Stefano Bottero, da “Poesie di ieri”

Stefano Bottero, credits photo Dino Ignani

Mi trascina verso il peso delle cose
questa scimmia che ho sulla schiena.
È un lembo di niente
il suo parlare indistinto,
una spina,
il mormorio del traffico.

“o re, il peso si fa spirito,
siamo una costellazione.”

Così nel tenue turbamento della nebbia di Monza
– incanto, incauto, vivo per scommessa
la vita è una sala d’aspetto
e ho perso il momento.

***

Contrappeso della mia solitudine
i miei incubi d’autostrada.
il desiderio di dimenticarti,
domani
di non dimenticarti.

Sei l’intimità della mia dissociazione,

così scivoli dietro di me come la notte
che mi adagia un nastro sulle palpebre
e lo tira da dietro.

***

A DARIO BELLEZZA, POETA

Mi hai letto una sera
come favola della buonanotte
tutti i tuoi dubbi di strano distacco,
di autocommiserazione.

Sei per me il desiderio di un passante,
l‘attesa snervante in una copisteria.
Sei le ciglia perfette di un corpo non tuo
vestito di sbagli, di amanti drogati.

Stinge di vita questa tua insistenza,
sorge ostinata questa tua finzione
egocentrica figlia
della fermata successiva.

vorrei solo cullassi anche la mia
                                 disperazione. Continua a leggere

Francesco Negri, “Ultimo stadio”

Milano, Stazione Centrale

NOTA DI LETTURA DI ALESSANDRO BELLASIO

Bildungsroman sfigurato, avventura tragico-picaresca in chiave ultrapop, pastiche espressionista con un occhio al sampling (dichiarato) e uno al cut-up (non dichiarato), Ultimo stadio, romanzo d’esordio di Francesco Negri, è un viaggio al termine della notte sparato in un acceleratore di particelle, prima ridotto in pezzi e poi riassemblato. Non solo in virtù del procedimento di sampling preso in prestito dall’hip-hop, ma per la distorsione e la frantumazione spaziotemporale con cui viene imbastita la trama, con continui salti tra gli anni immediatamente precedenti e quelli immediatamente successivi al “crovid-19”, in una Milano sterminante e sterminata, tutta periferie e pattume, disperazione e sorveglianza assoluta. L’attualità la fa da padrona, ma l’epoca è assunta con lucidità implacabile, a tratti con vera furia, in un moto di odio e di rivolta che, tuttavia, più che al sovvertimento punta al rilancio della posta in gioco, spingendo all’estremo le contraddizioni del nostro tempo e portandole fino al parossismo, all’intollerabile.

La vicenda ci immette nel cuore delle vite di tre giovanissimi amici, cresciuti a fame vera e fame chimica tra le panchine e i casermoni della Barona, periferia sud della metropoli, che di eccesso in eccesso passano dal tifo ultrà alla fama artistica internazionale, transitando per il carcere, i boschetti di Rogoredo e i salotti mondani della società bene. Negri compie una scelta coerente con le proprie premesse (il mondo è dato per frammenti impazziti, vediamo cosa succede frammentandoli ancora di più e scaraventandoli tutt’intorno a velocità supersonica), e aziona una macchina narrativa al cui interno storie, riflessioni, personaggi, sentimenti ed esperienze vengono sempre bruciati sul nascere, come se non ci fosse tempo per dilungarsi troppo perché ogni cosa è già distrutta nel momento stesso in cui è intravista, toccata, e molto più spesso comprata. Consumata prima di consumarla, cosicché tutto ciò che ancora si può fare non è che reiterarne la sparizione, con il fantasma del (auto)sacrificio, infatti, sempre sullo sfondo. Sparizione che però non è mai assoluta (ed è questa la sua, la nostra dannazione) perché tutto è infinitamente permutabile, perfettamente reversibile, in un mondo basato unicamente sul loop della propria autoconsunzione, che come tale non termina mai.

