Michael Kruger, Il coro del mondo

Protagonista della scena culturale tedesca e austriaca e attento lettore di letterature straniere, fra cui l’italiana e l’israeliana, Michael Krüger è un nome di primo piano nella lirica tedesca, insignito dei più prestigiosi premi nazionali. In italiano è già apparso come poeta, saggista e narratore. Il coro del mondo (Mondadori 2010 (euro 15), tratto dall’antologia tedesca “Archine des Zweifels” (2001), dalle raccolte “Kurz vor dem Gewitter” (2003), “Unter freiem Himmel” (2007) e dalla recente “Ins Reine” (2010), è un itinerario in una poesia vicina e comprensibile, estranea alla mistica della parola ma con la grande liederistica romantica alle spalle. Kriiger è un malinconico, un “amico della morte” che tende l’orecchio al “cantico dell’inanità” ma fa parlare il visibile – la natura viva, acque, boschi e animali ora tangibili ora alieni -, gli uomini in perenne ricerca di giustificazioni e anche un suo io che dice cose che non si aspettava di dire. Inatteso per noi anche il suo ironico ma cordiale “undicesimo comandamento”: “non morire, / ti prego”. E la storia? Per l’ironico, per l’irridente non conta granché, e meno ancora conta la grandezza: “Una mucca pascola davanti alla casa / l’ultima di una fila di mucche. / Una loro antenata, bianco-marrone,/ fu presentata a Napoleone, / poco prima che incontrasse Goethe a Weimar”.

Questa raccolta, curata da una poetessa e traduttrice come Anna Maria Carpi, comprende versi pubblicati in Germania tra il 2000 e il 2010: essa presenta perciò al pubblico italiano nel modo finora più ampio e articolato la poesia di un autore che si caratterizza per l’asciutta esattezza intellettuale della sua pronuncia e per l’efficacia della sua meditazione in versi, capace di coinvolgere i temi più diversi con ironia e tensione al tempo stesso.

Come vanno le cose

E’ tutto tranquillo. Non è successo niente.
L’errore si scoprire il mondo lo rimpiangiamo da un pezzo.
Ogni colpo di vanga, ogni osso ritrovato, ogni speranza dissepolta:
la loro inefficacia è dimostrata da un pezzo. Le rovine
si edificano su progetto, anche questa una vecchia soluzione per dopo.
Sulle macerie artificiali abitano famiglie, accanite
a distribuire foto a colori: istantanee senza garanzia.
Si parlava di una piccola lista di obiezioni,
ridicolaggini, non mette conto di parlarne: non mette conto
comunque d’interrompere gli altri.

Tutto è tranquillo. Non è successo niente.
Le piccole ferite sanguinano come al solito, i ritardi
non hanno motivo. In altre parole, in altro modo,
detto altrimenti: il caso ne esce di nuovo vittorioso,
la ragione è battuta: nemmeno questo
le si vede addosso. Il suo profilo si è fatto più morbido
da quando parla solo di se stessa, i suoi occhi sono
più accademici, ogni sua uscita è facilmente scusabile.
E’ uno spasso diabolico starla a guardare: le soavi
drammatizzazioni della sua indifferenza.

E’ tutto tranquillo. Non è successo niente.
I sentimenti si sono fatti meno vistosi, era da aspettarselo, l’odio,
si è mutato in invidia. Non vi eccitate,
niente storie, niente malinconie: il finanziamento dell’apatia
è assicurato. L’export si sta riprendendo. La vita
è ora capace di miglioramento, finalmente
gli sforzi sono valsi la pena. Al museo, indifese,
le timide ambizioni dei passati:
a ognuno si fa chiaro come il sole su cosa si è infranta la storia.

