Adam Zagajewski, “Il volto umano è il centro etico del mondo”

ADAM ZAGAJEWSI, PREMIO ALLA CARRIERA FESTIVAL INTERNAZIONALE DI POESIA CIVILE DI VERCELLI 2019

 

Derek Walcott ha definito la poesia di Adam Zagajewski «voce sommessa sullo sfondo delle immense devastazioni di un secolo osceno, più intima di quella di Auden, non meno cosmopolita di quelle di Miłosz, Celan, Brodskij». Adam Zagajewski è nato nel 1945 a Leopoli, città che ha lasciato quell’anno stesso insieme alla sua famiglia, espulsa dai sovietici che se ne erano impadroniti nel 1944. Cresciuto a Gliwice, Slesia, e cioè in quei territori tedeschi che nel dopoguerra furono annessi alla Repubblica Popolare di Polonia, Zagajewski ha studiato psicologia e filosofia all’università Jagellonica di Cracovia, diventando ben presto uno dei protagonisti della corrente “Nowa Fala” o “Generazione del ’68”, che riuniva i giovani poeti più critici nei confronti del regime. Pubblica la sua prima raccolta, Komunikat nel 1972. Nel 1975 è tra i firmatari della Lettera dei 59, sottoscritta da sessantasei intellettuali polacchi per protestare contro l’introduzione nella Costituzione di paragrafi riguardanti l’alleanza con l’Unione Sovietica e il ruolo-guida del Partito Operaio Unificato Polacco. Dopo aver vissuto a lungo all’estero, prima a Berlino e poi a Parigi, è tornato a risiedere a Cracovia nel 2002. Insignito del Neustadt International Prize for Literature (2004), del premio Heinrich Mann (2015) e del premio Principessa delle Asturie (2017), insegna da anni all’università di Chicago. In Italia Adelphi ha pubblicato una raccolta di prose, “Tradimento” (2007, a cura di L. Bernardini, traduzione di V. Parisi), e “Dalla vita degli oggetti”, un’ampia scelta dalla sua produzione poetica a cura di Krystyna Jaworska (2012).

 

INTERVISTA A ADAM ZAGAJEWSKI
DI LUIGIA SORRENTINO
NAPOLI, 18 OTTOBRE 2019

La poesia è come un volto umano,
un oggetto che può essere misurato,
descritto, catalogato, ma è anche un appello
.
A.Z.

L.S. Adam Zagajewski, lei ha scritto questo esergo in calce all’antologia pubblicata con Interlinea “Prova a cantare con il mondo storpiato”. Con questi tre versi lei definisce la poesia “come un volto umano, un oggetto che può essere misurato, descritto… ma – questa è la cosa che sorprende il lettore – lei scrive dopo che (la poesia) “è anche un appello”. L’appello inteso come mezzo d’ impugnazione di una sentenza ingiusta? Oppure – più semplicemente – intendeva dire che la poesia è anche una chiamata? Rispondere a una chiamata ?

A.Z. … Sono sempre stato colpito dalla filosofia di Emmanuel Lévinas che si focalizza sul volto umano. Il volto umano è per lui il centro etico del mondo. Mi affascina. Non sto dicendo che la mia poesia dica la stessa cosa, ma c’è di certo un parallelismo. Le poesie ci affascinano in molti modi, cercano di renderci più consapevoli della nostra umanità, ci dicono – siate umani. Ci dicono anche – pensate, non siate oggetti, non siate stupidi.

L.S. “Prova a cantare con il mondo storpiato” è il titolo da lei scelto per questa antologia che attraversa cinquant’anni della sua poesia. Si va dagli esordi, dagli anni Sessanta, fino ai giorni d’oggi, alla sua raccolta più recente “Asimmetria”. Liriche come La valigia, Sandali, ci riconducono alla memoria della sua vicenda personale, ci riportano in Polonia nel periodo delle deportazioni di massa nei campi di sterminio nazista. Che cosa canta oggi un poeta nato dalle ceneri alla Shoah? Quale mondo ha visto? 

A.Z. … Sono nato in ritardo, dopo che la guerra era finita. Inoltre la mia famiglia non era ebrea, quindi non sono stato minacciato in modo diretto dalla furia nazista. Ma sono vissuto in un mondo che aveva ancora l’odore di morte e distruzione.

