
Aldo Busi, foto d’archivio
di Sacha Piersanti
Considerazioni a braccio sulla mutilazione della cultura italiana, o dell’arte del generalizzare.
“Se siete dei velleitari farete il libro giusto al momento sbagliato, se siete dei commercianti abili farete dei libri giusti al momento giusto, se siete degli scrittori farete dei libri sbagliati al momento giusto, se siete dei geni farete dei libri sbagliati in un momento qualsiasi.
Siate suicidali, il resto viene da sé.”
(Aldo Busi, “Sodomie in corpo” 11, 1988)
La certezza che il grande capolavoro, snobbato, eluso, misconosciuto: rimosso dalla sua contemporaneità verrà valorizzato, cioè semplicemente letto, in un futuro più o meno remoto, è ben poca cosa di fronte alla consapevolezza che sarebbe un’Italia diversa, questa, se l’opera di Aldo Busi, da quarant’anni su carta ma da quarantamila almeno nel DNA umano, fosse stata adeguatamente recepita. Sarebbe un’Italia diversa perché diversi sarebbero gli Italiani che la parlano, la lingua italiana – che cos’è, infatti, l’etica civile se non il riflesso politico dell’estetica del linguaggio?
Al di là della sviscerata partecipazione in prima linea e spesso, spessissimo, sempre in solitaria contro ogni forma di violazione del diritto dell’umano all’umanità, vale a dire il diritto all’illuminismo e all’umanesimo, le vere vittime di questa contemporaneità (Busi non si è mai tirato indietro né nascosto: dalla difesa della vera libertà sessuale alla lotta contro lo strapotere della Chiesa – delle chiese, toghe e partiti compresi – in settant’anni di vita non ha fatto che denunciare partecipando, senza deleghe o sotterfugi, senza censure, senza buonismi e quindi senza scrupoli, schifando gli intellettualismi e l’eco delle trombe accademiche: ha messo piede ovunque, dalla bolgia dei festival letterari all’eden del trash televisivo, fisiologicamente libero e disorganico) che si staglia nel considerare i cosiddetti contenuti, è nella cosiddetta forma che s’annida la grande morale mai moralismo di Busi.
Si prenda una qualsiasi delle oltre quaranta opere pubblicate dallo scrittore e, al netto dello specifico linguistico intrinseco a ogni libro – e basterebbe già questo per comprendere la grande esclusiva busiana nel panorama letterario contemporaneo: la non-serialità della scrittura, chiaro segnale della volontà, forse più dell’opera che dell’autore, di essere unica e irripetibile, non costretta nelle briglie del mercato, o semplicemente l’autodefinizione che si dà l’arte della parola, il cui scopo, se proprio deve averlo, non è certo quello di assecondare, accomodare, compiacere o, peggio, consolare il lettore – si noterà una costante che è nello e lo stile. L’io grammaticale che si espande, ipertrofico per esibita disinibizione, per smacco al pudore, al cliché, al così-si-fa, in realtà non vive che di affiancamenti, non vive che, isolato per deliberata autoviolenza, della presenza di elementi solo apparentemente secondari.
“Oltre a essere Dio, poi, quanto a farcela, non farcela, risollevarmi e ritentare da solo, ero anche Io, ero anche AB, l’inizio stesso di ogni alfabeto, di ogni lingua morta e di ogni lingua che nasce, e tutto moriva e rinasceva con me e attraverso di me, io universale collettore di ogni singolo io passato e presente, autobiografo dell’umanità.
I grandi romanzi autobiografici…‘oh, un’ultima didascalia, mia adorata foglia tra ancora un po’ di vita e il tempo che fu’…mica si fanno parlando di sé!”
(Aldo Busi, “El especialista de Barcelona”, 2012)
Lo stile di Busi è lo stile che si è data la parola democrazia: nella sintassi busiana non esistono vere subordinate, ma solo più o meno evidenti coordinate. La convivenza civile, il rispetto delle libertà altrui (a partire dalla propria di non-fare: di non farsi, ad esempio, depositario di una verità, vizio di tanta narrativa “realista” italiana – molti, sia detto per inciso, gli inchini e le corone e i baciamano, poca la realtà) sono la vera forma. Quest’io che sembra divorare il circostante non è che una spugna che si impregna di esperienze altrui, che non conosce gerarchie grammaticali, sintattiche (nonché lessicali: l’amplissima gamma di parole che Busi usa nei suoi libri non è mai sfoggio né barocchismo, ma ulteriore presa di coscienza della criminalità di istituire dei gradi giusti alla forma-lingua: nella stessa stanza di “elitropia”, dunque, o “abigeato” o “mitridatizzazione” convivono “bovassa” o “merda” o “selfie” o “s-ciao”), perché (e perciò) non conosce gerarchie tra gli umani.
“E pensare che per essere compiutamente me a me bastava l’unica che avevo, una vita, la vita, la mia unica vita e questo unico istante. Ma ho dovuto dividerlo con voi e dividermi per voi, e non vi perdonerò mai, o ingrati, di esservi così grato.”
