Francesco Scarabicchi, “La figlia che non piange”

Francesco Scarabicchi

DAL RISVOLTO DI COPERTINA

Scarabicchi è morto nell’aprile del 2021 e questo libro esce purtroppo postumo. È uno dei suoi piú belli, senz’altro il piú commovente. Queste sue ultime poesie vanno alla ricerca dei sogni, delle cose, delle idee avute e scomparse nel corso degli anni («Si decida il contabile del tempo | a restituirci gli anni non vissuti»). Con uno sguardo al mondo che andrà avanti, alle generazioni che, come sempre, si succedono alle precedenti. Il lirismo sommesso ed essenziale tipico del poeta marchigiano è qui al servizio di un libro testamentario in cui il poeta fa pacatamente i conti con la fine della vita, avvertita ormai come imminente. Senza mai indulgere al pathos, attenendosi a quella sobrietà linguistica, a quel «monachesimo lessicale», come scrisse Enrico Testa, che chi ha letto Il prato bianco e gli altri suoi non numerosi libri ha imparato a interpretare come indicazione etica non meno che come scelta stilistica.

Con una Notizia bio-bibliografica di Massimo Raffaeli.

La Moja

a Franco Cordelli
e a Massimo Raffaeli

I
Così la luce delle soglie è notte,
così è giorno, se la tocca l’aria,
se la divide l’ombra delle porte

o il silenzio pesante delle pietre
mentre la via deserta s’allontana
dall’erba e dal confine della selva

a un’ora di settembre, luci basse,
o dopo quella pace della neve,
alberi radi, una panchina, il cielo

dove di me l’infanzia sa a memoria
i nomi che non dice e che conserva
dai vetri d’un negozio, da una tenda.

II
Questo luogo del mondo è argine e onda,
palude, via ferrata, sostantivo,
destino d’una riva, ansa, sponda,

stagione della fertile pianura,
tempo del tempo che scompare lento,
legna che si fa brace e dopo spegne,

presente che dell’umile contrada
seguita la bellezza che non grida,
la verità del sole al primo gelo.

III
Rade auto al confine della notte,
insegne, chiuse imposte,
la fornace che arde di parole.

Nel silenzio, il paese cede al sonno. Continua a leggere

Gilda Policastro, “L’ultima poesia”

Gilda Policastro

Cosa è la poesia oggi? A chi si rivolge, qual è lo spazio che occupa nel sistema della comunicazione virtuale e dell’interconnessione?

Sono le domande alle quali risponde Gilda Policastro nel volume L’ultima poesia – Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi – edito da Mimesis nel 2021.

È il 2003 quando Edoardo Sanguineti, nel quarantennale della Neoavanguardia, pronuncia la battuta: “Dopo di noi, il diluvio”. Questo libro vuole rimettere in circolo (e in discussione) quella provocazione-profezia, per interrogarsi sull’eredità della Neoavanguardia tra i poeti nati a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, in relazione a modelli, forme, strumenti del “fare” poesia. E come si fa poesia nel nuovo millennio? Con le emozioni, i paesaggi, la rima fiore-amore, anche se il poeta non va più in carrozza ma in car2go? Nel 1961 Nanni Balestrini, antesignano del cut-up, inventa un algoritmo per ricombinare stringhe di testo al calcolatore. Un’eredità raccolta, oggi, soprattutto da poeti che ripensano alla poesia (anzi, alla scrittura o alle scritture) come un campo aperto di verifica e di possibilità. Non come ambito separato, quindi, ma fertilmente contaminato da linguaggi e contesti del presente, andando dalla videoarte a Instagram. Ne deriva un’adesione (o una resistenza) delle parole alla realtà, tanto più autentica quanto più (appare) sofisticata e schermata, anche per effetto di un confronto incessante con altri modelli, fuori dai nostri confini: l’arbasiniana “gita a Chiasso” si fa ormai su Google Maps.

Continua a leggere

La ristampa di “Cuore” di Beppe Salvia

Beppe Salvia

Interno Poesia ristampa l’attesissimo libro di poesie di Beppe Salvia Cuore diventato introvabile, che uscì postumo nel 1987, a cura di Arnaldo Colasanti a circa tre anni dalla tragica scomparsa dell’autore.

