Chiara Gamberale, ‘Le luci nelle case degli altri’

La famiglia, come la racconta Chiara Gamberale, 33 anni, nel suo nuovo romanzo ‘Le luci nelle case degli altri’ (Mondadori, 2010) ‘è in fondo il microcosmo in cui viviamo tutti all’oscuro di qualcosa che ci riguarda come accade nella vita, a volte anche con esiti terrificanti. In fondo – dice la scrittrice, ideatrice e conduttrice di programmi radiofonici e televisivi come ‘Gap’ (Raiuno) e ‘Io Chiara e l’Oscuro’ (Radiodue) – non sappiamo mai veramente chi sono proprio le persone che ci stanno più vicino. E anche, sottolinea nel libro, ‘sapere fino in fondo chi sono i nostri genitori non ci serve proprio a niente. Dobbiamo conoscerli, certo. Ma, conoscere una persona non significa sapere proprio tutto di lei.’
Con uno sguardo nuovo la Gamberale parte dai figli, non dai genitori, per mostrare come debbano essere loro a smetterla di far dipendere il proprio destino dai genitori. ‘Altrimenti avremo solo una buona scusa per non combinarci niente, con quel destino. No?’
‘Le luci nelle case degli altri’ è un romanzo corale costruito attorno alla storia di Mandorla che già nel nome ha la particolarità del suo destino. Nata con due mesi d’anticipo, minuscola come una mandorla, a sei anni la ragazzina perde in un incidente stradale in motorino la madre Maria, amministratrice condominiale. Rimane sola con una lettera in cui la mamma rivela che il padre di Mandorla vive in uno dei cinque piani del condominio di via Grotta Perfetta che lei amministrava. “Vorrei che tuo papà fosse un astronauta che cammina sulla luna, ma pensa sempre a noi, e non un uomo come tanti, che abita in via Grotta Perfetta 315 e una sera di marzo, forse per noia forse per curiosità, nell’ex lavatoio del sesto piano ha fatto l’amore con me. Vorrei vorrei vorrei” scrive Maria nella sua commovente e sgrammaticata lettera alla figlia in cui dice anche di essere felice di non saper scrivere bene perchè “più sai usare le parole più ti allontani anzichè avvicinarti a quello che vuoi realmente esprimere”.

Nel condominio prende quota così il giallo psicologico su chi sia il padre di Mandorla che per decisione unanime sarà cresciuta da tutti gli inquilini: ‘Abbiamo deciso di crescere Mandorla insieme. Come fosse la figli di tutti, per dirla come la direbbero i frati trappisti’. Nei suoi passaggi dal primo al quinto piano scoprirà i mondi di ogni famiglia con cui entra in rapporto e allargherà il suo sguardo su tante realtà. Seguendo la crescita di Mandorla da bambina ad adolescente si scopriranno luci e ombre di un condominio dove abitano le nevrosi della solitudine di Tina Polidori, la desolazione di Caterina e Samuele Grò, l’incomunicabilità amorosa tra Lidia e Lorenzo e l’ostinata famiglia tradizionale dei Barilla. Su tutto incombe il test del Dna che Mandorla, non ha il coraggio di dirlo a se stessa, non vuole proprio fare.

Martedi 12 ottobre, alle 18.00, presentazione a Roma di ‘Le luci nelle case degli altri’ di Chiara Gamberale alla libreria Feltrinelli di Via Appia, 427. Sarà presente l’autrice.

