Asta record per memorabilia poeti francesi

Una collezione di quasi 200 opere, fotografie, manoscritti e stampe intorno a tre figure emblematiche della poesia francese, Arthur Rimbaud, Paul Verlaine e Stephane Mallarmé, è stata venduta all’asta per 1,5 milioni di euro da Sotheby’s a Parigi. Ad essere proposti sono stati in tutto 180 lotti provenienti dalla biblioteca di Eric e Marie-Helene B., due collezionisti anonimi, che comprendono, tra l’altro, anche i contemporanei dei tre poeti, Oscar Wilde, Tristan Corbiere, Alfred Jarry o Villiers de L’Isle-Adam. Frutto di quarant’anni di collezionismo, precisa la casa d’aste, il fondo ha offerti pezzi scelti con grande cura: rilegature d’epoca, documenti autografi, manoscritti, fotografie originali e disegni.

Il prezzo più alto è stato pagato per un manoscritto autografo di Mallarmé, battuto a 96 mila e 750 euro.

La collezione attraversa anche la mitica storia d’amore tra Rimbaud e Verlaine con lettere e documenti che testimoniano le loro relazioni affettive. Venduta all’asta per 39 mila e 150 euro anche la lettera che  Oscar Wilde scrisse all’amante Alfred Douglas, lettera che il padre del giovane presentò al processo contro lo scrittore.

Tra i protagonisti della vendita ci sono anche pittori e musicisti con libri illustrati da Gustav Klimt, Edouard Manet, Maurice Denis, Pierre Bonnard o Paul Signac. Senza dimenticare l’unica lettera d’amore che il Doganiere Rousseau invierà alla futura moglie, accompagnata da una foto con dedica del pittore nel suo studio, stimata tra i 15 mila e i 20 mila euro. Gli amatori potranno anche scoprire un raro ritratto fotografico di Richard Wagner, scattato a Parigi prima di una sua rappresentazione.

Paola F. Febbraro, ‘Al giusto verso’

“Quando Brunella Antomarini mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul rapporto tra la poesia e i sensi, le ho risposto proponendole di fare degli incontri che avrei registrato e poi trascritto.
Quello che Brunella Antomarini mi diceva a riguardo mi interessava e mi stimolava molto. Anch’io, come lei, volevo saperne di più. Per questo alla fine, dopo aver tentennato per un anno intero attorno a diverse soluzioni su come utilizzare il materiale, ‘illuminata’ da un ultimatum tipografico, ho deciso di trascrivere integralmente (o quasi) questi ‘dialoghi’, avvenuti in tre incontri: dal dicembre del 1999 al febbraio del 2000. Ho lavorato al testo per rendere scorrevole ‘la lingua parlata’ togliendo o aggiungendo, ma sempre rimanendo fedele al modo in cui i dialoghi si erano sviluppati, i ‘contenuti’ dei nostri dialoghi. Ho voluto lasciare anche quelle che ho titolato come ‘Appendici a registratore spento’ dove, ritrovata una certa forma di intimità, mi sono lasciata andare a sintesi più ‘libere da orecchie indiscrete’. Le Appendici sono state possibili grazie agli appunti presi da Brunella Antomarini. Nota: nel terzo e ultimo incontro mi fu offerta una Tequila. Incautamente. Forse.”
Paola F. Febbraro