(Aldo Busi, “Per un’Apocalisse più svelta”, 1999)
Ad oggi, se si escludono il lodevole sforzo di Marco Cavalli (Busi in corpo 11, Il Saggiatore 2006 eAldo Busi, Cadmo 2008), e la voce che ogni tanto alza Claudio Giunta (accademico tutt’altro che accademico), nessuno si è occupato a fondo e per davvero della letteratura di Busi. Si preferisce,fintamente complice la vivacissima disponibilità dello stesso scrittore, parlare e scrivere dell’Aldo Busi personaggio televisivo, e anche il mondo della cultura ufficiale, dell’università sembra seguire questa linea dell’omissione e dell’esclusione (che faccia potrà mai avere una letteratura italiana contemporanea i cui lineamenti sono sempre più solcati a ruga, la cui massima conquista di contemporaneità è aver scoperto il lifting dell’avanguardia, il silicone del postmoderno?).
Insomma, Busi continua a scrivere (l’ultimo romanzo, Le consapevolezze ultime, è del maggio2018, per Einaudi), la critica continua a ignorarlo e l’università continua a metterlo da parte. Così come continua a metterlo da parte anche la maggioranza dei cosiddetti lettori forti fortissimi potenti che siano. La lettura – pratica impugnata e sbandierata in nome spesso d’un mondo e d’una società più giusti e sani, più felici e colti, anche, se non proprio soprattutto, da coloro i quali, Holden in tasca e Il piccolo principe nel cuore, si sentono esperti sopra gli altri, e degli altri assai migliori, perché comodamente approdati sull’isola d’Arturo e snob e mai autocritici a naufragare su quella dei famosi – è in fondo sempre più un hobby da fermata dell’autobus, e sempre meno ciò che la rende così fondamentale, vale a dire un esercizio di critica civile, un atto d’accusa verso noi stessi che accenda un faro sulla nostra mediocrità per accettarla o scavalcarla e farci realmente autocoscienti. E lo dimostra il successo, mediatico e politico, che investe invece gli autorini dello stereotipo, quelli che, tra amiche geniali e accabadore meno svelte, treni di panna e altri ricettari, romanzetti al sangue o corretti allo Strega, usano la lingua come sulle righe di terza elementare (o come, s’apra l’ultimo armadio e prego entri il teschio, quel bimbo che fu chi scrive qui e ora, quando gli scoppiavano dentro, più sonori degli ormoni, il sole il cielo e il mare…), ché ciò che conta (e vende) è la bontà e il politicamente corretto dei contenuti (ormai incurabile, ad esempio, il morbo del manicheismo neorealista per cui i poveri son sempre bravi e buoni e giusti e i ricchi cattivi e sanguinari, il popolo è sempre vittima e mai carnefice, quando lo è in primis di se stesso: che Populismo ha vinto su popolare lo dimostra, oggi, il diffuso, ovino allineamento alle promesse di pastori e pastorelli con o senza pastorale), con un appiattimento televisivo-giornalistico dello strumento lingua senza precedenti (si pensi alla quantità infinita di frasi-tipo che allungano il brodo della narrativa contemporanea: da “fece spallucce” e “fece capolino” a “…già presagiva qualcosa di strano”; da “un gelo così non l’avevo mai sentito” a “è cibo per l’anima”; da “ero giovane e non sapevo dove andare” a “sono cose che ti segnano”; da “come se ci conoscessimo da sempre” a “allora non capii”; da “non potevo crederci: era lì davanti a me” a “come fosse la prima volta”…) e l’odiosissima mania di paragrafare ogni cinquanta, cento, centocinquanta righe perché ‘la lettura è più scorrevole’.
Ma, come sempre e come è giusto, sono le persone, gli uomini e le donne, a comprare e dar valore a quello strano oggetto, opera-prodotto, che è il libro col suo autore. Evviva, allora, l’assoluta libertà di scelta (?) nell’acquisto, anch’esso, nonostante tutto, chiaro esempio della centralità del democratico, quel democratico che, nella pagina e nel corpo, nel sangue e nell’inchiostro, nella penna e dentro i tendini, è il valore assoluto della narrativa di Aldo Busi, genio talmente pratico e anticlassista (non si dimentichi, tra l’altro, che Busi è da sempre rabbioso e lucido antagonista della Legge Bacchelli, legge antidemocratica che verga una bella linea divisoria tra gli artisti, quelli dei ‘meriti culturali’, e le persone ‘comuni’, come se un giornalaio un bidello un operaio un falegname un benzinaio un fattorino un maestro d’asilo non contribuissero alla crescita, allo sviluppo, alla sopravvivenza di ‘sto paese) da non accettare il livellamento per difetto delle capacità intellettive dell’Occidente. Livellamento su cui pontificano la propria carriera di scriventi tutti gli altri.
“Inclusi gli esclusi”.