(Nelle foto Chiara Gamberale durante un momento della presentazione a Roma)

Elena Salibra, il martirio di ortigia

Elena Salibra con il martirio di ortigia (Manni, 2010, euro 10,00) ci presenta una nuova raccolta di versi che conferma il canone poetico già sperimentato nelle due precedenti, vers.es (Diabasis, 2004) e sulla via di Genoard  (Manni, 2007) tutte pubblicate nell’arco di un decennio.
Il titolo rinvia al seicentesco Martirio di Sant’Erasmo, un quadro di incerta attribuzione che la Salibra nella finzione poetica immagina essere di Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Il martirio del santo porta in sé un dolore profondo che sembra accomunare i due artisti su un piano esclusivamente letterario: il tormento e lo strappo del pittore in fuga si tramanda alla poetessa, esule dalla sua Sicilia. Il “martirio” della fuga e dell’esilio diviene però, per l’autrice, anche “consolante”, come capita di leggere in uno dei componimenti della prima sezione del libro dal titolo trittico per il martirio di ortigia in cui la Salibra riesce a vedere un “presente” in cui non si riconosce più: “quelle villette anni sessanta tutte/ abusive condonate per metà/ si preparano alla burrasca d’agosto/ un poco anticipata”.
Anche nella penultima sezione del libro dopo i giorni di tobia – ispirata alla figura materna – la Salibra ricorre ad un elemento visivo richiamando nel titolo, un quadro di Giorgio De Chirico Il sogno di Tobia  e scrive: “Mi rabbonivi mi facevi piccina/ – a sfarinare i colori sulla tela/ – non ero buona – dicevi tanto/ tempo fa (a me la davi l’idea d’un/ al di qua compiuto).
Ed è proprio la visione del “presente” a caratterizzare il martirio di ortigia separando quest’ opera – se così si può dire – dalle due precedenti – già citate – dove lo sguardo dell’autrice era più orientato verso il motivo del viaggio, del separarsi da pur ritraendo momenti di vita vissuta, viaggio inteso come metafora di una raggiunta libertà di giudizio e di espressione. Il “presente” diviene, pertanto, nel nuovo libro della Salibra il pretesto e l’idea dentro cui muovere la lingua della poesia che per l’autrice sembra nascere da un pensiero strutturale, più che dall’azione poetica. Si potrebbe dire, quindi, che in questo libro la poetessa tragga la sua ispirazione dalle grandi opere d’arte del passato all’interno delle quali inscrivere la propria esperienza individuale, il suo stare al mondo, la sua presenza. Si prenda in lettura la prima poesia della sezione dopo i giorni di tobia che ha per titolo da un amore: “ma non viene da te quel consumarsi/ d’occhi nel desiderio del mattino/ quando a impeciare/ il tuo marsupio d’anni è la colla// d’un calore. se mi perdi sai trovarmi/ in una cuccia di foglie e aria. qui/ col tetto laterale hai murato/ le rimanenze d’acqua.// non gabbia pare – forse// è mare senza orizzonte in fondo -/ simmetriche la porta la finestra// e l’ascensore che ha l’ansia di/ salire dove scende il malumore/ di tanti te specchiati da un amore// . L’amore è qui vissuto come un’esperienza che si consuma nel desiderio della luce, di un mattino nuovo. E’ un’esperienza che viene dal “marsupio d’anni impeciato dalla colla”, da corpi che si logorano “in una rimanenza d’acqua murata”. Tutta l’immagine che arriva da questa poesia è riflessa dentro uno specchio, dove la porta e la finestra “sono” – nel presente, nell’essere qui e ora – simmetriche e l’ascensore – anch’esso simmetrico – diviene la metafora del salire e dello scendere del tempo che viene “da un amore”. Si comprende, dunque, che l’autrice pur muovendosi all’interno del “presente”, volga lo sguardo indietro, verso gli Antichi Maestri probabilmente per cercare e definire la sua poetica dello sguardo. Il sogno di Tobia, infatti, come osserva Maria Cristina Cubani nell’introduzione al libro, richiama l’episodio biblico in cui Tobia guarisce il padre dalla cecità ponendogli il fegato di un pesce sugli occhi, un’azione che allude al motivo della Rivelazione. Una Rivelazione che ha consentito a De Chirico di conquistare una nuova visione del mondo e delle cose e all’autrice di avvicinarsi a un nuovo modo di vedere e di comprendere il visibile e l’invisibile.
Il legame tra il martirio di ortigia e le precedenti raccolte della Salibra consiste, invece, nel rimanere in un dettato poetico ritmato che risente degli echi dell’azione sperimentale, utilizzata però – a mio avviso – a fini puramente espressionistici e non di rottura della lingua: “ora è un lamento come/ di piccioni attaccati all’abbaino/ o una meraviglia di qualche A4 / che la laserjet blocca a metà/ perché racconti il suo blackout”/ che collocano la sua ricerca poetica in un’epoca e in un tempo ben definito.
Il plurilinguismo della Salibra sebbene sia assimilabile al clima delle neoavanguardie e dello sperimentalismo, non è da essi dipendente. L’autrice, infatti, in tutta l’opera, avverte la necessità di portare “il passato nel presente” ricorrendo spesso a scene urbane, come nella poesia Neapolis in cui il corpo entra fisicamente nel Museo di Napoli immergendosi nel passato, ma anche nella visione della città nella sua realtà, nel presente, di come appare oggi: “e s’apre ai miei tic d’autunno la new/ polis davanti al volto semiserio/ del filosofo tardoimperiale. un poco di traverso nella sala/ museale la donna con lo stilo/ fermato sulle labbra come me/ combina il mosaico/ dei suoi versi. ma è un alternarsi/ di bitorzoli e rientranze/ anche/ questa città che sulla scena ride/ mentre sale/ la funicolare/ tra la roccia e il mare”…
La Salibra, dunque, conferma con il suo nuovo libro che l’alimentazione immaginativa viene dalle grandi opere di pittura – opere di fatto metafisiche – ma qui utilizzate evidentemente come modello di ispirazione-narrativa. Non è un caso che il tondo (“la donna con lo stilo”) di cui l’autrice parla nell’ultima poesia citata, che fa da sfondo al ritratto, è notoriamente attribuito solo letterariamente a Saffo, nella finzione poetica quel volto di donna, in cui l’autrice torna a specchiarsi, è funzionale, se così si può dire, “combina il mosaico/ dei suoi versi”. Il tondo, è bene ricordarlo, proviene da Ercolano, la cittadina distrutta dall’eruzione del Vesuvio del ’79 dopo Cristo, ed è custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Luigia Sorrentino