emerge è così un ritratto fedele della velocità (e voracità) anfetaminica con cui si è obbligati a esistere e estinguersi nell’epoca dell’ipercapitalismo planetario, ridotti a materiali di scarto prima ancora di essere entrati nel ciclo produttivo, e condannati comunque e da sempre a una vita larvale. D’altro canto, la decisione preliminare di accostarsi mimeticamente all’oggetto del proprio furore, nel tentativo di destrutturarlo dall’interno, accentuandone al massimo le linee di faglia e esasperandone le tensioni oppositive, trova riscontro in una lingua e in una sintassi più travolte che stravolte, in un cozzare e deflagrare dei segni che lascia inviolato il codice che li governa, nel tentativo (impossibile?) di batterlo sul suo stesso terreno, svelandone tutta l’ipocrisia e il nichilismo di fondo. Non poco, perché nel panorama (non solamente nostrano) di sempre più soffocante omologazione letteraria, culturale, esistenziale, il gesto di sfida e la vitalità tachicardica del romanzo di Negri rappresentano una vera boccata di ossigeno per chi non si accontenta della paccottiglia concertata a tavolino che, sempre più disinvoltamente e impunemente, viene spacciata per letteratura. Continua a leggere

Francesco Maria Terzago, da “Caratteri”

Francesco Maria Terzago

DEDICA

Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén
diceva e mi appoggiava una mano sulla testa
e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle
che sono sopra di noi, il cielo – l’universo che
non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono
dentro pensa agli anni che ci separano e pensa
a quante persone, in questo preciso momento,
ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén – si
staranno parlando delle stesse cose, e ci sarà una
brutta donna come me che piange dicendo al nipote
cose come queste. Lassù vorticando su delle
pietre azzurre come la terra – che è una pietra azzurra
anche se il suolo è velenoso e non devi mettertelo
in bocca quando fai i tuoi giochi, mi raccomando
lipscén, tesoro, e pensa che siamo degli atomi
tenuti assieme senza un apparente motivo, perché
siamo fatti così? Fatto sta che lo siamo. E che
questi atomi ci saranno sempre, – questi atomi
ci saranno, anche quando io non ci sarò più, –
in questo modo – e non mi potrai parlare né
ascoltare. E non ricorderai più il timbro della mia voce
che ora ti è così familiare, – né questo volto rugoso
con cui ti addormenti. Perché mi sarò fatta cremare.
E mi si potrà tenere in una scatola per le scarpe
se lo vorrai. Ma quegli atomi lipscén, tesoro, chissà
che il tempo non passi per essi a una velocità differente,
che per loro il tempo sia ben poca cosa, almeno
a confronto del nostro. E io, credo, ti aspetterò
in una sala come questa o migliore. E ci sarà un momento
in cui questi atomi si riuniranno e io sarò di nuovo qui
e anche tu lo sarai, che nel frattempo avrai fatto la tua vita,
anche tu morto, passato per la vecchiaia –. E sarai
di nuovo. E ci troveremo assieme da qualche parte,
appunto. Tu, io, tua mamma, tutti quelli che vorranno.
Tutti assieme. E capendo la cosa incredibile che ci è successa
potremo stare assieme e non incontrare più la tristezza
di questa vita o il disfacimento. Sono molto stanca lipscén,
tesoro. È tardi, sono molto stanca. O forse saremo
gli stessi. Un’altra volta come questa, ma non ci ricorderemo
nulla di quello che siamo adesso. E non avremo da passare
assieme che il tempo che già abbiamo avuto, e faremo
gli stessi discorsi rammaricandoci di avere poco tempo,
io ti parlerò per l’ennesima volta di queste cose, e questo
inverno passerà ancora. E qualcuno ti chiamerà un giorno
che sarai lontano. Ti chiamerà per dirti che sono morta.
Ma sarai abbastanza cresciuto per affrontarlo,
quella voce ti dirà che ho deciso di farmi cremare.
Prenderai questa notizia come tutte le cose inaspettate e,
arrivato a casa, ti siederai da qualche parte pensando
a queste parole che ora ti sto dicendo. Ho tanto sonno,
mio tesoro.

