Opere Inedite, Paolo Febbraro

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

“Nel corso degli ultimi quindici anni, da critico letterario e saggista, mi è capitato spesso di riflettere su cosa significhi oggi scrivere e pubblicare poesie, e su cosa esse siano. Da tempo, infatti, un poeta non può più essere un ingenuo, al massimo può cercare di esserlo, con l’intelligenza di chi sa scordare quando serve ciò che ha imparato. Scordare significa rendere indisponibile ad una rievocazione volontaria e disponibilissimo, invece, a un sovvenire dettato dagli eventi, dalla memoria musicale e connettiva, dal bisogno di esattezza che la poesia consente ed esaudisce.

Il dominio addirittura enfatico della neolingua mediatica e colloquiale, e quello della prosa narrativa, rendono oggi l’adozione della scrittura in versi col suo tasso di retorica una scelta tutt’altro che prestigiosa, ma certo piena di rischi e di responsabilità. Di fatto, proprio “responsabilità” è una delle parole che amo di più. Per quanto visitato dall’ispirazione, che è di per sé misteriosa, intima e generale al tempo stesso, il poeta è un autore responsabile di quanto pubblica; e nel frastuono, di quel poco e di quel buono che insinua. Per questo, di essere poeta non deve chiedere scusa a nessuno. È vero che i lettori potranno valutare la sua opera, ma è vero anche che le sue poesie, se ne avranno la forza e la durata, giudicheranno i lettori di un’intera epoca.”

di Paolo Febbraro
(Foto Dino Ignani)

Romanzi storici

(da Noto alla giustizia, inedito)

                                                                      Guido Cavalcanti
                                                                     … piangendo disse: «Se per questo cieco
                                                                      carcere vai per altezza d’ingegno,
                                                                     mio figlio ov’è? e perché non è teco?».
                                                                     E io a lui: «Da me stesso non vegno:
                                                                     colui ch’attende là, per qui mi mena
                                                                     forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
                                                                     Inferno, X, 58-63

«Insistere, adesso, è vano. Ma era
una donna. La gentile, l’onesta
delusione d’un saluto per la via.
Sciocca, perfetta, ammirevole
come una superficie. Bestia
da paradiso. E tu a cantarla,
ventenne, piumata la voce,
moltiplicata in coro.
Sei stato, amico, più fedele,
alto e municipale, e più in esilio
di me. Di me più poeta. Ingegno
e disdegno m’hanno inciso
nel tuo fuoco punitivo. Nel tuo Segno.
Ma in questo forse io ti ritrovo.
T’invidio adesso la tua indulgenza,
la luce dell’ombra che provo».

Le invasioni

«Ah il Diritto, linguaggio degli dèi.
Le pietre levigate del Foro,
il pasto abbondante e intanto
nella fattispecie, il qui presente,
intentio, voluntas, coercizione,
et ergo, per le suesposte condizioni
che non lo consentono il mio cliente,
il dichiarante… Non la Verità,
ma la discreta, la macchinosa
Giustizia, così terrena, tanto diversa
dalla realtà…

«Ieri notte, forse il vino, l’ho visto
bello. Era di Vesta, danza ferma
di colonne tenute nel cerchio.
Casta capanna, bianca spirale
e vortice di calma. Da bambino
mi voltavo, se mai, e di quanto,
il tempio avesse ruotato
al mio passaggio, lui che tondo
poteva, come un cenno morbido, come
la madre che porge al bacio
la guancia e non la cruna delle labbra.
Ma ieri… statua cittadina, snellezza
chiusa nell’eleganza. M’è parso
perfetto, per la prima volta,
come un esempio, come
un deserto, perenne.