Ciò che scrivo ora riflette ovviamente principalmente il mondo di oggi. Nondimeno nel mio presente c’è la memoria del passato. È sufficiente trovarsi vicino al luogo in cui una volta si trovava il campo Bełżec, nella Polonia dell’est, basta visitarlo per essere colpiti nuovamente dalla sensazione di orrore e dalla certezza che non saremo mai in grado di comprendere la crudeltà delle migliaia di persone che eseguivano quegli ordini. Possiamo conservare nella nostra memoria entrambe le cose: l’interesse per ciò che è contemporaneo e il lutto per la Shoah.

L.S. In questa antologia sono diverse le sue poesie che fanno riferimento a poeti del passato. Penso a quella dedicata a Osip Mandel’štam (Mandel’štam a Feodosia) morto in un gulag prima di Auschwitz; due inferni diversi. Prima di Auschwitz le torture subite dagli ebrei non si basarono su un primato razziale, ma politico: Auschwitz invece, con le leggi razziali, fu un’ideologia impregnata di razzismo… Si potrebbe dire che il legame fra lei e Mandel’štam è l’essenza del male?

A. Z. … L’essenza del male è stata uccidere Mandelshtam che scrisse una bellissima poesia e non fece nulla di male. Odiare il despota non è crudele. In questa storia io piango un grande poeta, un semplice essere umano.

L. S. Lei è nato qualche settimana dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra le rovine della guerra. E’ cresciuto nella Slesia polacca, molto vicino ad Auschwitz. Che ricordi ha della sua infanzia? Qual è il sentimento che l’accompagna fin da quando era soltanto un bambino?

A.Z. … Ho avuto una bella infanzia, credo che i miei genitori abbiano cercato di proteggermi da tutto ciò che di spaventoso ci circondava. Essere genitori vuole anche dire ingannare a volte: loro mi hanno ingannato nel modo più gentile possibile. C’è stato un altro trauma in famiglia: siamo stati cacciati dalla città di Leopoli, in seguito a un’operazione di “pulizia etnica”. Ho viaggiato verso ovest quando avevo solo 4 mesi.

L.S. Ha detto il grande poeta polacco, Ceslaw Miłosz, che a scrivere versi non è l’abilità della mano, ma «il cielo, a noi caro ancorché scuro, / qual videro i genitori e i genitori dei genitori / e i genitori di quei genitori / nel tempo che fu». Quindi la poesia, lo scrivere versi, è la vera patria? La poesia aiuta a non sentirsi un esule, la fa sentire cittadino del mondo, o nessun luogo del mondo potrà mai davvero essere la sua patria?

A.Z. …Una domanda difficile. Vivo a Cracovia, la città dove ho fatto l’università, che mi ha visto ragazzo, studente goffo, poeta timido: è in un certo senso il mio territorio e questa città mi guarda con affetto.
Scrive della mia patria… sì, ma è solo una parte della vocazione poetica. C’è un intero mondo nella scrittura, almeno potenzialmente. L’atto della scrittura è, o almeno dovrebbe essere, un atto di emancipazione dalle superstizioni provinciali, dalla limitatezza del pensare. Allo stesso tempo, la stessa limitatezza può anche dar forza.

L.S. Lei ha una voce sommessa che parla dallo sfondo di immense devastazioni contaminate dalla crudeltà della Seconda guerra Mondiale e della Shoah. Eppure la sua poesia spesso, sembra difendere l’ardore, l’entusiasmo. Quando si lascia ispirare alla musica e alla pittura la sua voce poetica sembra avere “un dio dentro”.

A.Z. … Temo che “avere un dio dentro” sia una grande esagerazione. Ma ha sicuramente ragione nel vedere questa dualità. È curioso che queste due cose possano coesistere, la terribile sofferenza e il mondo della bellezza, della musica e della pittura. Lo stesso genere umano crea orrore e bellezza. Sono stupefatto dall’evidente scontro di queste due realtà opposte. È probabilmente la fonte maggiore della mia scrittura sia il chiedersi continuamente come sia possibile che la Terra sia stata allo stesso tempo la casa di Mozart e di Himmler, o di Stalin e Mandelshtam. Il titolo di uno dei miei libri è Misticismo per principianti, in quanto rimango un mistico che è solo agli inizi, non comprenderò mai la dualità di questo mondo.