Dicembre, primo incontro
Brunella Antomarini
La teoria dello Ione di Platone dice che i poeti sono anelli di una catena. Ognuno si attacca al precedente e si trasmettono le poesie, uno con l’altro fino ad arrivare allo ‘spettatore’.
Una poetessa americana, Susan Stewart, ne dà un’interpretazione più psicoanalitica. In un suo saggio riporta la ricerca di uno psicoanalista che racconta come certi pazienti, per esempio, facciano delle azioni del tutto inutili e si chiede come mai; sono come compulsioni che si scoprono legate a quelle che un antenato compiva con un motivo preciso; c’è n’è uno che vuole fare il geologo e vuole spaccare le pietre, però sente che in quest’azione c’è qualcosa che lo riguarda profondamente e scopre che suo padre o suo nonno spaccava le pietre, nel senso che era stato mandato ai lavori forzati e poi morto nei campi di concentramento; per cui questo spaccare le pietre era connettersi all’azione di qualcun altro. L’azione di qualcun altro penetra dentro di lui e lei dice che allo stesso modo nella voce del poeta c’è quella del poeta precedente, come dice Platone. La voce è come un magnete. Ecco perchè questa voce del poeta prende – lei usa un’espressione bellissima – ‘una traiettoria difficile’. La traiettoria difficile consisterebbe nel ritmo, nel verso o anche in questa voce, che, come dici tu, non è mai una voce qualsiasi, ed è una voce che viene dal corpo, è somatica. Tu ascolti il poeta e poi questa voce viene dentro di te e tu la ripeti a qualcun altro e un altro e così via; questa voce che deve essere solenne, ritmica perchè fa parte di altre regole che non sono solo quelle della semplice comunicazione, una voce che deve essere assimilata dal corpo e non dall’apparato simbolico. C’è allora una specie di domanda: perchè noi dovremmo avere bisogno di questa voce? Perchè gli esseri umani si sono costruiti questo grande abito di parlarsi per queste voci, come se non ci bastasse un solo tipo di comunicazione, quella ordinaria.

Paola F. Febbraro Per bisogno di conoscersi. Tutti.  Ma adesso qualsiasi risposta mi sembra insufficiente, in altre parole più complicata del necessario. Potrei dirti che il linguaggio poetico è il linguaggio capace di far compartecipare emozione e memoria. Ed è attraverso l’emozione che il ricordo può diventare nutrimento e strumento per qualsiasi presente.

Brunella Antomarini Ma tu usi dei versi, non parli così… tu hai bisogno del verso giusto per dare un inizio e una fine al flusso di parole. Questa ritmicità allora è solo uno strumento? E’ strumentale solo al fatto che io l’assimilo meglio?

Paola F. Febbraro Il ritmo, la lunghezza del verso deve tentare di riprodurre la mia energia, il mio fiato, direi quasi il tempo di ricezione dell’emozione. Stendo la misura del mio respiro. Ho un pensiero limpido e poi ho bisogno di fermare il senso… perchè c’è anche il senso. Le parole hanno un significato e il significato più avanti si va più ‘pesa’, perchè una parola se ne porta appresso tanti, è carica di significati di altri ‘sistemi’: politici, storici, giuridici, anche letterari e quindi quella parola potrebbe significare qualcosa di diverso da quello che io vorrei liberare. Vorrei che la parola portasse soltanto quello che nomina oppure soltanto se stessa. Quella parola allora potrà anche sorprendermi.

Brunella Antomarini Deve essere sorprendente la parola del poeta?

Paola F. Febbraro La parola nella poesia non deve essere sorprendente, casomai deve essere capace di suscitare ‘meraviglia’ che vuol dire vedere il mondo e se stessi da un punto di vista ‘diverso’, mai esplorato prima. Quando scrivi una poesia quello che scrivi è come se fosse lì per la ‘prima volta’. […]

Appendice a registratore spentoLa parola sia come suono che come segno era parola magica.