Yves Bonnefoy

Mi svegliai, era la casa natale,
la schiuma s’abbatteva sulla roccia,
non un uccello, solo il vento ad aprire e chiudere l’onda,
l’odore dell’orizzonte da ogni parte,
cenere, come se le colline celassero un fuoco
che altrove divorava un universo,
passai nella veranda, la tavola era apparecchiata,
l’acqua urtava i piedi del tavolo, la credenza.
Bisognava comunque che entrasse, la senza-volto
che sapevo sbattesse alla porta
del corridoio, dal lato della scala scura, ma invano,
tanto alta era già l’acqua nella sala.
Giravo la maniglia, che resisteva,
quasi sentivo i rumori dell’altra riva,
quelle risa dei bimbi nell’erba alta.
Quei giochi degli altri, per sempre gli altri, nella loro gioia.

da Le assi curve (Mondadori, 2007) La casa natale, Traduzione Italiana di Fabio Scotto

Je m’évellai, c’etait la maison natale,
l’écume s’abattait sur le rocher,
pas un oiseau, le vent seul à ouvrir et fermer la vague,
l’odeur de l’horizon de toutes parts,
cendre, comme si les collines cachaient un feu
qui ailleurs consumait un univers.
Je passai dans la véranda, la table, le buffet.
Il fallait qu’elle entrat pourtant, la sans-visage
que je savais qui secouait la porte
du couloir, du coté de l’escalier sombre, mais en vain,
si haute était dejà l’eau dans la salle.
Je tournais la poignéè, qui résistait,
ces rires des enfants dans l’herbe haute,
ces jeux des autres, à jamais les autres, dans leur joie.

da Les planches courbes  (Mercure de France, 2001) La maison natale 

Yves Bonnefoy, nato a Tours, nel 1923, professore emerito al Collège de France di Parigi, è poeta, prosatore e saggista. Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi. Più volte candidato al Nobel per la letteratura, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali. In Italia ha pubblicato diverse raccolte: Movimento e immobilità di Douve (1969), Ieri deserto regnante (1978) Pietra scritta (1985), Nell’insidia della soglia (1990), Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve (2001). Il volume di Tutte le poesie di Bonnefoy è in corso di pubblicazione, a cura di Fabio Scotto, nei Meridiani Mondadori.