L.S. Mi viene ora di paragonare la sua poesia a quella di Eliot che diceva che la “forma ardente del mondo” è la bellezza, la sapienza, l’ironia, ma anche l’auto-ironia. Eliot diceva, anche: «La poesia, se autentica, è un movimento di conoscenza, spesso piena di affetto.»
E’ questo che lei fa con la poesia? Trasforma l’ispirazione, «in una torcia fiammeggiante che passa di mano in mano» dallo scrittore al lettore?

A.Z. … Questo sarebbe il mio scopo, l’ha formulato in modo splendido. Ma sa, noi viviamo nel tempo dell’ironia, non dell’auto-ironia. Talvolta, piuttosto spesso direi, sento che le mie emozioni incontrano il sospetto e lo scherno altrui. Non mi lamento, poiché in generale ho diversi lettori, molti dei quali sono buoni lettori. Nonostante ciò, c’è un oceano di ironia intorno a noi, molte persone reagiscono a tutto in modo molto prudente, respingendo le emozioni e facendosi gioco di tutto.

L.S. Com’è la Polonia oggi? Cosa è rimasto nella memoria collettiva tragica di quella nazione? Si vive bene? E’ ancora un paese di poeti?

A.Z. … La memoria collettiva cerca di cancellare tutto ciò che crea disagio, soprattutto per quanto riguarda le colpe che abbiamo commesso noi. Nessuna società accetta con facilità la presa di coscienza dei crimini commessi “dalla propria gente”. Solo la Germania è stata in grado di stare nella luce della verità.
Il mio paese è terra di poeti, ma molti tra i giovani poeti amano l’ironia, più che la poesia.

L.S. Nel 2018 il premio Nobel per la Letteratura è andato a Olga Tokarczuk. Chi è Olga Tokarczuk? La sua scrittura, il suo lavoro sulla scrittura, segna una linea di demarcazione tra la Polonia di oggi e quella del passato?

A.Z. … Olga Tokarczuk è una scrittrice di talento, ha una grande conoscenza della storia e il dimenticare il passato non è di certo un pericolo nella sua scrittura.

A Milano l’Università Cattolica ospita il poeta polacco Adam Zagajewski mercoledì 23 ottobre alle 17 (Cripta Aula Magna, largo Gemelli 1) con letture dal nuovo libro Prova a cantare il mondo storpiato (Interlinea) a cura di Valentina Parisi, alla vigilia della cerimonia del premio alla carriera che gli viene assegnato dal Festival internazionale di poesia civile a Vercelli. In Università il poeta incontra gli studenti di varie facoltà a partire dal Laboratorio di editoria che promuove l’incontro, presentato da Roberto Cicala con un intervento di Giuseppe Langella.

Walizka

Rano Kraków był pochmurny, dymiły wzgórza.
W Monachium padał deszcz, Alpy niewidoczne
i ciężkie leżały w dolinach jak kamienie.
Dopiero w Atenach zobaczyłem słońce, które
sprawiło, że powietrze, całe powietrze,
cała ogromna flotylla powietrza,
zamieniło się w drżące złoto.
Jak mówią pisarze religijni: nagle
stałem się innym człowiekiem.
Jestem tylko turystą w widzialnym świecie,
jednym z tysiąca cieni, które
snują się w ogromnych halach lotnisk –
a za mną jak wierny pies jedzie na małych kółkach
moja zielona walizka.
Jestem tylko nieuważnym turystą,
ale kocham światło.

La valigia

All’alba le colline di Cracovia erano velate da nubi.
A Monaco pioveva, le Alpi invisibili
e pesanti giacevano nelle valli come pietre.
Solo ad Atene ho veduto il sole far sì
che l’aria, tutta l’aria,
tutta l’enorme flottiglia dell’aria,
si mutasse in oro fremente.
Come dicono gli scrittori religiosi: a un tratto
sono diventato un altro uomo.
Sono solo un turista nel mondo visibile,
un’ombra tra le migliaia che
si librano sotto le immense volte degli aeroporti –
e come un cane fedele mi segue sulle sue rotelline
la mia valigia verde.
Sono solo un turista sbadato
ma amo la luce.

Mandelsztam w Teodozji

Osip Mandelsztam (w areszcie w Teodozji, w roku 1920):
Wypuście mnie, ja nie zostałem stworzony do więzienia.