 

Il linguaggio è potente, capace di violenza. Una parola di guerra è di per sè violenta. La pubblicità della lotta al cancro, per esempio, è scritta in un tono così violento… Cioè dice che c’è una guerra contro il cancro ed è questa guerra che fa venire il cancro. L’anima interiorizza le parole, per questo la lingua poetica non è solo questione di tecnica e di tradizione. Il poeta ha anche una responsabilità, perchè una poesia è un organismo, è un ‘oggetto particolare’ riproduce un percorso di esplorazione e conoscenza. Con una certa parola io continuo da una parte e non da un’altra. Se decido di non usare il tu e di scegliere l’io è perchè in quel punto è un tu così generico, direi così neutro, che confonde. La poesia è sciamanica, capace di ‘guarire’. Perchè una poesia guida a un’esperienza d’entrata e di uscita che tu stesso hai fatto, tu fai entrare al primo verso e fai uscire all’ultimo. E’ testimonianza di un’esperienza che può essere rivissuta. Per questo il poeta ha la responsabilità di non confondere se stesso e il lettore. La poesia manda al giusto verso il sentire. Il verso è il giusto verso, se confonde manda al verso sbagliato il sentire. Qui il verso sta ad indicare anche una direzione, un orientamento. Il ritmo, la versificazione, la tradizione, evitano che si vada in una direzione qualunque.

Gennaio, secondo incontro

Brunella Antomarini C’è una differenza tra scrittura e oralità? Noi ormai apprendiamo attraverso la poesia scritta e la riproduciamo per iscritto. Mi sembra che le due cose possano anche essere due cose diverse, o no? Se non sono diverse dobbiamo ridurle a qualche cosa che hanno in comune? Oppure l’una è soltanto quella che viene dopo l’altra, la scrittura viene dopo l’oralità? Comunque noi ci riferiamo anche solo inconsciamente alla sonorità, anche se usiamo la scrittura, oppure c’è una sinestesia per cui noi usiamo tanto l’una quanto l’altra, tanto l’orecchio quanto l’occhio?

Paola F. Febbraro La parola scritta fa sempre riferimento al Canto ma ne è privata proprio perché è scritta. Oggi dopo Rilke, che è stato l’ultimo che ha toccato il Canto, scrivere poesia è aver perduto il Canto. Il Canto è la cosa perduta della poesia, perché se tu scrivi non canti. Questo estremizzando e l’estremizzazione serve in quanto spinta etica alla ricerca, alla chiarezza, all’essere sempre presenti al proprio lavoro. Bisogna essere più tranquillamente chiari: la perdita del canto non è una cosa che distrugge la poesia ma è una cosa che io quando scrivo debbo sapere. […]

Appendice a registratore spento

Essere poeta vuol dire essere visibile e invisibile insieme: il poeta, essendo esso stesso strumento della propria arte, si porta appresso se stesso dovunque vada. Croce e delizia.

Bisogna avere così cura del proprio essere strumento che l’autodichiarazione pubblica di essere poeta provoca l’identificazione con qualche cosa che non gli appartiene. Il lavoro è più interiore. Mi sento poeta perché mi sento in amicizia con altri poeti prima di me. E questa amicizia reclama una forte ‘intimità’, una forma di segretezza.

I campi semantici della parola. Per esempio ‘serena disperazione’. Io ho riconosciuto la mia genealogia poetica, seguendo questa parola in quel campo ed escludendone altri. Con ogni parola puoi fare un percorso oppure un altro. Per esempio ape. Ape, così presente nelle poesie di Emily Dickinson. Quando scrivo ‘ape’ evolvo quel ronzio e non un altro. Ape ora per me è diventata intelligenza femminile così piena di passione anche fisica, anzi, di desiderio. Così come me l’ha trasmessa Emily Dickinson, e poi anche Amelia Rosselli. La uso come ponte per viaggiare, come vero e proprio strumento di ricerca. Se l’ape attraversa certi significati, attraversa certi ponti, mi porterà in altri campi. Mi prendo la responsabilità di usare ape in modo da continuare l’esperienza di quel poeta. Per fare questo devo prima di tutto essere capace di riconoscenza verso Emily Dickinson. E in un certo senso essere riconoscenti significa anche andare avanti, non ripetere lei. La riconoscenza passa anche attraverso una certa commozione. Mi commuove chi per la prima volta porta una parola in un altro campo o la dà così: nuda e cruda. Mi spinge a curare me stessa come strumento della poesia. Mi commuovo perché so quanto è costato scrivere in quel modo. Nella commozione apprendo. Cerco di avere cura di questa mia commozione, non me ne lascio annebbiare ma ne assimilo l’insegnamento che è: sii libera di continuare a lavorare.

