Stelvio Di Spigno e Carla Saracino

Copertina Qualcosa Di Inabitato[1]
“Qualcosa di inabitato”, di Stelvio di Spigno e Carla Saracino, EDB Edizioni, 2013,
con disegni di Marco Dagnino. 

Prefazione di Mary Barbara Tolusso

Pare che la maggiore caratteristica della nostra epoca consista nel giungere al nocciolo, all’essenza di un certo percorso, quasi a estremizzare il movimento della vita stessa. In fondo economisti e manager, quanto a metodo, non fanno poi qualcosa di molto diverso dai poeti: utilizzano risorse scarse per soddisfare al meglio bisogni individuali e collettivi. La “scarsità” di cui si gode in poesia è quella della parola, all’autore sta la possibilità di evocarla (moltiplicarla, se vogliamo) in modo da soddisfare bisogni individuali e collettivi. Inventare, insomma, è il codice comune, fare una sorta di miracolo con quel poco che si ha a disposizione. Esagerando su questo versante, per condurre un ulteriore e azzardato confronto: se è vero che il mercato sa orientarci a qualcosa di indotto e illusorio, allo stesso modo la descrizione del poeta, del vero poeta – come diceva Solmi – ha sempre un carattere illusorio e fuggitivo. Quello che voglio dire, insomma, è come tutte le attività umane possiedano in qualche misura il gusto “produttivo” della finzione, dell’ambiguità, fosse anche per svuotare di senso la vita stessa, che tuttavia rimane intellegibile soltanto se la possibilità di darle un senso viene lasciata in una prudente penombra. Se inseriamo il poeta nell’epoca, in un’epoca dove la fluidità economica e commerciale è il tratto più evidente, egli non potrà certo stupirsi dell’esubero di fantasia che il mercato mette in opera, l’ideazione di un mondo altro, l’illusione di una qualche, definitiva, verità. “Definitiva” è la parola su cui si regge la differenza, è la formula che appartiene al mondo, perennemente alla ricerca di qualcosa di decisivo (politico, economico, religioso, sociale). Certo bisogna viverlo, il mondo, esperirlo e pagarlo. È il prezzo di una verità non definitiva, lo scarto che va a definire la poesia – rispetto al mondo – povera anche lei di risorse, ma che mette in atto le sue possibilità per precisare un senso non dato, lasciato in penombra, economicamente non fluido, senza finalità risolutive. Il mondo esperito dai poeti Stelvio Di Spigno e Carla Saracino è frontale, in tal senso.

Stelvio Di Spigno[1]Stelvio Di Spigno, classe 1975, è già conosciuto per due importanti opere come Mattinale (2001) e La nudità (2010), due libri in cui la misura naturalista è in eccellente equilibrio con una vocazione simbolica. La silloge qui raccolta si evolve a un ulteriore passo narrativo, evoca in modo efficace quel brusio acclamatorio – rispetto a certa “fluidità” dell’epoca – quale rumore bianco di uno standard collettivo. I motivi della sua scrittura sembrano distendersi in una riflessione di “senso”, senza pararsi dietro ad alcuna eccessiva oscurità metatestuale. Di Spigno è poeta dalla voce limpida, chiara, non ama le iperboli, le metafore ardite, l’esibizione di uno strumento tecnico-stilistico per altro affilatissimo; non è questa l’impronta della sua voce, la quale rifugge le ricercatezze o le accensioni epiche. Prevale la tendenza a un racconto strutturalmente articolato, in cui il dato dell’immagine (anche autobiografica) ci restituisce una dimensione epocale dove lo spazio (il corpo/paesaggio) è anche il supplizio di una consapevolezza, spesso affidata a una sorta di transfert, allo sguardo umano degli oggetti («il calvario di quell’attaccapanni […] mentre noi andavamo a dormire come altari umani»). Ci sono momenti fermi in cui quello che siamo, che potremmo essere, che saremo, si può intuire nella trasparenza di un istante. L’osservare diviene un periodare dilatato e arioso che si lega a una struttura evocativa e concettuale, e che implode nell’orizzonte mnemonico del narrato (La bandiera di Vittorio). Il tempo sempre traslato, differito, sfumato, eppure in presa diretta con la realtà, si assume la responsabilità del racconto. Quest’“orologio mortale” nulla concede al poetico, come comunemente lo intendiamo. Non allude, non sottintende, piuttosto espone, riferisce con sobria crudeltà (Prosa della madre incantata). Ed è proprio nella capacità di fotografare lucidamente la vita che il poeta compie la sua resa fenomenica, che non scende a patti con alcuna suggestione (consolazione). Perché, appunto «Qui da noi se non sei uguale / agli altri, in fatto di fortuna, sei solo fallimento. / Amoroso, polifonico, esistenziale». Gli affetti, i paesaggi, le architetture, tutto è registrato con il coraggio dell’impatto “percettivo”. Di Spigno non depista, non indietreggia, non si discosta dalla rotta. Le deviazioni riflessive sono tutte interne al gesto, all’atto immediato e quotidiano, ripetitivo e alienante, stritolato da una routine piuttosto perversa nella sua necessità. Fino all’ardire di ideare un ironico ed efficace rovesciamento stilnovista (Il sabato della supplente). O, spingendosi più in là, senza risparmiare neppure il faticoso tragitto di redenzione dantesca: «Dobbiamo starci e far sì con la testa, ognuno ammalato / di destino, con una crepa al centro della festa, tutti / affondati nell’Egeo nel mezzo del cammino».

