
Kikuo Takano
WALTER SITI SULLA POESIA DI KIKUO TAKANO
La prima cosa da fare, credo, ragionando intorno alle poesie di Kikuo Takano, è difenderle contro una lettura banalmente “poetica”: il vuoto, lo smarrimento dell’anima, il miracolo della natura (“rabbrividiscono i fiori di mimosa”),l’amore per la vita – genericità che potrebbero richiamare, e soddisfacendo le nostre basse voglie di sublime, certo ermetismo attardato di provincia. La sua poesia è invece per eccellenza grammatica e antisentimentale, violenta asimmetrica esigente; una poesia che non ha paura di riconoscersi contraddittoria, di tacere quando è il caso, e che non cerca il facile plauso. Non per niente nasce, storicamente, dal disastro del Giappone post bellico; Takano ricorda, lui diciottenne, l’incontro in treno con una sopravvissuta di Hiroshima. La poesia si riconosce spezzata come in quel momento il paese, la sintassi è squassata, il metro ( per quanto si può capire dalle traduzioni, e posto che il paradigma di linearità che vige laggiù sia confrontabile al nostro) si disarticola in membri brevissimi e lunghissimi, il verso libero e contundente si impone come esigenza psicologica; “Arechi”, Il nome della rivista che ospita le sue prime prove e mature, in giapponese significa letteralmente “deserto”, “terra desolata”. Aridità, desolazione, frammentazione sono prima di tutto di bei dati fisici, creaturali – per salvarsene esprimendoli l’unica via è quella della cultura, che per Takano è fin dall’inizio, una cultura razionale, lucida, di matrice filosofica e scientifica (mai dimenticare che è stato un buon matematico, autore di importanti ricerche sulla formula del pi greco).
Takano legge Heidegger, che già per suo conto si era interessato allo zen; poi legge Jaspers, un testo cita Merleau-Ponty. Esistenzialismo e fenomenologia occidentali lo rafforzano nell’idea di distinguere l’Essere dall’esistere: sotto (o sopra) la vita di tutti giorni c’è un Fondamento non visibile che dà senso al visibile ( e che talvolta si può chiamare Dio). Ma il Fondamento è assenza, vuoto; il segreto profondo dell’essere è il nulla. La sua educazione orientale dà a questa meditazione filosofica un colore e un calore, insomma una serenità, che noi non sappiamo concederci quando pensiamo al nichilismo o al silenzio di Dio. In una intervista Takano definisce lo zen “una modalità di attesa molto fervida per rinunciare a se stessi”. Il vuoto è apertura, possibilità di uno sguardo che va oltre, liberazione dalla prigione dell’io; l’uomo è l’Interrogante per definizione, “appeso a un gancio dove non c’è nulla da appendere“. La domanda è forse la figura retorica dominante nei suoi testi, fitti di punti interrogativi- un uomo consiste solo se moltiplica le proprie incertezze, come la trottola sta in piedi finché gira. […]
Testo critico di Walter Siti estratto da : “Il senso del cielo – Poesie 1955-2006” di Kikuo Takano, a cura di Renato Minore, traduzione di Yasuko Matsumoto (Passigli, 2017).
Il treno
Mi capita talora di prendere un treno
e di andare volentieri verso un luogo
del tutto sconosciuto,
e lì capita che bambini senza nome
in fila sull’argine ignoto, ci salutano,
sventolano le mani senza che nessuno risponda
al saluto subito dimenticato.
Ed io penso:
“Ma le mani non dimenticano”.
Non dimenticano quelle mani d’essere mani,
e dunque parto ancora una volta,
voglio ancora incontrarle
con le guance rosse per la mia età.
Ma cosa è questa mano?
Compro il biglietto con questa mano misteriosa.
E cosa è quella mano?
Corro a scovare quelle mani misteriose
per aver certezza di incontrare ogni altra mano
e di vergognarmi di queste mie mani.
Il gancio
Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando, chissà perché,
lasciato chissà da chi,
appeso così, è un gancio proprio pauroso.
E speravo davvero che, con la ruggine,
mai dovessi provarlo.
Ma ora desidero
vedere me capovolto
a quel gancio dove non c’è
proprio nulla da appendere.
Corda
«Lascia andare le mani, abbandonale».
Qualcuno me lo bisbiglia all’orecchio.
All’improvviso lo ho ascoltato
mentre stringevo una temibile corda,
più la tiro da ogni parte
e più diventa lunga.
Davvero inutile maneggiarla,
ben me ne accorgo,
ma se non la toccassi
sarei tutto soffocato
da quella corda.
Tra i maggiori poeti giapponesi contemporanei, Kikuo Takano (1927-2006) è stato molto legato all’Italia, spesso invitato per festival e convegni, e dove è stato insignito del premio “Attilio Bertolucci”. Tra le sue più importanti raccolte, ricordiamo La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre e Per incontrare. Anche in Italia, la sua opera poetica ha incontrato moltissimi estimatori, in particolare con le raccolte L’anima dell’acqua (Empiria, 1996) e Secchio senza fondo (1999), quest’ultima realizzata dalla Fondazione Piazzolla.
A dispetto dell’estrema semplicità stilistica e formale delle sue poesie, Takano è un poeta di grande complessità: in lui si parte dal fiore, dalla farfalla, dal moto circolare che ogni giorno, quasi per inerzia, conduce il sole a nascere e a morire, per accorgersi poi che si è arrivati lontano, fino a interrogarsi sull’origine dell’universo, sul senso dell’amore, sull’esistenza di Dio. Scriveva lo stesso Takano della sua poesia: “La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle“.