Un ringraziamento particolare a Brunella Antomarini, Franca Rovigatti e Maria Teresa Carbone per aver ‘portato in luce’ nel corso degli incontri di PoEtiche 2010 questo discorso sulla poesia di Paola F. Febbraro, pubblicato da Il Cannocchiale, N.1, gennaio/aprile 2002 qui riportato solo in un piccolo frammento.
Luigia Sorrentino

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Franco Buffoni, “Laico alfabeto in salsa gay piccante”

“Laico alfabeto in salsa gay piccante. L’ordine del creato e le creature disordinate” di Franco Buffoni (Transeuropa Edizioni, 14,00).
Si tratta di 56 voci, due per ogni lettera dell’alfabeto, con cinque inserti saggistici di più ampio respiro a fare da collante a una tesi di fondo: perché non possiamo parlare di omosessualità senza chiamare in causa ateismo e scienza? L’obiettivo è liberarsi dal retaggio biblico, in virtù del quale si ritiene che un “creatore” abbia voluto generi e specie così come sono, immutabilmente: l’ordine del “creato”. Da lì nasce il pregiudizio anti-omosessuale (assente nel mondo greco-latino) che descrive gli omosessuali come coloro che ostacolano la “volontà divina”.

«Quali sono le cause dell’omosessualità? Questa è la domanda che – almeno dal 1973 – non dovremmo più porci. Nel 1973, infatti, l’associazione americana di psichiatria cancellò l’omosessualità dall’elenco delle malattie. Da allora le cose cominciarono lentamente a cambiare per le nuove generazioni. Se è una malattia deve avere una causa. Se non lo è, smette di doverla avere. E se si ammette che un individuo su dieci è omosessuale o bisessuale, ad ogni nascita si dovrebbe sempre ritenere di avere 10 probabilità su 100 che il nuovo nato sia sessualmente orientato verso il proprio sesso. Dunque, smettiamola di chiederci che cosa sia l’omosessualità e cominciamo a porci solo domande conoscitive, culturali, descrittive: come si manifestava nei tempi bui l’omosessualità? Come si manifesta oggi?» […]

«Per secoli si pensò che la condizione dei mancini fosse “innaturale” e si cercò di correggerla, di “guarirla”. Furono oggetto di grandissima ostilità. E anche per loro – poi – si fece l’elenco dei grandi uomini, artisti o condottieri, che lo erano o lo erano stati. Anche per loro si sfoderarono percentuali: si dice che fossero (e che siano) attorno al quindici per cento, mentre gli omosessuali sono quotati al dieci. Oltre cinque milioni di italiani, secondo le stime Eurispes. L’analogia potrebbe proseguire con la categoria dell’ambidestro, che varrebbe il bisessuale. Mi domando: in Italia siamo ancora a questo punto? Chi decide che cosa è naturale e che cosa non lo è? Gli scienziati, i deputati dell’Udc, il comune buon senso? Padre Georg?»
Franco Buffoni

Domenica 5 dicembre alla 18,00 al Circolo Mario Mieli, in via Efeso 2/A  di Roma (Metro B San Paolo Basilica) presentazione di “Laico alfabeto in salsa gay piccante. L’ordine del creato e le creature disordinate” nella collana “marginiafuoco” ideata da Marco Revelli e Marco Rovelli. 

Ne parleranno con l’autore Tommaso Giartosio, Gianfranco Goretti, Francesco Paolo Del Re, Andrea Maccarrone.

Franco Buffoni ha pubblicato importanti raccolte poetiche per Guanda, Mondadori e Donzelli. Dirige il semestrale “Testo a fronte” ed è autore dei romanzi Più luce, padre (Sossella 2006), Reperto 74 (Zona 2008) e Zamel (Marcos y Marcos 2009).