Dall’introduzione
di Sabrina Stroppa

 

 

 

In quel “clima vibrante di philia” è la Roma degli anni Ottanta, “luogo d’adozioni” in cui convergono giovani poeti provenienti dal centro e sud Italia, nascono due riviste destinate a lasciare un segno profondo nel decennio: “Prato pagano” fondata da Gabriella Sica e “Braci” fondata da Claudio Damiani insieme a Beppe Salvia, Arnaldo Colasanti, Gino Scartaghiande e Giuseppe Salvatori. Entrambe caratterizzate da una “pluralità di voci che pure si muovono su uno sfondo comune”, saranno “il luogo effettuale di un numero nutrito di giovani poeti, il centro di sperimentazione di una poesia intonata alla “rigenerazione” di se stessi e della tradizione.

Beppe Salvia era nato a Potenza nel 1954, e a Roma era andato a vivere con la famiglia all’inizio degli anni Settanta. Rapidamente impostosi nel panorama culturale, tra il 1976 e il 1979 aveva pubblicato poesie e prose su riviste come “Nuovi Argomenti” (sostenuto da Dario Bellezza che ne apprezzava la poesia) e “Lettera”. Se  su “Prato pagano” è presente con regolarità fin dal secondo numero (ottobre 1980), con versi naturalmente, ma anche prose, come tombeau di Tommaso Landolfi, su “Braci” scrive fin dall’inizio. Nel primo numero (novembre 1980), “fatto con un ciclostile, a mano”, nello scantinato della casa di Colasanti, firma quella sorta di apertura programmatica che è il “lume accanto allo scrittoio”. Ne ricordo le prime righe, in cui emerge la posizione di ‘nuova chiusa‘ e giovane letteratura che vuole rimettere a fuoco il portato emotivo e vitale della poesia, contro il fulcro formale (e si veda, anche, l’attitudine a usare i ribattimenti fonici come scheletro del discorso, qui dolore… valore… colore).

[…]

 

All’inizio del 1984 escono su “Braci” sedici poesie sotto il titolo di “Cuore”: diventerà il titolo generale di un libro che Salvia prepara nei primi mesi del 1985, e che raccoglie una serie di poesie pubblicate in rivista tra il 1979 e il 1984.

La sezione eponima comprende una delle sue liriche più belle, “A scrivere ho imparato dagli amici”; e saranno proprio gli amici dopo la morte di Beppe, avvenuta il 6 aprile dello stesso anno, a ritrovare i dattiloscritti preparatori tra le sue carte. Il libro apparve solo alla fine del 1987, postumo, per l’editore rotondo, a cura di Arnaldo Colasanti, come primo numero della collana di poesia “Novelettere” da lui diretta. Nella premessa, Colasanti indicavano i versi di Salvia “lo spalancarsi di una potenza e di una unicità lirica” sostenute da “una lingua di magistero, di studio delle cose e degli uomini”. Gino Scartaghiande, che contribuì all’allestimento del volume, ragionando su quella “grande poesia” degli anni Ottanta e Novanta che ebbe le sue radici nei Settanta parla di cuore come di uno dei ‘veri libri’ dell’epoca: “un libro straordinario, miracoloso, impensabile e dieci anni prima”.

Il volumetto ebbe, subito, almeno due lettori di eccezione. Pietro Tripodo, in una presentazione del luglio 1988, indicava in “Cuore” la capacità di “disporre diversamente da prima l’attuale, giovane universo della res publica literatum: leggendo minutamente i versi, sottolineava l’affollarsi di una “iperattività retorica” che è “un tempo risultato e sostanza di poesia”, una “rabbia della forma” espressa da varie insistite “Tessiture formali”, sole in grado di sopportare “l’urto nervoso […] di un’intollerabile urgenza”.  Andrea Zanzotto, riconoscendo nell’autore una voce importante tra quelle dei giovani poeti che stavano facendo un “salto qualitativo […] verso nuove forme”, ravvisava nella poesia di Salvia una “sconcertante luce” capace di creare un “inquietante sfondo di allontanamento”, e insisteva sul quid arduo e sfuggente che leggeva nelle sue prove più composte.

