L’ora dell’azzurro cupo

Mario Benedetti, poeta italiano. Foto Dino Igbani


Nota di Alessandro Bellasio


​​​​​«altrove il sole ha la luce»

Poche le voci nitide, necessarie e immediatamente riconoscibili nella loro cifra lirica essenziale, come quella di Mario Benedetti. Una voce abitata allo stesso modo dall’allarme e dall’immedesimazione, dove la parola sa farsi a un tempo lucida e inerme, sapiente e commossa, e decisivo ne è il valore testimoniale, l’inaggirabile frontalità dell’esser vivi. Una parola esposta, come vuole il magistero di Celan. In essa tocchiamo con mano il significato della sentenza secondo la quale «la poesia è un dono fatto agli attenti». L’opera di Mario Benedetti è imbevuta fino allo spasmo – mai gridato, mai esibito, eppure netto e tangibile – di questa attenzione acuminata e partecipe, della cui energia segreta si alimenta l’evento lirico. Un’attenzione strenua, una fedeltà alle cose fatta di riserbo e di pudore, capace, con quel suo tono smorzato, con il suo calore trattenuto, di creare sempre uno spazio di intimità con il lettore, pur nella frattura e nei sussulti dello sguardo e del sentire, così connaturali allo stile di Mario Benedetti.

Un’intimità che passa principalmente da quel nucleo di disarmo che è forse la cifra stessa dell’opera, del poeta. In un’antica intervista, a proposito di Umana gloria, Benedetti ebbe a dire: «penso che la parola indifesa e colloquiale ma spaesante sia quella dell’uomo che muore, noi moriamo con queste parole, con queste pause del respiro». E Benedetti, con tale parola disadorna e rigorosissima, fatta via via degli elementi più semplici e umili del vivere (Umana gloria), dei suoi scarti e delle sue scorie inassimilabili (Pitture nere su carta), o ancora dei suoi frammenti mnestici e delle istantanee della caducità (Tersa morte), ha progressivamente, inesorabilmente portato la sua poesia – e insieme a essa noi tutti, suoi devoti lettori – in territori sempre più estremi, folgorati dal «brivido di stare», nel luogo senza ritorno in cui si incontrano parola, esistenza e verità: quel confine che non è più la vita, non è ancora la morte, ma in virtù del quale soltanto possono dispiegarsi ed essere tutt’uno la vita e la morte. Continua a leggere

Benedetti, un io poetico che non uccide

Mario Benedetti, poeta italiano, credits ph Dino Ignani

TRA IRREALTÀ E LACRIME
Stefano Bottero

«Siccome hai esercitato il tuo spirito a concepire tutta
l’esistenza in categorie estetiche, è naturale che
il dolore non sia sfuggito alla tua attenzione»
Søren Kirkegaard, Aut-Aut

Nella poesia di Mario Benedetti l’io poetico rapisce, proietta la propria cognizione singolare di un dolore che accompagna senza uccidere. Non la semplice consapevolezza del dolore, ma del ruolo del dolore nella vita che scorre, in cui ogni cosa è già stata – tragicamente – data. Se vogliamo, la consapevolezza heideggerriana dell’angoscia che si rende radice dell’esperienza sensibile, che «non vede un “qui” o un “là”, da cui si avvicina ciò che minaccia».

Le vite nei versi di Benedetti si muovono senza direzione, prive di punti cardinali, perché ogni cosa, ogni dolore, è diventato un punto fermo in una costellazione generale, troppo grande per essere compresa con la logica. «Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto». Un’indicibilità che non scoraggia, e si rende invece radice formale dei suoi versi. «Penso a come dire questa fragilità che è guardarti, / stare insieme a cose come bottoni o spille». «Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole».

Anche la morte è nella sua opera un luogo in cui le cose scorrono. Non si palesa in essa la consolatoria cessazione del nostro rapporto con ciò che non siamo. È proprio in questo, io credo, che la poesia di Benedetti sia ancora unica: nel riuscire a cogliere ciò che esiste anche nella fine, anche nel totale annichilimento della conclusione.
Scrisse così, nel Capitolo secondo di Pitture nere su carta (2008).

Non l’ascolto, sta la veglia, senza.
Carriole di muri, non raccontate.

Nessuno, nel finire degli occhi.
Neanche i visi. Hai abitato,

abbastanza, il corpo.

Abitato. Qua. Un sole, una pioggia.
Le scarpe, le scarpe ricordate.

I corpi, i due corpi, i tre.
Rimasti, nella loro casa.

Nella loro casa rimasti.

La cognizione dell’essere qui e adesso, ed essere allo stesso tempo relegati nell’inconsapevole. Non lo sguardo idiota di un Principe Myškin, non il cedimento allo stereotipo tardo ottocentesco de ‘la coscienza nell’allontanamento dal reale’. Tutto l’opposto: il riconoscersi razionalmente nello iato che separa ciò che siamo da ciò che è stato. Da ciò che è rimasto, ed è rimasto – sempre – abbastanza. Così non è l’esistenza in senso lato a filtrare nella composizione di Benedetti, ma un’esistenza consapevole del proprio inevitabile essere trascorsa. Anche le prime cose che ci hanno regalato consapevolezza, lo leggiamo in Tersa morte, non differiscono dal resto: «Dentro i discorsi si perde / la prima cosa che il bambino ha guardato».

Il dolore non è mai anticamera della fine, ma cartina tornasole di una verità esistenziale: ciò che ci definisce è l’incongruenza tra chi siamo e tutto il resto. E non il resto della bellezza o del vero, per Weil mere «cose impersonali e anonime», ma il resto di ciò che compone il presente fisico. Che compone l’adesso.

Il corpo, colato in vetroresina,
si muove lentissimamente.

Dove? Sembra fisso, vuoti i movimenti.
È là? Si muove, un poco sempre.

Tra irrealtà e lacrime.

C’è tutto in questa sottile confusione tra la prassi del corpo e l’estetica del verso. La consapevolezza sacrale di sé, del proprio muoversi nel vivere, non trova risposte né sana il dolore. Essa è invece la domanda, l’interrogazione continua dello sguardo che contempla l’indicibile e lo rende poesia. «Anche per me / la stessa cosa, la stessa cosa vostra, un dolore violento, / cosa succede? cosa mi sta succedendo?».

Rendersi conto di quanto la sua opera, la sua domanda, aderisca al presente di questo aprile, porta con sé un leggero imbarazzo. Lo stesso di quando, da bambini, gli adulti indovinavano cosa stessimo provando con le parole esatte di una deduzione indelicata.