Carla Saracino[1]Con Carla Saracino entriamo invece nella generazione Ottanta, la cui voce rappresenta una delle espressioni più mature. Come nella precedente raccolta, I milioni di luoghi (2007), Saracino sa modulare il suo patrimonio lirico sul ritmo di una lingua controllata quanto visionaria. Il suo dettato accoglie e rielabora certe vibrazioni territoriali, borboniche, ma forse è anche lecito chiedersi come l’autore si interroghi, prescindendo da dettami storici e geografici, sulla concretezza inaccessibile dell’esperienza e sulla morte, che permea la gran parte dei testi, lì dove una sorta di “urbanità” (Perché persino passeggiare potrebbe) ci restituisce il collettivo sentimento dell’assenza. Saracino è poeta di sintesi, di affilati rapporti sinestetici, di relazioni semantiche sottilissime, strutturate in modo da disegnare sempre quella che potremmo chiamare un’“indefinizione”, qualcosa che non si costella mai in alcunché di compiuto, ma sempre scevro di ridondanze metafisiche. La lingua si fa tutt’uno col brusio profondo dell’esperire, del corpo, e il verso appena fisico si contrae in un movimento quasi tellurico di scivolamenti tra segni e significati (così nella bilanciatissima Dicono della visione unica, ma non solo). Quella di Saracino è una voce che scompare per lasciare spazio al suo doppio: appesantito dalla vita, alleggerito dalla morte, la posta in gioco è addentrarsi con forza per abitare il significato del silenzio, del non esserci. Se il corpo c’è e non c’è, se noi stessi abbiamo l’impressione di inghiottire alcune scene da cui siamo anche esclusi, di starci dentro (parafrasando un suo verso), ecco che la parola tenta di testimoniare la sua missione. Che non è quella di salvare l’uomo né di avanzare un progetto di verità; la sua missione, forse, è semplicemente tentare di parlare. Il fallimento, tra l’essere e il dire, diventa precipitare sospeso sul baratro dell’interiorità il cui unico testimone è la parola stessa («approdate a questa infermità: la mia voce»). In questa sorta di gap tra l’agire e il sentire, sempre dilatati, posticipati o anticipati, si sostiene anche la traslazione del tempo, in Saracino sempre sregolato, una specie di codice implosivo in cui si perdono le coordinate di ciò che è davvero presente, passato o futuro. Sia chiaro però, nonostante le implicazioni filosofiche, che il dettato di questa voce è sempre piano, terso, dotato di evocazioni cristalline, pur conducendoci in uno spaesamento che ha il dono della leggerezza. Non di meno noi, paradossalmente, siamo simboli di una lenta ma inesorabile trasformazione, di una adesione alla vita. E alla morte. Testimoni di un tempo e interpreti dell’impermanenza. Come per Cvetaeva, il tempo è il materiale di lavoro di questa poesia, suo strumento di produzione, suo committente. Non rimane altro che amalgamarsi insieme al tempo, dilatarlo – per citare ancora la poetessa russa – per capire che quello non corre in nessun posto, che corre sempre, che corre solo perché corre, che corre per correre, che la sua corsa è fine a se stessa oppure è una corsa via da se stesso: dal sé. Ed essere infine «nella perfetta forma di uno qualunque / dei miei doni».