“Più libri più liberi”

 “Piu’ libri più liberi”, la Fiera nazionale della piccola e media editoria giunta alla nona edizione al Palazzo dei Congressi di Roma si svolge quest’anno dal 4 all’8 dicembre. Sono 430 le case editrici indipendenti che espongono 16 mila titoli esposti nel corso di un programma che prevede oltre 300 eventi e 700 ospiti. www.piulibripiuliberi.it

 Come è ormai tradizione, in Fiera avviene la premiazione dei vincitori del Premio nazionale di poesia “Quaderni di Linfera” e la presentazione dell'”Antologia 2010″, presenti alcuni membri della giuria, da Maria Luisa Spaziani a Elio Pecora, da Dante Maffia a Angelo Sannelli (Mercoledì 8, ore 11 – Caffè letterario). Torna anche il Diario Almanacco “Il segreto delle fragole 2011”, viatico per il nuovo anno attraverso i versi di tanti poeti, molti presenti in Fiera, da Francesco Artuso a Marzia Spinelli (Domenica 5, ore 19 – sala Diamante) e anche la “Agenda 2011” della poesia (Mercoledì 8, ore 14 – sala Turchese). Tra i poeti presenti in fiera anche Michele Ferrara Degli Uberti, con i versi di “Epifania dell’ombra” con Giuseppe di Costanzo, Mimmo Liguoro e Giuliano Montaldo (Lunedì 6, ore 19 – sala Rubino). Paolo Di Paolo e Elio Pecora parleranno invece di “Attorno a questo mio corpo”, titolo che è un celebre verso di Amelia Rosselli, poetessa divenuta, a 14 anni dalla sua morte, ormai quasi un classico (Domenica 5, ore 19 – sala Ametista).

Il rubino del martedì

 

 

 

 

 

 

 

 “Il Rubino del martedì”, di Francesca Serragnoli (Raffaelli Editore, 10,00 euro)

Offrire del pane a una statua
(dal film “Marcellino pane e vino”)

Ci vorrebbe proprio tutto
il tempo di cucire un bottone.
Quel fermarsi
in quel punto della camicia
su e giù con l’ago
e il filo lungo che va in alto e scende.
Quell’andare al di là e tornare, basterà?

Il viaggio di una madre
il puntino luminoso della sua mano
che dal cielo scende
e sale un filo tra le dita
sembra attraversare niente.

Io ti avevo stretto la mano
nella panca della chiesa dei Servi
sentivo che piangevi
non sapevo come ricucire
il fiore sdraiato del tuo respiro
con tutte quelle radici al vento.

Io ti aspetto sotto la pioggia
con l’ombrello azzurro
e la gonna di capodanno
aspetto l’auto nera, l’inseguimento
la prima parola che dirai.

Io ti aspetto sotto la pioggia
e non ho nemmeno freddo.
Ogni tanto mi sembra
che muovi la porta a soffietto della cucina.
Lo so che ci sei,
sono quella con l’ombrello azzurro
con la riga dei cani sotto gli occhi
simile ai fiumi della terra
nel volto guardato dalla luna.

Francesca Serragnoli è nata a Bologna nel 1972, dove si è laureata in Lettere Moderne. E’ membro direttivo del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna ed è redattrice di ClanDestino.

La sua prima raccolta di poesie, Il fianco dove appoggiare un figlio è uscita nel 2003 (Poeti di ClanDestino).
Suoi testi sono apparsi nelle antologie I cercatori d’oro, a cura di Davide Rondoni (Forlì La Nuova Agape, 2000), Novissima poesia italiana, a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi (Mondadori, 2004), La stella polare a cura di Davide Brullo (Città nuova, 2008), Jardines secretos, Joven Poesia Italiana, a cura di E. Coco (Sial, Madrid, 2008).

www.raffaellieditore.com