Biografia online (https://biografieonline.it/biografia-aldo-busi)
Aldo Busi nasce il 25 febbraio 1948 a Montichiari (Brescia). Esce di casa all’età di 14 anni, costretto dal padre ad abbandonare gli studi. Aldo comincia così a lavorare come cameriere in diverse località del Garda. Si sposta poi viaggiando e accumulando esperienze tra Milano, Parigi, Berlino, New York e Londra. Lavora come interprete saltuario e si cimenta con importanti traduzioni dall’inglese e dal tedesco, tra cui Ackerley, H. von Doderer, Goethe, Wolitzer, Stead.
Consegue il diploma di scuola superiore a Firenze, poi si iscrive presso l’università di Verona, dove consegue una laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 1981 con una tesi sul poeta americano John Ashbery. Dello stesso Ashbery traduce “Autoritratto in uno specchio convesso” nel 1983.
Aldo Busi esordisce in campo letterario nel 1984 con “Seminario sulla gioventù”, accolto con favore dalla critica e dal pubblico. Pubblica poi “Vita standard di un venditore provvisorio di collant” (1985), “La delfina bizantina” (1987), “Sodomie in corpo 11” (1988), “Altri abusi. Viaggi, sonnambulismi e giri dell’oca” e il testo teatrale “Pâté d’homme” (1989).
Nel 1987 è finalista al premio letterario “Premio Bergamo”. Due anni più tardi subisce un processo per oscenità a Trento per il libro “Sodomie in corpo 11” dal quale esce assolto con formula piena.
Prolifico autore, durante gli anni ’90 pubblica “L’amore è una budella gentile” (1991), “Sentire le donne” (1991), “Le persone normali” (1992), “Manuale del perfetto Gentilomo” (1992), “Vendita di galline km 2” (1993), “Manuale della perfetta Gentildonna (1994), “Cazzi e canguri (pochissimi i canguri)” (1994), “Grazie del pensiero” (1995), “Madre Asdrubala: all’asilo si sta bene e s’imparan tante cose!” (1995), “Suicidi dovuti” (1996), “Nudo di madre: (manuale del perfetto scrittore)” (1997), “L’amore trasparente (canzoniere)”, (1997), “Aloha!!! (gli uomini, le donne, le Hawaii)” (1998), “Per un’apocalisse più svelta” (1998).
Dopo il 2000 i suoi lavori sono “Manuale della perfetta mamma” (2000), “Casanova di se stessi” (2000), “Manuale del perfetto papà” (2001). Nel 2002 ripresenta “Sentire le donne”, una raccolta di articoli, racconti e scritti – integrato con dieci anni di nuovi interventi – che hanno come protagoniste le varie personalità incontrate negli anni da Aldo Busi. Sempre del 2002 è il romanzo breve “La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria”, con cui vince il Premio Letterario Frignano.
“E io, che ho le rose fiorite anche d’inverno?” esce nel 2004, poi “Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo” (2006), che contiene un tenero e allo stesso tempo spiazzante omaggio alla madre.
Aldo Busi ha tradotto numerosi libri dall’inglese, dall’italiano antico e dal tedesco: tra questi ricordiamo “Alice nel paese della meraviglie” di Lewis Carroll (1988), il “Decamerone” di Giovanni Boccaccio (1990-1991), “Il Cortegiano” di Baldassarre Castiglione (1993) e “Intrigo e amore” di Friedrich Schiller.
Dal 2003 partecipa al programma televisivo di Canale 5 “Amici”, di Maria De Filippi, in qualità di insegnante di cultura generale e comportamento.
I molti titoli al suo attivo si possono dividere classificandoli tra romanzi, romanzi brevi, prose di viaggio, manuali, più diversi altre opere di non immediata catalogazione: ad ogni modo la ricca e diversificata produzione di Aldo Busi lo fa affermare come grande polemista nonché potente narratore.
Il critico letterario Marco Cavalli pubblica nel 2006 la prima importante monografia sull’opera di Busi: “Busi in Corpo 11” analizza e commenta l’opera dello scrittore includendo importanti interventi dello stesso Busi insieme a due racconti inediti.
Nel gennaio 2010, dopo quasi sette anni di astinenza dalla scrittura, Aldo Busi pubblica una raccolta di tre racconti per l’editore Bompiani dal titolo “Aaa!”. Nel febbraio dello stesso anno torna a rilanciare la sua immagine televisiva partecipando come concorrente al programma “L’Isola dei Famosi”.
L’articolo è lacunoso. Non è affatto vero che solo Cavalli si sia occupato dell’opera busiana: nel 2006, infatti, uscì “Diabolus. Seminario di letteratura busiana” di Cristian Porcino (Kimerik), peraltro assai apprezzato. Come mai non lo conoscete? Aggiornatevi. Saluti
Gentilissima,
Le segnalo il passaggio del lacunoso articolo (il cui sottotitolo è altrettanto lacunosamente eloquente) che spero risponda alla Sua domanda: “a fondo e per davvero”.
Saluti!
SP