Nota di Stelvio Di Spigno

“Fare un libro “doppio” è sempre un rischio, e non solo per paura di un confronto. Nel nostro caso, si è trattato di un felice incontro di poetiche, complementari quanto alla visione di fondo della vita, distanti per quanto riguarda l’uso della lingua poetica e dello stile. Le poesie di Carla mi sono subito sembrate affini, forse perché conosco bene la sua poesia, anche quella precedente. Infatti quando abbiamo visto, in bozza, i nostri testi vicini, abbiamo subito pensato che l’idea del curatore della collana, Alberto Pellegatta, che ci ha voluto insieme, fosse vincente. Così sono passati tutti i timori superflui. Fare un libro a quattro mani mi è sembrato così quasi naturale, pur nel rispetto delle diversità reciproche che danno luogo a una varietà che non sospettavamo, prima di vedere il nostro libro pubblicato. Ed infatti, con l’apporto dei disegni di Massimo Dagnino, penso di aver contribuito a fare un buon lavoro, che sta ottenendo riscontri davvero speciali e insperati.”

Nota di Carla Saracino

“La mia poesia si nutre di paesaggi del Salento e più in generale del Sud, insieme a una riflessone sul senso dell’esistenza e sull’ombra della solitudine e dell’abbondono delle vite umane. Con Stelvio abbiamo trovato un punto d’incontro felice, in modo da poter presentare il nostro lavoro senza sovrapposizioni e senza ripetizioni. Siamo due poeti molto diversi, ma nel momento di unire i nostri due mondi poetici, sono state più forti le affinità che le differenze, come hanno subito notato i lettori più attenti di questo libro. L’opportunità di questo lavoro ha rappresentato per me un momento di approfondimento del mio sapere intorno alla poesia, e non parlo solo della mia poesia ma del fare poesia in generale. Il risultato è soddisfacente, e lascia una porta aperta al futuro, a ciò che scriverò negli anni a venire.”

POESIE DI STELVIO DI SPIGNO

Il treno per Sezze

Nella teoria del verde dopo il verde,
arriva questo treno che batte ogni paese:
Sezze, Fondi, Itri. Campi, bestiame, cimiteri.

Si riavvicina pericolosamente
al golfo di Gaeta che ci attende inutilmente:
cose e persone che sono ormai ricordi
s’infrangono nel sole, e ogni inizio è una fine,
questo dicono i tempi, bagagli alla mano. Orologio mortale.

Lo sanno gli alberi che questa è una malattia.
Lo dicono i parchi che siamo già scaduti.
Persino il giornale a questa vista dolorosa
si fa più piccolo mentre salgono i pendolari.

Il bruco del treno ritorna nel presente,
nel gorgo della folla e nella pratica del niente.

Ma io che baratto volentieri morte a cecità,
rivedo un letto che odora di lavanda, l’anno ’85,
stanze in affitto e la casa di via Filiberto.

Nelle notti più atroci tutto prende il colore del sangue,
le pareti fanno un giro intorno all’aria, come le parole.
Quella gonna, quel momento, quell’odore,
il calvario di quell’attaccapanni, sigarette con belle compagnie,
mentre noi andavamo a dormire come altari umani,
rimboccando le coperte al domani:
niente è reale di ciò che verrà dopo.

***

Il sabato della supplente

                                    Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
                                    fossimo presi per incantamento,
                                    e messi in un vasel ch’ad ogni vento
                                    per mare andasse al voler vostro e mio

 

Carte imbronciate, documenti
dalla pelle di fuoco, una che dorme in piedi, ma
sui piedi di un altro. Fascette immacolate
di compiti in classe. Questi sono i giorni del supplente,
prima si farebbe a chiamarlo facchino, ulcera, maiale.
Lei, donna, amava il greco antico. Quest’amore sacrilego
è stato punito. Giorni come ore volano come passeri.
Non un ricordo, non un fiore da parte dei colleghi. E dell’amore
una vaga rimembranza che è meglio allontanare.

La vita è tutto un debito. Attorno è terra bruciata.
L’uomo deve vivere, invece sopravvive.
Un sì dopo l’altro, accetta anche la morte,
la Nemica, la Carogna. Una volta arrivava in carrozza
col drappo nero e le orchidee dell’addio: ora
è quasi una liberazione, una libidine solitaria.

Restano nel cestello, a fine ora o a fine pasto,
fotocopie di monna Vanna e monna Lagia; lei oggi sogna
una vita normale con un uomo difficile
da capire. Altro che incantatori e barchette
con dentro Dante e il plotone stilnovista.
«Domani faccio la stacanovista. Mi butto
sul lavoro. Così passa più in fretta. Il sabato
chiudo bottega e piango fino a sera».

