In memoria di te, John Ashbery

John Ashbery

E LEI SI CHIAMA “UT PICTURA POESIS”

Non puoi dirlo più così.
Preoccupato della bellezza devi
uscire allo scoperto, in una radura,
e riposare. Certo, qualsiasi cosa strana ti succeda
è OK. Chiedere di più non sarebbe
da te, tu che hai così tanti amanti,
gente che ti ammira ed è pronta
a fare cose per te, ma tu pensi
non sia giusto, che se ti conoscessero davvero…
Basta cosí con l’autoanalisi. E adesso,
su cosa mettere nella tua poesia-quadro:
i fiori sono sempre belli, specie i delphinium.
I nomi di bambini conosciuti un tempo e le loro slitte,
i razzetti vanno bene – esistono ancora?
Ci sono un sacco di altre cose con le stesse proprietà
delle sunnominate. Ora si devono
trovare alcune parole importanti e molte di basso profilo,
dal suono fiacco. Lei mi contattò
perché comprassi la sua scrivania. D’improvviso la strada fu
follia pura e clangore di strumenti giapponesi.
Prosaici testamenti vennero sparpagliati tutt’attorno. La sua testa
s’allacciò alla mia. Eravamo una biciancola. Qualcosa
andrebbe scritto su come ciò ti condizioni
quando scrivi poesia:
l’estrema austerità di una testa pressoché vuota
che si scontra con il rigoglioso fogliame Rousseau-simile del suo desiderio di comunicare
qualcosa nelle intermittenze del respiro, anche se solo nell’interesse
d’altri e per il loro desiderio di capirti e disertarti
per altri centri di comunicazione, così che la comprensione
possa avere inizio, e così facendo essere disfatta.

 

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In memoria di te, Mark Strand

Mark Strand, photo di Chris Felver/Getty

From the shadow of domes in the city of domes,
A snowflake, a blizzard of one, weightless, entered your room
And made its way to the arm of the chair where you, looking up
From your book, saw it the moment it landed. That’s all
There was to it. No more than a solemn waking
To brevity, to the lifting and falling away of attention, swiftly,
A time between times, a flowerless funeral.
No more than that
Except for the feeling that this piece of the storm,
Which turned into nothing before your eyes, would come back,
That someone years hence, sitting as you are now, might say:
It’s time. The air is ready. The sky has an opening.

Dall’ombra delle cupole nella città delle cupole,
un fiocco di neve, tormenta al singolare, impalpabile,
è entrato nella tua stanza e si è fatto strada
fino al bracciolo della poltrona dove tu, alzando lo sguardo
dal libro l’hai scorto nell’attimo in cui si posava. Tutto
qui. Null’altro che un solenne destarsi
alla brevità, al sollevarsi e al cadere dell’attenzione, rapido,
un tempo tra tempi, funerale senza fiori. Null’altro
tranne la sensazione che questo frammento di tempesta,
fattosi niente sotto i tuoi occhi, possa tornare,
che qualcuno negli anni a venire, seduta come adesso sei tu, possa dire:
“È ora. L’aria è pronta. C’è uno spiraglio nel cielo”.

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Anna Andreevna Achmatova

Anna Andreevna Achmatova

Io ho appreso a vivere con semplicità, con saggezza,
a guardare il cielo e a pregare Iddio,
e a girellare a lungo innanzi sera,
per stancare l’inutile angoscia.

Quando nel dirupo frusciano le bardane
e declina il grappolo del sorbo giallo-rosso,
io compongo versi festevoli
sulla vita caduca, caduca e bellissima.

Ritorno. Mi lambisce il palmo
il gatto piumoso che ronfa con piú tenerezza,
e un fuoco smagliante divampa
sulla torretta della segheria lacustre.

Soltanto di rado squarcia il silenzio
il grido d’una cicogna volata sul tetto.
E se tu busserai alla mia porta,
mi sembra che non udrò nemmeno.

Anna Andreevna Achmatova

1912

(Traduzione di Angelo Maria Ripellino)
da “Poesia russa del Novecento”, Guanda, Parma, 1954 Continua a leggere

Mircea Cărtărescu

Mircea Cărtărescu

Nota di Giovanni Ibello

Mircea Cărtărescu, nato a Bucarest nel 1956, è considerato uno dei più raffinati autori dell’Est Europa, nonché il precursore di una generazione di poeti vissuti negli anni ’80 sotto il regime di Ceausescu.
Nella poesia di Cărtărescu, mi stupisce la straordinaria capacità dell’autore di “desaturare” lo scibile.
Infatti, a mio sommesso avviso, una delle prerogative del vero poeta è saper individuare quello spazio obliquo e malfermo, dove il reale si fa elettrico e desueto, con l’intero cosmo che riverbera senza disciplina.
Cărtărescu, dunque, ci offre una sorta di anteprima postatomica: una visione abbacinata dell’esistenza, frutto di un dinamismo che tiene conto del moto di rivoluzione della terra, del delirio chimico della clorofilla, dei combustibili fossili, del silenzioso fervore dei microcosmi. Eppure, al di là di questo buio caos, il dettato lirico del poeta appare straordinariamente compatto, limpido (come se questo fosse l’unico scenario possibile), pregno di una commovente malinconia che si rivela poco a poco e lo fa per paradossi. L’autore, ad esempio, ci racconta l’amore carnale, ma distratto… l’abisso, ma anche il “merito” della solitudine. E allora nella poesia di Cărtărescu ci accorgiamo che il lavandino si innamora delle stelle stampate sulla tenda, o che nel ristagno di benzina la luce ricama tutti colori dell’iride. Esiste, in definitiva, un processo di sussunzione dell’accadimento, che muta la prospettiva, che muta i cardini della percezione convenuta.

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