Mandelsztam nie mylił się, nie był stworzony
do więzienia, ale więzienia były stworzone
dla niego, niezliczone więzienia i obozy
czekały na niego cierpliwie, towarowe pociągi
i brudne baraki, zwrotnice kolejowe i
mroczne poczekalnie czekały na niego długo,
aż się doczekały, czekiści w skórzanych
kurtkach czekali na niego i partyjni
urzędnicy o rumianych twarzach.
„Ja nie zobaczę znamienitej Fedry”,
napisał. Czarne morze nie płakało
czarnymi łzami, kamyki na plaży
toczyły się posłusznie, tak jak chciała fala,
obłoki płynęły szybko nad nieuważną ziemią.

Mandel’štam a Feodosia

Osip Mandel’štam (arrestato a Feodosia nel 1920):
Lasciatemi andare, non sono fatto per la prigione.

Mandel’štam aveva ragione, non era fatto per
la prigione, ma la prigione era fatta
per lui, innumerevoli prigioni e campi,
lo attesero pazienti, treni merci
e baracche sporche, scambi ferroviari e
tetre sale d’attesa lo attesero a lungo,
finché l’attesa non si compì, cekisti in giacca
di pelle lo attendevano e funzionari
di partito dai volti paonazzi.
«Non vedrò la famosa Fedra»,
scrisse. Il mar Nero non piangeva
nere lacrime, le pietruzze sulla spiaggia
si spostavano obbedienti al volere dell’onda,
le nuvole fluivano veloci sopra la terra sbadata.

Sandały

Sandały, które kupiłem wiele lat temu
za dwadzieścia euro
w greckiej wiosce Theologos
na wyspie Thassos
nie zużywają się wcale,
wciąż są jak nowe.
Zapewne dostały mi się,
najzupełniej przypadkowo,
sandały pustelnika, świętego.
Jak one muszą cierpieć
nosząc zwykłego grzesznika.

Sandali

I sandali che ho comprato molti anni fa
per venti euro
nel villaggio Theologos
sull’isola greca di Thassos
non si sono consumati affatto,
sono ancora come nuovi.
I sandali d’un anacoreta, d’un santo,
di certo mi sono toccati
in maniera del tutto casuale.
Chissà come soffrono adesso
ai piedi di un peccatore qualsiasi.

Spróbuj opiewać okaleczony świat

Spróbuj opiewać okaleczony świat.
Pamiętaj o długich dniach czerwca
i o poziomkach, kroplach wina rosé.
O pokrzywach, które metodycznie zarastały
opuszczone domostwa wygnanych.
Musisz opiewać okaleczony świat.
Patrzyłeś na eleganckie jachty i okręty;
jeden z nich miał przed sobą długą podróż,
na inny czekała tylko słona nicość.
Widziałeś uchodźców, którzy szli donikąd,
słyszałeś oprawców, którzy radośnie śpiewali.
Powinieneś opiewać okaleczony świat.
Pamiętaj o chwilach, kiedy byliście razem
w białym pokoju i firanka poruszyła się.
Wróć myślą do koncertu, kiedy wybuchła muzyka
Jesienią zbierałeś żołędzie w parku
a liście wirowały nad bliznami ziemi.
Opiewaj okaleczony świat
i szare piórko, zgubione przez drozda,
i delikatne światło, które błądzi i znika
i powraca

Prova a cantare il mondo storpiato

Prova a cantare il mondo storpiato.
Ricorda di giugno le lunghe giornate
e le fragole, le gocce di vin rosé,
e le ortiche implacabili a coprire
le dimore lasciate dagli esuli.
Devi cantare questo mondo storpiato.
Hai visto navi e yacht eleganti
Alcuni dinanzi avevano un lungo viaggio,
ad attendere altri era solo il nulla salmastro.
Hai visto i profughi andare da nessuna parte,
hai sentito cantare di gioia i carnefici.
Dovresti cantare il mondo storpiato.
Ricorda quegli attimi in cui eravate insieme
e la tenda si mosse nella stanza bianca.
Torna col pensiero al concerto, quando esplose la musica.
D’autunno raccoglievi ghiande nel parco
e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra.
Canta il mondo storpiato
e la penna grigia perduta dal tordo,
e la luce delicata che erra, svanisce
e ritorna.

Traduzione di Valentina Parisi

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