Addio a Luciano Erba

È morto a Milano Luciano Erba, uno dei più grandi poeti del Novecento e illustre francesista. Aveva 88 anni. 
Erba era nato a Milano il 18 settembre 1922. È stato docente di letteratura francese all’Università Cattolica di Milano. Nel capoluogo lombardo Erba ha sempre vissuto, pur allontanandosi per alcuni lunghi periodi (soggiornò in Svizzera durante la seconda guerra mondiale, poi a Parigi e anche negli Stati Uniti). Si laureò alla Cattolica nel 1947 in lingua e letteratura francese, dedicandosi all’insegnamento, prima nelle scuole superiori e poi all’università. Tradusse vari autori francesi tra i quali Sponde, Cendrars, Michaux, Ponge.

Strinse amicizia con il gruppo dei cattolici del dissenso, tra cui Camillo Maria De Piaz e David Maria Turoldo. Esordì con Linea K nel 1951. Seguirono poi le raccolte Il bel paese (1955), Il prete di Ratana (1959), Il male minore (1960), Il prato più verde (1977), Il nastro di Moebius (1980), Il cerchio aperto (1984), Il tranviere metafisico (1987), L’ippopotamo (1989), Variar del verde (1993), L’ipotesi circense (1995), Nella terra di mezzo (2000). 

Quartieri solari

Milano ha tramonti rossi oro.
Un punto di vista come un altro
erano gli orti di periferia
dopo i casoni della «Umanitaria».
Tra siepi di sambuco e alcuni uscioli
fatti di latta e di imposte sconnesse,
l’odore di una fabbrica di caffè
si univa al lontano sentore delle fonderie.
Per quella ruggine che regnava invisibile
Per quel sole che scendeva più vasto
in Piemonte in Francia chissà dove
mi pareva di essere in Europa;
mia madre sapeva benissimo
che non le sarei stato a lungo vicino
eppure sorrideva
su uno sfondo di dalie e di viole ciocche.

da L’ippopotamo, (Einaudi, 1989)

Linea Lombarda

Adoro i pregiudizi, i luoghi comuni
mi piace pensare che in Olanda
ci siano sempre ragazze con gli zoccoli
che a Napoli si suoni il mandolino
che tu mi aspetti un po’ in ansia
quando cambio tra Lambrate e Garibaldi.

da Nella terra di mezzo, (2000)

Milano da sera a mattina

Le nuvole hanno smesso di piovere
sta per ricominciare la sera
i cortili avranno voci più chiare
la luna compie un giro in più.

La felicità vive a notte nel sogno
della città labirinto
un monte in periferia
un vagone abbandonato sulle rotaie.

Superstite del primo Novecento
di case d’epoca lungo i bastioni
resto un borghese di tarda mattina:

per svegliarmi ripasso il latino
campestr silvester paluster
esco, cravatta, scarp luster

da Poesie 1951-2001 (Oscar Mondadori, 2002)