Non è successo niente. E’ tutto tranquillo.
L’alfabeto è di nuovo in uso, le tabelline,
il dialogo ha congiuntura. I vecchi cappelli,
le vecchie profezie, i vecchi fenomeni: tutto
sembra nuovo. Ognuno da ieri ha la chiara sensazione
di esserci. Ognuno si presenta bene. Ognuno guarda ognuno
con interesse. Le conversazioni balbettanti
sono ammutolite, tutto scorre, fluisce, gli intimi
deragliamenti non ci sono più. L’oscuro è stato eliminato:
aforismi descrivono il mondo con mortale chiarezza.

da Il coro del mondo, Mondadori 2010

Michael Krüger, sassone, è nato a Wittgendorf nel 1943 ed è cresciuto a Berlino. Attualmente risiede a Monaco, dove dirige la casa editrice Hanser e la rivista “Akzente”.
Poeta e romanziere, in Italia ha pubblicato le raccolte Di notte tra gli alberi (2003) e Poco Prima del temporale (2005). Fra le traduzioni italiane delle sue opere ricordiamo Perchè Pechino (1987), Il ritorno di Himmelfarb (1995), La fine del romanzo (2000), La violoncellista (2002) e La commedia torinese (2007).

Giorgio Vigolo, il tempo del ritorno

 

Con il suo libro “L’eremita di Roma” Vita e opere di Giorgio Vigolo (Fermenti Edizioni 2010, euro 16) Magda Vigilante si concentra sulla scrittura creativa di Giorgio Vigolo che la porta a disegnare il tracciato del poeta e del prosatore per consegnare al lettore un ritratto assolutamente inedito dello scrittore. La Vigilante, forte della conoscenza delle carte vigoliane, traccia una prima e documentata ricostruzione della biografia dell’autore che è – soprattutto – biografia intellettuale, che colloca Vigolo sullo sfondo dell’ambiente culturale romano del primo e del secondo dopoguerra, seguendone il tartto a partire dall’infanzia fino alla piena maturità.

 

“Spesso mi capita di chiedermi perché Giorgio Vigolo tardi ad avere il seggio eminente che gli spetta nel Parnaso letterario del nostro Novecento. Avrà certo inciso, in vita, il suo carattere esigente, una consapevolezza del proprio valore che dai tanti critici militanti e dirigenti editoriali distratti o superficiali (tanti ieri, ancor più oggi) poteva scambiarsi per alterigia. Ma certo, a quasi trent’anni dalla sua morte, la causa va ricercata altrove. Innanzitutto, nella vastità della sua cultura e nella poliedricità della sua scrittura, in tempi in cui la cultura profonda è merce rara e di poliedricità si pavoneggiano giornalisti e tuttologi. Quale faccia del prisma vigoliano non basta da sé a diffondere una luce cristallina? La sua poesia, così visionaria e solitaria, così controcorrente, moderna insieme e classicamente restìa al facile avanguardismo? La sua mirabile traduzione del potente Holderlin? La sua prosa d’arte e i suoi racconti, stesi in punta di penna, ma una penna intinta di un inchiostro nero e lucente che non si trova nei minuziosi calamai di certi rondeschi? La musicale prosa del critico musicale? La sua acribìa filologica e interpretativa, nel saggio e nel commento all’opera di Giuseppe Gioacchino Belli, penetrato negli abissi della psiche come nei risvolti dello stile?” […]

dalla Prefazione, di Pietro Gibellini

Il ritorno di sera

Un silenzio m’invita
di perduti sentieri
a un alto prato ove fra i monti sola
mi sorprende la sera: e come chiudo
in me lo sguardo a contemplar intento
vedo nel buio cuor sorgere un’alba
e illuminarsi un ignorato mondo:
dentro di me nascondo un altro cielo.
E par che il sole che nei boschi cade
e brune lascia le contrade e i monti,
in me stesso rinasca ad albeggiare…
e non tramonti
Anima senza tempo in te mi perdo.
Dal profondo m’attiri
come incantato specchio
ove per quanto io miri
non vedo l’ombra del mio viso umano;
ma nei tuoi gorghi affiora
un paesaggio arcano
che di sé le cangianti acque colora.
Così veduto ho un’altra volta ancora
le foreste sul mare
piegar nell’ombra le ispirate fronti,
mentre i ghiacciai sui nuvolosi monti
ardean sospesi come organi d’oro
nell’alba d’antichissimi orizzonti.
Di memoria in memoria alle perdute
vite del cielo tornare mi sembra,
e su laghi di larghi argentei fiori,
quanto più si rimembra
l’anima di que’ suoi lontani albori.
E sento ormai che del corporeo mondo
ogni apparenza trema e si dilegua;
questa è la soglia estrema
ove il pensiero degli umani è spento;
qui d’un alto spavento io provo il gelo
e, se tornare anelo,
non so la via che riconduce in terra.
Dal nodo delle membra si disserra
lo schiavo, sciolto; e si ritrova in cielo.
Ma più grata, al riaprir gli occhi, la cara
terra che amiamo e le borgate e il fiume
che il moribondo lume
della sera d’autunno in se trattiene
e con purpuree vene
l’ultima luce per le valli sparge.
Caro viso di donna anche ritrovo
sulle fidate soglie
della casa serena;
e quasi gli occhi inumidisce il pianto
se sull’amata bocca e sulle chiome
bacio l’antica pena
e il ritrovato incanto
della vita serena.

