che resterà fino al 15 febbraio.
Entrambi ttrovarono infatti, fonte di ispirazione in Marilyn Monroe, tanto che nel 2005 avevano progettato un lavoro comune in cui poesia e pittura convergessero su Marilyn,  uno dei maggiori simboli di bellezza del Novecento.
La Merini e Rotella sono tuttavia scomparsi senza che il loro progetto artistico si concretizzasse. Questa mostra riprende quell’idea, in un percorso che sottolinea come entrambi, (la Merini con alcune sue poesie e Rotella con gli strappi di manifesti cinematografici raffiguranti la Monroe), fossero stati catturati dal mito dell’attrice.
La rassegna si estende inoltre sull’ampia attività dei due protagonisti della cultura italiana ed in particolare milanese, dove entrambi hanno vissuto a lungo e sono morti. Oltre a dieci ‘decollage’ di Rotella  dedicati a Marilyn realizzati dagli anni Sessanta al 2004, ne vengono esposti anche altri venti su grandi lastre di lamiera, come quelle che nella realtà metropolitana vengono usati per incollare i manifesti pubblicitari.
Per la prima volta è anche possibile ascoltare i ‘Poemi fonetici’, composti da Rotella nel 1949.
La figura di Alda Merini è approfondita da proiezioni di sue poesie, tra le quali dieci inedite, e filmati sulla sua vita.
In primavera la mostra sarà portata a Catanzaro, dove è nato ed è sepolto Mimmo Rotella. L’iniziativa rientra in un programma di collaborazione culturale tra le Regioni di Lombardia e Calabria.

www.mostrarotellamerini.it

Le midolla del male

Nell’ambito delle iniziative culturali promosse dalla Fondazione Toti Scialoja, costituita il 19 maggio 2000 per volontà testamentaria di Gabriella Drudi e in ottemperanza dei desideri di Toti Scialoja (Roma, 1914 – 1998) sono stati istituiti un Premio per la poesia e un Premio biennale per i linguaggi artistici.

Per la prima edizione del Premio per la poesia il Consiglio di Amministrazione della Fondazione, su indicazione di Paolo Mauri, ha deciso di assegnare il premio al poeta Emilio Zucchi per il suo poemetto Le midolla del male edito da Passigli.

Giuseppe Conte, nella prefazione al volume scrive: “Emilio Zucchi non ha paura di raccontare. Di piegare una ispirazione potentemente lirica alla disciplina della narrazione. Della sintassi. Della ragione. È un momento di poesia compiuto e solenne. Di tensione etica severa e dolcissima. Di cui sono grato a Emilio Zucchi, che si conferma qui poeta di grande tempra stilistica e spirituale”.

Il premio verrà consegnato giovedì 16 dicembre alle ore 18,00 all’Accademia di San Luca a Roma (Piazza dell’Accademia di San Luca, 77). Nel corso della manifestazione, dopo una lettura dei propri versi da parte del poeta vincitore del premio, verrà ricordata l’opera poetica di Toti Scialoja.

Emilio Zucchi è nato nel 1963 a Parma, dove vive. Ha pubblicato le raccolte poetiche Il pane (Campanotto, 1994, recensito da Giovanni Giudici su l’ “l’Unità”), Il pioppo genuflesso (prefazione di Mario Luzi, Diabasis, 2001), Tra le cose che aspettano (prefazione di Maurizio Cucchi, Passigli, 2007; finalista nello stesso anno ai Premi Viaraggio-Répaci e Cetonaverde Poesia) e, nell’ottobre del 2010 edito da Passigli, il poemetto storico Le midolla del male, ambientato nel 1945-’44 a Firenze, Roma, Parma, Milano e incentrato sulle figure del torturatore fascista Pietro Koch e di Anna Maria Enriques, partigiana cattolica toscana seviziata e uccisa dagli aguzzini in camicia nera.

XXXIII
Anna Maria, Anna Maria Enriques:
questo è il mio nome, Pietro Koch, ricordalo.
Ero già morta quando tu salivi
verso Milano per aprire un’altra
Villa Trieste, peggiore della prima,
perchè è sempre peggiore il male fatto
per la seconda volta. Quando vidi
i tuoi occhi, quel giorno, nelle camere
delle torture, dove fuoriuscivano
dal mio corpo le linfe della vita,
dove per giorni e giorni fui tenuta
in piedi con le scosse
elettriche, tenuta sveglia, e il sonno
mi tormentava; quando
vidi i tuoi occhi, io vidi, come specchi
moltiplicati a mille nel riflettersi,
tutto l’inganno del possesso, tutto
l’errore che comprime il mondo, tutto
il mentecatto tempo delle cose
chiuse dentro le cose sotto un sole
smunto di sete. Arno, padre di carmi,
infuse in me silenzi lunghi e assorti,
quando i libri mi accolsero ragazza,
e mi furono amici, mi ascoltarono;
poi, molti anni più tardi,
una goccia brunita del suo scorrere
si mescolò a una goccia del mio sangue,
portata dal Mugnone suo affluente,
presso il quale la vita mi fu tolta.
Tu, Pietro Kock, non sai quanta bellezza
c’è in un fiore di campo, in un cortile
con le lenzuola stese, nel diario
di una ragazza timida, nel vento
sopra l’erba ingiallita… Tu non sai
l’immensità di un treno in lontananza
e di una latta arrugginita accanto
a due bimbi che giocano; non sai,
non sai, non sai… Io ero morta da un anno,
la sorte di Tamara Cerri, andasti
a consegnarti in questura: la cella
per te e il processo e la condanna a morte,
in cambio della sua liberazione.
Ora prego per te, perchè quel gesto
in te sia stato amore,
e non superba, vanagloria. Infame
e ripugnante ti ricordo; eppure,
io spero che alla tua interiore tenebra,
smisurata di male,
d’amore una scintilla sia sfuggita
eternamente. Pietro,
io spero quel bagliore, propagandosi
fino alla foce attonita del tempo,
lampo d’eternità, lampo, divenga,
nullificando il tuo inferno. Io ti aspetto.

da Le midolla del male di Emilio Zucchi, Passigli Edizioni
www.fondazionetotiscialoja.it