«Il male minore, libro riassuntivo che Luciano Erba pubblica nel 1960, è in qualche modo un punto decisivo di confine. Sia per l’esperienza poetica dell’autore, sia per quella della nostra poesia di questi ultimi decenni. Il primo Erba si era già ben manifestato negli anni Cinquanta: nel ’51 con una consistente plaquette (seguita poi da altre) come Linea K, successivamente con la sua presenza fra i sei poeti della Linea Lombarda di Luciano Anceschi nel ’52, e con la partecipazione, in veste di co-autore (assieme a Piero Chiara) e autore nell’antologia Quarta generazione, del ’54, dedicata ai giovani poeti di allora.
La fisionomia, la novità di Erba, trovano dunque un pieno coronamento proprio alla vigilia della prima antologia dei Novissimi (1961) rispetto ai quali la sua posizione appare totalmente estranea. E in questo periodo di sperimentazioni inizia per Erba, forse non a caso, un lunghissimo silenzio interrotto solo alla fine del decennio successivo, con il volumetto Il prato più verde (1977), ripreso poi in un nuovo libro complessivo, Il nastro di Moebius (1980, comprendente anche Il male minore). E’ forse opportuno aggiungere a queste annotazioni che Edoardo Sanguineti, nella sua Antologia della poesia italiana del Novecento (1969), esclude tutti gli autori della quarta generazione non appartenenti all’avanguardia con due sole eccezioni: Pier Paolo Pasolini e, appunto, Luciano Erba.
Anche attraverso questi segnali si può intuire il carattere di coerenza autonoma della poesia di Luciano Erba. Agli esordi è semmai ravvisabile qualche traccia di illustri esempi come quelli di Eugenio Montale e Vittorio Sereni, ma soprattutto risalta netta, naturale, la sua distanza dall’ermetismo degli anni Quaranta, come dai tentativi di opposizione il più delle volte ingenua del neorealismo. Erba appare subito orientato dal dono di una felice leggerezza naturale del tocco, dalla finezza del gusto, con cui esprime il proprio legame con l’esperienza, con la concretezza dei dati, degli oggetti e delle figure, che egli riesce all’istante a sottrarre all’opacità in virtù di una grazia del dire e di un infallibile equilibrio linguistico, che nella loro piena plausibilità, “normalità”, non hanno alcun bisogno di reticenze o astuzie letterarie, da cui anzi rifuggono. La “piccola magia”, la musica sottile e apparentemente pacata della poesia di Erba, come Il male minore evidenzia al livello più alto, consiste dunque nel rendere leggeri, leggiadri, anche, nella loro presenza, nelle loro movenze, dettagli di un reale altrimenti inerte, o greve, o solo indifferente, fino alle più trascoloranti apparenze spesso affidate, ad esempio, al gioco scenico degli abiti (“Lei portava i calzoni del fratello/ una borsa alla cinghia/ un farsetto come un giustacuore”; “in fondo/ avrebbe voluto la Grande Jeanne/ diventare una signora perbene/ aveva già un cappello/ blu, largo, e con tre giri di tulle” ecc.)
Al disegno della sua poesia contribuisce una formazione culturale che incrocia una tradizione lombarda profondamente sentita con esperienze soprattutto francesi, che comprendono Apollinaire e non escludono Prévert.
Erba finge di porsi ai lati, con marginale eleganza, con discreta ironia fantasiste, rispetto ai percorsi dominanti o ai grandi temi dichiarati, per introdurli più di striscio o in sottinteso, o in improvvisi (ma strutturali) scarti interni, che increspano l’ambigua normalità della vicenda.
L’assenza di Erba in una fase della poesia del nostro tempo è probabilmente il sintomo, di un suo disagio, di una sua insofferenza nei confronti di una sperimentazione, dichiarata o meno (e dunque non solo quella della neoavanguardia), a cui non poteva appartenere, e il suo riapparire non vuole certo introdurre un netto mutamento di stile, tant’è vero che nel Nastro di Moebius riprende testi più antichi, compreso, come si diceva, Il male minore forse nell’idea di un unico libro, composto per successivi accumuli, e perciò sempre da aggiornare, che riassuma un percorso poetico. […]»
di Maurizio Cucchi

Brano tratto dall’antologia Poeti Italiani del Secondo Novecento – Volume Primo (Mondadori, 1996)

Tony Harrison

Leggendo i rotoli: un versi-culo
I.
La Pizia sul suo seggio di pietra
inalando marciume imparò a declamare
prima dell’età di Omero i primi
esametri che un essere umano abbia pronunciato.
Inondato di vapore, l’andatura pigra di drago morto,
il rettile sul suo orlo roccioso,
il putrido serpente, fu il vero
incantatore della vera poesia.