“Sono rari gli autori italiani del Novecento che si siano interessati a svariate attività culturali come Giorgio Vigolo, il quale unì alle sue qualità di poeta e narratore anche una profonda conoscenza musicale – messa a profitto nelle cronache musicali scritte per giornalie e riviste – una notevole perizia filologica che gli permise di curare per primo, nel Novecento, l’edizione critica dei Sonetti del Belli e doti di fine traduttore che utilizzò nella traduzione di vari autori stranieri, tra cui il poeta tedesco Holderlin. Egli svolse nella sua vita un’attività instancabile, provando però sempre il rincrescimento di non vedere mai pienamente apprezzate dai contemporanei le opere prodotte in tanti anni di assiduo esercizio letterario al quale si era affiancata anche la critica musicale a partire dal secondo dopoguerra.
Non è facile, quindi, ricostruire il complesso itinerario vigoliano non solo per l’estesa produzione artistica che attraversa quasi l’intero secolo ma soprattutto per la grande varietà degli argomenti affrontati dall’autore. Per tale motivo si è deciso d’esplorare solamente l’attività creativa, compiendone un’analisi critica raffrontata anche alle vicende esistenziali di Vigolo. A tale proposito un contributo fondamentale è offerto dalla consultazione dell’esteso Archivio dell’autore conservato presso la Biblioteca Nazionale di Roma – L’Archivio, notevole per la sua completezza, fu acquistato nel 1989 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali dall’erede M. Berardinelli ed è stato ordinato e catalogato dalla scrivente – dove sono documentati, oltre alla genesi delle singole opere, anche gli episodi, gli incontri e le amicizie che costellarono la lunga vita di Vigolo.
L’autore, infatti, ha disseminato numerose tracce per consentire ai futuri studiosi la ricostruzione dell’intera vicenda umana e artistica. D’altra parte, nella produzione narrativa e poetica è ricorrente il tema della memoria che assume un significato quasi sacro. Egli infatti non solo ricollegava ad antiche esperienze numerosi testi poetici e narrativi, ma aveva anche conservato in modo quasi ossessivo remote testimonianze della sua infanzia, dei suoi genitori e delle loro famiglie e dell’ambiente culturale e sociale dove era cresciuto nella sua città natale, Roma, dalla quale si allontanava solo per brevi viaggi.
Per comprendere pienamente la sua arte è necessario compiere con lui il viaggio a ritroso nella sua vita fino ai più antichi ricordi che maggiormente hanno contribuito a definire la sua personalità e la sua ‘topografia poetica’.”
Magda Vigilante

Le midolla del male

Nell’ambito delle iniziative culturali promosse dalla Fondazione Toti Scialoja, costituita il 19 maggio 2000 per volontà testamentaria di Gabriella Drudi e in ottemperanza dei desideri di Toti Scialoja (Roma, 1914 – 1998) sono stati istituiti un Premio per la poesia e un Premio biennale per i linguaggi artistici.

Per la prima edizione del Premio per la poesia il Consiglio di Amministrazione della Fondazione, su indicazione di Paolo Mauri, ha deciso di assegnare il premio al poeta Emilio Zucchi per il suo poemetto Le midolla del male edito da Passigli.

Giuseppe Conte, nella prefazione al volume scrive: “Emilio Zucchi non ha paura di raccontare. Di piegare una ispirazione potentemente lirica alla disciplina della narrazione. Della sintassi. Della ragione. È un momento di poesia compiuto e solenne. Di tensione etica severa e dolcissima. Di cui sono grato a Emilio Zucchi, che si conferma qui poeta di grande tempra stilistica e spirituale”.