***

Il premio del deserto

 

Delle pigre montagne lanciate a mormorazione
delle nubi e dei falchi contro la spettrale solitudine,
quelle che vanno da Mercogliano a Fossanova
hanno più da dire, più da parlare intorno al mondo
che in questa similitudine fabbrica stipiti e porte ingannatrici,
grandi messaggi di pietra e di grotte sul dosso dell’aurora:
la più grande vittoria è di chi sa stare in piedi
restare utile nella grande selva di tutti gli io
passati, futuri e venienti,
la tavola appena raccolta sotto il delirio
floreale della casa al mare, anzi sottomarina,
il tutto sparito sotto una coltre di anni abnegati,
i vestiti chiari, il roseo passaggio di venti e barche
sotto il porto turistico e il molo riservato
ai pochi che ancora non sanno cos’è stato
l’urto solenne della vita col suo cono d’ombra,
la sua scomparsa per le mille feritoie del tempo. 

 —

POESIE CARLA SARACINO

Camminiamo, dentro la neve.

Mai i nomi degli alberi hanno trovato
luogo nella mia testa.
Se la memoria ha un vuoto, si origina
da me.

Lasciamo impronte, senza godere.
Temiamo gli animali selvatici, le foglie ingrassate
e volate in cielo su emisferi che ignoriamo
e che orientano la nostra vita.

Concludi separando il mio silenzio dal tuo.
Tutta questa gioia di spartire non viene a me.

* * *

Perché persino passeggiare potrebbe
essere necessario, al pomeriggio,
nella città a sé più nota o meno cara
-perché dʼevidenza è fatta la nostalgia-.

Riuscire a intendere nel neon
dʼuna vetrina di oggetti kitsch
il simulacro delle proprie idee
e costruirlo sommamente lì
nellʼastuzia dʼun semicommercio.

Rigirando la carta della scena
veder passare chi tra i tuoi tanti di te
è sparito una volta e ora ritornando
ha perso conoscenza
del tuo volto e deve rimediare.

Sentire che in una sera tutte le altre
non è il passato che le richiama
ma il presente.
Non saper decidere se vivere di
stenti o morire per la fame. E in tutto
questo, far passare della vita
il primo capoverso su un rigo contrario.

Finire sconsideratamente a cenare
in un paese.

* * *

La risposta fu nello spazio. Attorcigliata
a se stessa e sufficiente a non dire.
Cʼerano donne e uomini, in compagnia,
parlavano con leggerezza, mentendo a ogni
riflessione, con gusto.
Quella vanità così esposta, quella aperta dichiarazione di fede
scarlatta nel calice appena condensato di crepuscolo
lasciava presagire che da dietro gli stipiti delle finestre
un gelo particolare battesse.
Vorrei poter ricordare ma non ho
nessuna attenzione per i nomi e le date.
Piuttosto, conosco lʼospitalità di quello che si dimentica.
La sensualità dello specchio che si ribalta
e copia il sogno di ieri, di ieri lʼaltro e lʼaltro… 


Stelvio Di Spigno vive a Napoli dove è nato nel 1975. È laureato e addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha scritto articoli e saggi su Leopardi, Montale, Gadda, Pavese, Zanzotto, Claudia Ruggeri e sulla post-avanguardia poetica italiana, insieme alla monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (L’Orientale Editrice, Napoli 2007). Ha collaborato all’annuario critico “I Limoni” con recensioni e note sotto la guida di Giuliano Manacorda. Per la poesia, ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Sometti, Mantova 2002, Premio Andes; 2a ed. accresciuta, Caramanica, Marina di Minturno 2006, Premio Calabria), Formazione del bianco, (Manni, Lecce 2007, finalista Premio Sandro Penna), La nudità (Pequod, Ancona 2010), Qualcosa di inabitato, con Carla Saracino (EDB, Milano 2013).

Carla Saracino è nata nel 1983 a Maruggio, in provincia di Taranto. Suoi testi sono apparsi su varie pubblicazioni, tra cui: «Nuovi Argomenti», «L’immaginazione» e «Almanacco dello Specchio Mondadori 2010». Ha scritto I milioni di luoghi (Lietocolle 2007, Premio Umberto Saba per l’opera prima), La Sposa Barocca (Lietocolle 2010), Il chiarore (Lietocolle 2013) e due libri per bambini, 14 fiabe ai 4 venti (Lupo 2009) e Gli orologi del paese di Zaulù (Lupo 2012). Scrive per diverse riviste letterarie e vive a Milano, dove lavora come insegnante.

 

 

 

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