Continua a leggere

Cettina Caliò, “Di tu in noi”

Cettina Caliò

 

da La Forma detenuta

Ti tengo
nell’entroterra dell’anima
in un respiro di due sillabe

nel silenzio che fanno gli occhi
quando spalancati sentono
quel perdersi bello
nel nulla del passo

***

Piano sequenza

Quel mio ritornare a te
da tutte le strade
per sottrarci da tanta morte

e ricucire i luoghi
feriti
di una vita che qui
è stata vita
per un poco

***

Dove grido

Dove il tuo odore semplice dura
dove ti trattenevo

dove nessuno adesso
attendo e non accade

duro il desiderio
del respiro
nella sosta del viso

dove il colpo di frusta del sangue
brucia
rivedo antica e senza più mistero
la ruga a dividere la tua fronte
ostinata nella sua durata abissale

dove il tuo pensiero veleggia
gonfio e immemore

in questo viluppo di scogli
come l’onda mi rompo
e schiumo

***

Cade anche l’ultimo vento
ogni cosa è sola
nel risveglio che trema
come il cespuglio arruffato
dalla fuga di un uccello

non so più nominarti
se non nel pugno stretto

e indolenzito
ricomincia il giorno
a consumare lento
le suole
e noi
con aria da passanti
moriamo a strattoni nel rumore
secco del desiderio in ceppi

Nella voce di una campana lenta
passa la vita
e chiude ogni frase
in un tormento di ultime volte
sapute sempre
dopo

qualcosa cerchiamo
su cui posare lo sguardo
senza tremare

fra un rintocco e l’altro

un sentiero piccolo di arbusti
promette giorni di fiori a venire

e noi
un dettaglio
in questo panorama che basta
a se stesso

ma ancora
sorveglio le tue foglie
e mi attardo a guardare
il modo che ha il sole
di far colare la luce
sui muri

***

Sei salita
che mi vede a bocca aperta
in un giorno di finestre chiuse

mi dico parole
nell’idea di quella virgola
che dava fiato al silenzio

quando
avevamo piedi e mani
a fare il paio

***

Cadono cose e restano
cadute
in questa vita a orario fisso

tuttavia io

nell’assenza che mi porta
dove tu
arreso hai sorriso
vado

e imparo
la figura paziente dello zero


Continua a leggere

Francesco Tomada, “Affrontare la gioia da soli”

Francesco Tomada

Pubblichiamo cinque poesie di Francesco Tomada tratte da Affrontare la gioia da soli, Collana Gialla Oro, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021

IL MARE IN TRASALPINA

I. STAZIONE TRANSALPINA, 22.30 PM

Ha bevuto almeno quattro calici di bianco
poi si è messo a camminare traballando
verso un prato buio e un palazzone popolare
forse ad aspettarlo c’è una solitudine più grande
rispetto a quella di adesso

sui binari solamente un treno merci fermo e
due carrozze graffitate senza passeggeri con le luci spente

qui vicino la panchina dove
è morto Adelmo in overdose di metadone
conosciamo bene sua madre
o meglio quello che ne resta

ma tu
tu stringimi la mano
se vogliamo credere che ci sia qualcuno a casa
di quell’ubriaco che lo svesta e lo perdoni
che ad Adelmo sia spettato un paradiso di colore
verdeazzurro come l’acqua dell’Isonzo
stringimi la mano fammi forza
che per tutte queste lampade appese alle colonne
con la plastica a forma di conchiglia
tocca a noi di immaginarci un mare

II. CAVE DEL PREDIL

La miniera è chiusa da vent’anni ma qui tutto è ancora miniera.
Le case sono state costruite per i lavoranti, il museo si è preso lo
stabilimento dove si purificava il piombo, il pendio della montagna
è un accumulo di pietre scavate da là sotto.
Quando nevica d’inverno i fiocchi sono grossi e lenti, come quando
capovolgi quelle sfere trasparenti che contengono un paesaggio.

Rovescia ancora quella sfera.
Che la neve si raccolga nella concavità del cielo.
Che la terra discenda nel vuoto delle gallerie da dove è venuta.
Che tutti gli uomini risalgano salvi. torna più indietro, prima di
silicosi e pleuriti. Fino alla festa di Santa Barbara, quando vestivano
i loro completi con ventinove bottoni dorati e lo sguardo fiero di
chi tutti i giorni scende nel mondo e lo spacca davvero.

Continua a leggere