Il premio verrà consegnato giovedì 16 dicembre alle ore 18,00 all’Accademia di San Luca a Roma (Piazza dell’Accademia di San Luca, 77). Nel corso della manifestazione, dopo una lettura dei propri versi da parte del poeta vincitore del premio, verrà ricordata l’opera poetica di Toti Scialoja.

Emilio Zucchi è nato nel 1963 a Parma, dove vive. Ha pubblicato le raccolte poetiche Il pane (Campanotto, 1994, recensito da Giovanni Giudici su l’ “l’Unità”), Il pioppo genuflesso (prefazione di Mario Luzi, Diabasis, 2001), Tra le cose che aspettano (prefazione di Maurizio Cucchi, Passigli, 2007; finalista nello stesso anno ai Premi Viaraggio-Répaci e Cetonaverde Poesia) e, nell’ottobre del 2010 edito da Passigli, il poemetto storico Le midolla del male, ambientato nel 1945-’44 a Firenze, Roma, Parma, Milano e incentrato sulle figure del torturatore fascista Pietro Koch e di Anna Maria Enriques, partigiana cattolica toscana seviziata e uccisa dagli aguzzini in camicia nera.

XXXIII
Anna Maria, Anna Maria Enriques:
questo è il mio nome, Pietro Koch, ricordalo.
Ero già morta quando tu salivi
verso Milano per aprire un’altra
Villa Trieste, peggiore della prima,
perchè è sempre peggiore il male fatto
per la seconda volta. Quando vidi
i tuoi occhi, quel giorno, nelle camere
delle torture, dove fuoriuscivano
dal mio corpo le linfe della vita,
dove per giorni e giorni fui tenuta
in piedi con le scosse
elettriche, tenuta sveglia, e il sonno
mi tormentava; quando
vidi i tuoi occhi, io vidi, come specchi
moltiplicati a mille nel riflettersi,
tutto l’inganno del possesso, tutto
l’errore che comprime il mondo, tutto
il mentecatto tempo delle cose
chiuse dentro le cose sotto un sole
smunto di sete. Arno, padre di carmi,
infuse in me silenzi lunghi e assorti,
quando i libri mi accolsero ragazza,
e mi furono amici, mi ascoltarono;
poi, molti anni più tardi,
una goccia brunita del suo scorrere
si mescolò a una goccia del mio sangue,
portata dal Mugnone suo affluente,
presso il quale la vita mi fu tolta.
Tu, Pietro Kock, non sai quanta bellezza
c’è in un fiore di campo, in un cortile
con le lenzuola stese, nel diario
di una ragazza timida, nel vento
sopra l’erba ingiallita… Tu non sai
l’immensità di un treno in lontananza
e di una latta arrugginita accanto
a due bimbi che giocano; non sai,
non sai, non sai… Io ero morta da un anno,
la sorte di Tamara Cerri, andasti
a consegnarti in questura: la cella
per te e il processo e la condanna a morte,
in cambio della sua liberazione.
Ora prego per te, perchè quel gesto
in te sia stato amore,
e non superba, vanagloria. Infame
e ripugnante ti ricordo; eppure,
io spero che alla tua interiore tenebra,
smisurata di male,
d’amore una scintilla sia sfuggita
eternamente. Pietro,
io spero quel bagliore, propagandosi
fino alla foce attonita del tempo,
lampo d’eternità, lampo, divenga,
nullificando il tuo inferno. Io ti aspetto.

da Le midolla del male di Emilio Zucchi, Passigli Edizioni
www.fondazionetotiscialoja.it

Paola F. Febbraro, ‘Al giusto verso’