«Dove sei, Lucrezio? Il mio servo
è cristiano, sa leggere, è uomo
di Parola. In biblioteca i papiri
li spolvera freddo come si astenesse.
Peggio del fuoco. Umile come un inchino,
torce breve e silenzioso il collo,
occhieggia di sbieco, nell’ignoranza
mite ed astuta. Sa cosa fare.
Sui rotoli cade una coltre
di cenere, al suo tocco
non ragnatele o l’incisivo del topo
ma un polveroso rigore. Una custodia
di gelo muto. E il mio Lucrezio
è svanito. Sì, il ricompiersi
del disfatto, e i crolli invasi, lo spezzato
combinarsi delle sillabe, la grana
antica del senso e del dolore.
E mobile tempio il mondo: felice
materia d’esseri infelici,
frustrati dal futuro. La mia memoria
cede, e il libro sbiadisce
forse allo sguardo d’un diacono,
al suo cero imperterrito dilegua».

Parlano i Melii agli assedianti Ateniesi
                                 

(Tucidide, V, 84-114)
 
 
 
 
 
 
 

 

«Periremo. Nella battaglia il dio
farà di noi eroi e come sempre
ci gradirà ormai altissimi
per il sacrificio. Ma non i vostri
opliti temiamo. Piuttosto doriche
le colonne che spingono in cielo
la vostra Acropoli, e lo storico
che incatenandovi all’Ingiustizia
darà ragione e secoli alla lingua
che spandete in perfidia, eco teatrale
in scene in cui risuonano i lamenti
per le vostre illegittime vittorie
e l’orgoglio inalberato sulla resa.
Di tanto manca l’isolana Melo,
pietra concessa dal mare, dosso
pungente escluso dal vento. E ogni petto
ateniese che il nostro dardo
schianterà sull’erica sarà un grumo
di sangue perso, e non macchierà
le statue insipide dei templi,
la vostra incorruttibile doppiezza».

Cassandra

«La poesia è inutile perché è inutile
predire il presente. La città vuole
giacere ingombra di precise
rovine, mobili ancora
quando già il sonno diroccato le abbraccia.
Ah la fanciulla che chiude gli occhi
la notte ed al mattino per gli stessi
pensa di vedere! E cosa, se non fosse
intrisa come me dei minerali
miei sogni? M’inoltro diurna
fra quotidiani ciechi, li scanso
all’ultimo ferendomi ai loro ferri
da lavoro, donna di esatta pazzia
invendicata dalla tenerezza».

Cassandra, ancora

«Arse le palpebre nel rogo greco,
volto di calce, sono sola
e moderna. Ho visto troppo. Roseo
di guance un viaggiatore astuto
si dirà cieco della mia veggenza
e ritmerà di eroi e bronzo e dèi
per banchetti, popoli e ginnasi.
Splendore rinato di sillabe
in me si spoglia, e sogni neri.
Da questo attrito usata e smessa,
materia e ombra di visite future».

Cassandra, ultima

Sposa di terremoti, dissennata
frattura non so se prima o dopo
fu il gravido cavallo di Odisseo
o il libero dominio che accatasta
milioni. Ma vedo e non sono
più pazza, ma entrata in un destino,
docili guardie ai contorni,
mia santa diminuzione.
E intanto che la storia mi convince
di mura, e abbracci, e seme,
la terra suggerisce
“A terra, insieme”.

 —

Paolo Febbraro è nato nel 1965 a Roma. Esordisce con la silloge ‘Disse la voce’, nel volume collettivo Poesia contemporanea. Quarto quaderno italiano (1993). Negli anni sono poi apparsi ‘Il secondo fine’ (1999), ‘Il Diario di Kaspar Hauser’ (2003), ‘Il bene materiale’ (2008) e ‘Deposizione’ (2010).
Come critico letterario, ha curato l’edizione dei Poeti italiani della «Voce» (1998) e un’antologia della Critica militante (2000). Più recenti sono le monografie ‘La tradizione di Palazzeschi’ (2007), Saba, Umberto (2008) e ‘La poesia di Primo Levi’ (2009) e il saggio ‘L’idiota. Una storia letteraria’ (2011). Dirige l’Annuario di Poesia fondato da Giorgio Manacorda.

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