Non è qualcosa che abbia un’importanza
secondaria, considerare la torsione
degli astri che comprime la notte
ricordandoci il sottile discrimine
tra l’esistenza e la mancanza, l’ostensione
delle distanze cosmiche tra i radiofari.
Non è qualcosa che abbia un’importanza
secondaria, conoscere il nome delle piante
che mettono un balzo verde tra le discontinuità
del porfido, dell’asfalto. Se ci cerchi
l’osmanto o lo statice troverai la pratolina
e la mammola. Bisogna saper riconoscere
i segni premonitori di un rigido inverno e
tirare avanti, fare come i giardinieri planetari che,
anche se non li hai mai visti, non vengono meno
al loro dovere. Non sono degli spettri
quelli che pettinano l’erba del prato, nel parco pubblico,
quelli che la pareggiano eliminando ogni discontinuità.

*

Oggi me ne sono rimasto ad ascoltare il rumore
del mio respiro e il dolore dei miei occhi.
Il contrappeso della gru era un diadema
incastonato nella fronte del cielo, un vetro
silenzioso e immobile. Mi pareva di leggere,
nella sua presenza, un senso di rimprovero.
Si trovava a una ventina di metri proprio
sopra alla mia testa. Attendeva. Ci siamo fissati
per un bel po’, lui e io. Fino a quando non ho sentito
gravare su di me le cifre, le misure ineluttabili.
Abito una pietra imbalsamata nell’acqua.
Tutto ciò che la circonda àltera, in ogni momento,
le sembianze; si rinnova ma, ai miei occhi, rimane
sempre uguale. Ciò che so di me stesso è poco,
ancora meno io conosco voi. Sto parlando
di un rapporto, il rapporto che unisce il poco
che si assomma e che, allo stesso tempo, se ne va via.
Che, in ogni momento può esserci tolto e non tornare. Continua a leggere

Francesco Russo, da “Poesie della ricucitura”

Francesco Russo

XV

So di una catastrofe imminente
ne dicono le case, i numeri
il pane: l’angelo pende
obliquo sul filo del nascere.
Con lui s’illumina una croce
dal primo e lungo grido di madre
fino al fine ultimo dell’ultimo
silenzio di consenso.

Ai posteri mi spero nessuno
col mio segreto sogno di verità.

*

Vorrei avere il talento, comprare
il pane alla bottega della morte
dentro notti buie come la peste
e camminare per le strade
fino alle risaie innamorate
di stanchi uomini sporti sul mare.

Potremo mai scambiarci nella sorte
il segreto obliquo che ci separa
o siamo martiri opposti al raccolto
affannato di un dolore comune?

*

Il primo verso di ogni uomo è un vagito:
il poeta deve chiudere il distico.

*

La parola si sfalda in primitivo
starsene calmo al grembo.

È un silenzio negli occhi del figlio
una forza alla nuca della sposa
a fondare la preistoria del nome:
ma-mma è l’origine della casa.

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Isacco Turina, “I destini minori”

Isacco Turina

Sentirti passare nel buio
come un seme nel frutto. Prevedere
il momento in cui mancheremo, il dopo
delle piazze crollati i campanili
superbi. Ti trovo nel buio:
da una palude immensa come un occhio
emerge la pupilla che mi sfiora. Dobbiamo
amare in silenzio la terra che ama
i morti come un marmo le sue vene.

*

Mi chiedi un figlio. Ovvero: come un dono
di carta colmo d’acqua, l’animale
che non posa sui rami e non sprofonda,
lama che divide le spighe
dai gambi, e il portatore sottopelle
di radici che ignora. La creatura
che stancherà i tuoi muscoli
fino a conoscerne ciascuno
e a tramandarti viva, ma staccato
il tuo viso da te come un affresco
mentre tu diventi muro. Mi chiedi
un figlio, dici, perché questo imbuto
che sentiamo d’essere, soffocato
di sabbia bagnata e muto benché
nutrito di tutte le parole
e d’altro ancora, restituisca infine
un granello alla terra, a tutti i libri
almeno una sillaba.

Isacco Turina, due poesie da I destini minori (Il ponte del sale, 2017)

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