“Quando Brunella Antomarini mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul rapporto tra la poesia e i sensi, le ho risposto proponendole di fare degli incontri che avrei registrato e poi trascritto.
Quello che Brunella Antomarini mi diceva a riguardo mi interessava e mi stimolava molto. Anch’io, come lei, volevo saperne di più. Per questo alla fine, dopo aver tentennato per un anno intero attorno a diverse soluzioni su come utilizzare il materiale, ‘illuminata’ da un ultimatum tipografico, ho deciso di trascrivere integralmente (o quasi) questi ‘dialoghi’, avvenuti in tre incontri: dal dicembre del 1999 al febbraio del 2000. Ho lavorato al testo per rendere scorrevole ‘la lingua parlata’ togliendo o aggiungendo, ma sempre rimanendo fedele al modo in cui i dialoghi si erano sviluppati, i ‘contenuti’ dei nostri dialoghi. Ho voluto lasciare anche quelle che ho titolato come ‘Appendici a registratore spento’ dove, ritrovata una certa forma di intimità, mi sono lasciata andare a sintesi più ‘libere da orecchie indiscrete’. Le Appendici sono state possibili grazie agli appunti presi da Brunella Antomarini. Nota: nel terzo e ultimo incontro mi fu offerta una Tequila. Incautamente. Forse.”
Paola F. Febbraro

Dicembre, primo incontro
Brunella Antomarini
La teoria dello Ione di Platone dice che i poeti sono anelli di una catena. Ognuno si attacca al precedente e si trasmettono le poesie, uno con l’altro fino ad arrivare allo ‘spettatore’.
Una poetessa americana, Susan Stewart, ne dà un’interpretazione più psicoanalitica. In un suo saggio riporta la ricerca di uno psicoanalista che racconta come certi pazienti, per esempio, facciano delle azioni del tutto inutili e si chiede come mai; sono come compulsioni che si scoprono legate a quelle che un antenato compiva con un motivo preciso; c’è n’è uno che vuole fare il geologo e vuole spaccare le pietre, però sente che in quest’azione c’è qualcosa che lo riguarda profondamente e scopre che suo padre o suo nonno spaccava le pietre, nel senso che era stato mandato ai lavori forzati e poi morto nei campi di concentramento; per cui questo spaccare le pietre era connettersi all’azione di qualcun altro. L’azione di qualcun altro penetra dentro di lui e lei dice che allo stesso modo nella voce del poeta c’è quella del poeta precedente, come dice Platone. La voce è come un magnete. Ecco perchè questa voce del poeta prende – lei usa un’espressione bellissima – ‘una traiettoria difficile’. La traiettoria difficile consisterebbe nel ritmo, nel verso o anche in questa voce, che, come dici tu, non è mai una voce qualsiasi, ed è una voce che viene dal corpo, è somatica. Tu ascolti il poeta e poi questa voce viene dentro di te e tu la ripeti a qualcun altro e un altro e così via; questa voce che deve essere solenne, ritmica perchè fa parte di altre regole che non sono solo quelle della semplice comunicazione, una voce che deve essere assimilata dal corpo e non dall’apparato simbolico. C’è allora una specie di domanda: perchè noi dovremmo avere bisogno di questa voce? Perchè gli esseri umani si sono costruiti questo grande abito di parlarsi per queste voci, come se non ci bastasse un solo tipo di comunicazione, quella ordinaria.

Paola F. Febbraro Per bisogno di conoscersi. Tutti.  Ma adesso qualsiasi risposta mi sembra insufficiente, in altre parole più complicata del necessario. Potrei dirti che il linguaggio poetico è il linguaggio capace di far compartecipare emozione e memoria. Ed è attraverso l’emozione che il ricordo può diventare nutrimento e strumento per qualsiasi presente.

Brunella Antomarini Ma tu usi dei versi, non parli così… tu hai bisogno del verso giusto per dare un inizio e una fine al flusso di parole. Questa ritmicità allora è solo uno strumento? E’ strumentale solo al fatto che io l’assimilo meglio?

Paola F. Febbraro Il ritmo, la lunghezza del verso deve tentare di riprodurre la mia energia, il mio fiato, direi quasi il tempo di ricezione dell’emozione. Stendo la misura del mio respiro. Ho un pensiero limpido e poi ho bisogno di fermare il senso… perchè c’è anche il senso. Le parole hanno un significato e il significato più avanti si va più ‘pesa’, perchè una parola se ne porta appresso tanti, è carica di significati di altri ‘sistemi’: politici, storici, giuridici, anche letterari e quindi quella parola potrebbe significare qualcosa di diverso da quello che io vorrei liberare. Vorrei che la parola portasse soltanto quello che nomina oppure soltanto se stessa. Quella parola allora potrà anche sorprendermi.

