Una storia in versi, un storia umana

NOTA DI LETTURA SULL’OPERA DI BARTOLO CATTAFI
DI MATTEO BIANCHI

Con la poesia non avrebbe potuto fare altrimenti Bartolo Cattafi – come ammise a Giacinto Spagnoletti – essendo fatalmente vocato a scrivere in versi con o senza il placet della critica. Sin dagli esordi a motivarlo era stato un “troppo” emotivo o sensoriale che superava la sua stessa finitezza e spaziava al largo, ma non sempre in ascesa. Il suo concetto di ispirazione, spesso ridicolizzato dai suoi colleghi, era ai limiti dell’ingenuità: non si trattava della riuscita egoica di un mestierante né di un vizio perpetrato per sottrarsi al circondario, piuttosto di un demone, di una frenesia che lo conquistava, ebbro, all’improvviso. Emerge questo da Bartolo Cattafi. Tutte le poesie (Le Lettere, Firenze, 2019), a cura di Diego Bertelli, un volume tanto imponente e impegnativo quanto necessario. Il siciliano trapiantato a Milano, accolto e stimato da Raboni e da Sereni, fu tra i poeti più clamorosamente trascurati degli anni Sessanta e Settanta. Fuori dal coro e di indole irregolare, si distinse per la radicale estraneità alle tendenze dei suoi contemporanei. Inoltre non era avvezzo al solito “do ut des” che aveva fatto la fortuna dei più, almeno nel breve periodo; rifuggiva i compromessi, la mera autopromozione e non smaniava per gli agganci editoriali, ha puntualizzato Paolo Maccari in Spalle al muro (2003). E non condivideva le pose intellettualistiche: leggendolo si scoprirebbero le pagine e i lineamenti di un uomo, non di un ‘dottore’ di poesia, ribadirebbe Caproni ancora oggi.
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