Con pensieri così riconciliavo
gli anni passati a scrivere con l’odore
del gas che perde e fantasticavo
di serpenti quando il fuoco del gas sibilava.
Mi aiutava a concentrarmi, il sibilo
come quello della Pitonessa pestata
che Apollo ridusse a un unico livido,
una pelle di serpente il premio del campione,
pestata così che Apollo potesse
essere l’unico nome tutelare di Delfi.
Bastonò fino alla tana del serpente,
poi barattò la sua clava rivestita di pelle con la lira,
ma ancora aleggiano pezzi fetidi di budella di serpente
quando il dio è sull’onda di un assolo magistrale.
La Musa che faceva la sua manicure
dimenticò di pulire le unghie dal sangue.
Così quando Apollo pizzica le corde
ne esce pura musica con olezzi di serpente.

Per oltre trent’anni passati a scrivere
il miasma che saliva dalla carogna del mostro,
gocciante attraverso il parquet e il tappeto di lana,
è stata l’ispirazione che inalavo.
Ho tollerato quella vaga zaffata
ma ora hanno chiuso i miei rubinetti del gas…
fetidi intestini di rettile, un gas malefico fugge
dai miei tubi di piombo bucati e sfigati.
Non più vecchio gas, grazie a Dio! – CO
quel che il suicida più spesso ha scelto
(e una volta quando provai a scegliere quale,
il gas venne al primo posto insieme con Tyne Bridge).
E’ da lungo tempo che sento sibilare quello del Mare
             del Nord
come quello della Pitonessa assopita di Delfi
i cui incrostati intestini e ossa
hanno appena scaricato nei miei bidoni della spazzatura,
con tutti i miei fornelli benché io recalcitrassi –

E’ fortunato che non ne sia esploso nessuno.

Agitazione sopra un simile odore
posso fin da molto piccolo rievocare.
C’è roba stecchita sotto il pavimento
diceva nonno Chiama Freddy Flea .
Fred, per cinquant’anni, aveva girato
con il suo circo di pulci. Ora in pensione
veniva chiamato per aiutare a scovare l’esatto punto
dove erano morti i ratti e guadagnarsi una pinta.
Il canile di alati segugi di Fred
erano mosconi in un contenitore di sapone.
Fred li lasciava andare, e tutto quello che faceva
per scoprire dove i ratti erano morti.
Loro ronzavano e si fermavano. Appena Fred
             capiva
il punto dove tutti i suoi seguaci correvano
sollevava un asse di pavimento per svelare
un gatto rancido… voilà voilà.
I segugi di Fred avevano il loro babà.
Poi Fred li prendeva in una piccola rete
e spingeva le loro schiene in uno splendido blu faenza
nel contenitore del sapone.

da: Vuoti di Tony Harrison (Einaudi, 2008)
Traduzione italiana di Giovanni Greco 

Tony Harrison, è nato a Leeds nel 1937. Ha vissuto in Inghilterra, Africa, Europa orientale e Stati Uniti. Il suo inconfondibile stile graffiante si affermò con The Loiners (1970). Il poemetto V. trasmesso da Channel Four (1987) suscitò polemiche per la durezza del linguaggio. Harrison ha realizzato diversi “poemi-film”, fra cui Il banchetto dei bestemmiatori, su Salman Rushdie, e Margherite nere per la sposa (Premio Italia 1994 per il documentario). Le sue opere teatrali, scritte in gran parte per il National Theatre e raccolte in tre volumi, sono andate in scena in Inghilterra, a Delfi e in altri teatri antichi e moderni. Vive a New-castel upon Tyne.