Brunella Antomarini Deve essere sorprendente la parola del poeta?

Paola F. Febbraro La parola nella poesia non deve essere sorprendente, casomai deve essere capace di suscitare ‘meraviglia’ che vuol dire vedere il mondo e se stessi da un punto di vista ‘diverso’, mai esplorato prima. Quando scrivi una poesia quello che scrivi è come se fosse lì per la ‘prima volta’. […]

Appendice a registratore spentoLa parola sia come suono che come segno era parola magica.

 

Il linguaggio è potente, capace di violenza. Una parola di guerra è di per sè violenta. La pubblicità della lotta al cancro, per esempio, è scritta in un tono così violento… Cioè dice che c’è una guerra contro il cancro ed è questa guerra che fa venire il cancro. L’anima interiorizza le parole, per questo la lingua poetica non è solo questione di tecnica e di tradizione. Il poeta ha anche una responsabilità, perchè una poesia è un organismo, è un ‘oggetto particolare’ riproduce un percorso di esplorazione e conoscenza. Con una certa parola io continuo da una parte e non da un’altra. Se decido di non usare il tu e di scegliere l’io è perchè in quel punto è un tu così generico, direi così neutro, che confonde. La poesia è sciamanica, capace di ‘guarire’. Perchè una poesia guida a un’esperienza d’entrata e di uscita che tu stesso hai fatto, tu fai entrare al primo verso e fai uscire all’ultimo. E’ testimonianza di un’esperienza che può essere rivissuta. Per questo il poeta ha la responsabilità di non confondere se stesso e il lettore. La poesia manda al giusto verso il sentire. Il verso è il giusto verso, se confonde manda al verso sbagliato il sentire. Qui il verso sta ad indicare anche una direzione, un orientamento. Il ritmo, la versificazione, la tradizione, evitano che si vada in una direzione qualunque.

Gennaio, secondo incontro

Brunella Antomarini C’è una differenza tra scrittura e oralità? Noi ormai apprendiamo attraverso la poesia scritta e la riproduciamo per iscritto. Mi sembra che le due cose possano anche essere due cose diverse, o no? Se non sono diverse dobbiamo ridurle a qualche cosa che hanno in comune? Oppure l’una è soltanto quella che viene dopo l’altra, la scrittura viene dopo l’oralità? Comunque noi ci riferiamo anche solo inconsciamente alla sonorità, anche se usiamo la scrittura, oppure c’è una sinestesia per cui noi usiamo tanto l’una quanto l’altra, tanto l’orecchio quanto l’occhio?

Paola F. Febbraro La parola scritta fa sempre riferimento al Canto ma ne è privata proprio perché è scritta. Oggi dopo Rilke, che è stato l’ultimo che ha toccato il Canto, scrivere poesia è aver perduto il Canto. Il Canto è la cosa perduta della poesia, perché se tu scrivi non canti. Questo estremizzando e l’estremizzazione serve in quanto spinta etica alla ricerca, alla chiarezza, all’essere sempre presenti al proprio lavoro. Bisogna essere più tranquillamente chiari: la perdita del canto non è una cosa che distrugge la poesia ma è una cosa che io quando scrivo debbo sapere. […]

Appendice a registratore spento

Essere poeta vuol dire essere visibile e invisibile insieme: il poeta, essendo esso stesso strumento della propria arte, si porta appresso se stesso dovunque vada. Croce e delizia.

Bisogna avere così cura del proprio essere strumento che l’autodichiarazione pubblica di essere poeta provoca l’identificazione con qualche cosa che non gli appartiene. Il lavoro è più interiore. Mi sento poeta perché mi sento in amicizia con altri poeti prima di me. E questa amicizia reclama una forte ‘intimità’, una forma di segretezza.

I campi semantici della parola. Per esempio ‘serena disperazione’. Io ho riconosciuto la mia genealogia poetica, seguendo questa parola in quel campo ed escludendone altri. Con ogni parola puoi fare un percorso oppure un altro. Per esempio ape. Ape, così presente nelle poesie di Emily Dickinson. Quando scrivo ‘ape’ evolvo quel ronzio e non un altro. Ape ora per me è diventata intelligenza femminile così piena di passione anche fisica, anzi, di desiderio. Così come me l’ha trasmessa Emily Dickinson, e poi anche Amelia Rosselli. La uso come ponte per viaggiare, come vero e proprio strumento di ricerca. Se l’ape attraversa certi significati, attraversa certi ponti, mi porterà in altri campi. Mi prendo la responsabilità di usare ape in modo da continuare l’esperienza di quel poeta. Per fare questo devo prima di tutto essere capace di riconoscenza verso Emily Dickinson. E in un certo senso essere riconoscenti significa anche andare avanti, non ripetere lei. La riconoscenza passa anche attraverso una certa commozione. Mi commuove chi per la prima volta porta una parola in un altro campo o la dà così: nuda e cruda. Mi spinge a curare me stessa come strumento della poesia. Mi commuovo perché so quanto è costato scrivere in quel modo. Nella commozione apprendo. Cerco di avere cura di questa mia commozione, non me ne lascio annebbiare ma ne assimilo l’insegnamento che è: sii libera di continuare a lavorare.

Un ringraziamento particolare a Brunella Antomarini, Franca Rovigatti e Maria Teresa Carbone per aver ‘portato in luce’ nel corso degli incontri di PoEtiche 2010 questo discorso sulla poesia di Paola F. Febbraro, pubblicato da Il Cannocchiale, N.1, gennaio/aprile 2002 qui riportato solo in un piccolo frammento.
Luigia Sorrentino

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Valentino Zeichen, Aforismi d’autunno

Con il suo nuovo libro “Aforismi d’autunno” (Fazi Editore, 2010) Valentino Zeichen sperimenta un genere nuovo, interamente formato da sostanza e pensiero, e da lui stesso definito “intelligente”. Un libro composto pensando ai cambi di colore della natura in autunno, come metafora di una condizione esistenziale. Zeichen unisce alla profondità di un Karl Kraus l’eleganza di un Oscar Wilde nonché la raffinata leggerezza di Ennio Flaiano. Sono infatti questi i principali modelli di riferimento per la raccolta nonché maestri nell’arte di scrivere aforismi, forma per eccellenza di “intelligenza organizzata”. 

Zeichen ragionando unicamente di ciò in cui crede e di ciò che pensa, arriva a un concentrato di parole che appaiono rimescolate in base a una chimica sofisticata che coinvolge prima di tutto la lingua: icastica, spesso oscura, talvolta più limpida, che ogni volta si esprime lasciando fuori i sentimenti. Il risultato è una sorta di ‘autoritratto intellettuale’ in cui è esplicitato il punto di vista dell’autore su temi quali il tempo come inganno, la letteratura come ispirazione, l’inevitabile passaggio delle stagioni. Tante le citazioni presenti fra le pagine e tanta l’autoironia per un’opera caratterizzata da uno stile improntato alla concisione e all’arguzia. Con questo libro, Valentino Zeichen dà prova di grande eclettismo: accanto a testi brevi, composti in un periodo precedente, ci sono testi più lunghi, altri persino narrativi per un piccolo compendio di poetica saggezza.



Valentino Zeichen
è nato a Fiume ma vive a Roma. Dal 1974, anno della prima raccolta di poesie, ha pubblicato diversi libri fra cui Ricreazione (1979), Tana per tutti (1983), Museo interiore (1987), Gibilterra (1991), Metafisica tascabile (1997) e Neomarziale (2006). Un’antologia di tutte le poesie è apparsa negli Oscar Mondadori. Per la Fazi, nel 2000, ha pubblicato Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, raccolta completa di DVD.

da “Aforismi d’autunno” di Valentino Zeichen

20
Sono vissuto nei secoli
di due differenti millenni
eppure sono morto.

21
Gli anni sono come docili
cavalli al pascolo
la cui indolenza ci rassicura,
quando partono all’improvviso
al galoppo numerico.

22
Il tempo è un soggetto senza “oggetto”,
perciò la gioventù non lo considera
essendogli, al momento, creditrice.

www.fazieditore.it