Il mare e la scrittura

Giuseppe Conte

Note in margine a Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori, Milano, 2019, di Giuseppe Conte)

di Marco Marangoni

Mentre stendo queste note, i giorni sono questi della pandemia 2020. Ci sentiamo improvvisamente più fragili. Ed è presa di coscienza, questa, tragica anche se necessaria, dal momento che ci costringe seriamente a considerare quel fondo senza fondo che è la natura e che come tale avevamo troppo facilmente adombrato o rimosso.

E mentre così una forza imponderabile ci sovviene, quasi tornasse a farsi presente l’antico e lo straniante, sono proprio le parole dei poeti, solitamente neglette, che ci possono offrire un orientamento. Viene però da domandarsi, con Hölderlin, se questo non accada per il fatto che è sempre difronte al pericolo che sopravviene ciò che salva.

Certo è che, in un tale orizzonte di considerazioni, la poesia di Giuseppe Conte si mostra ospitale e necessaria, e tanto più in questo ultimo libro. E converrà leggerlo, data la sua stilistica consistenza, in rapporto al background che lo sostiene. Si dovrà partire almeno da un sentimento abbandonato dell’esserci, che ha nutrito i suoi versi fin dagli inizi; e da lì comprendere quello sbocco a “fonti romantiche e simboliste” (Marco Forti) per cui nel ‘76 Luciano Anceschi ebbe a parlare di “un fluire autre nella riconquista del desiderio”, nonché del “diritto di essere deboli con gioia”. Continua a leggere

La materia frangibile del ricordo

Stefano Pini

Su MANDATO A MEMORIA di Stefano Pini
Nota di lettura di Alessandro Bellasio

Sospeso tra rievocazione e divieto, tra reviviscenza e perdita, il nuovo libro di Stefano Pini ci conduce in quel luogo impraticabile e familiare, vicinissimo eppure inaccessibile, che è il ricordo. Mandato a memoria (Interlinea, 2019) imbastisce un fitto dialogo con le ombre, ombre delle persone ma anche ombre dei luoghi, delle cose, una lunga incursione nei territori del passato la cui prerogativa – come vuole la citazione di Faulkner posta dall’autore in esergo alla silloge – è quella di non essere mai davvero tale. Esso alimenta e configura il nostro presente, ma lo fa anzitutto sottraendovisi: ellissi repentine, vicoli senza uscita e strade improvvisamente sbarrate si susseguono nella raccolta di Pini, in cui il non detto svolge un ruolo forse ancor più determinante di ciò che invece perviene alla parola.

Qui il silenzio è decisivo, permea di sé uomini e vie, attraversa le esistenze e guida segretamente gli incontri. Un silenzio da non intendersi, tuttavia, come reticenza o omissione, bensì come confine invalicabile dietro il quale sta l’essenza inviolabile delle cose, e della parola stessa. Un confine che non può, non deve essere oltrepassato, perché è proprio il suo perimetro a proteggere la memoria e la fragile sostanza di cui si compone: un solo ulteriore tentativo di precisarne i contorni farebbe svanire tutto come per eccesso di luce. Il libro di Stefano Pini è un libro di penombra, di chiaroscuro, sorretto da una peculiare oculatezza del vedere e del dire, che sa riconoscere l’interdetto e circoscrivere il sottratto. Proprio da questo moto di sottrazione provengono le ingiunzioni a «non chiamare», a «non parlare», di uno dei testi iniziali: ogni gesto scomposto potrebbe compromettere la materia infinitamente perturbabile, frangibile della memoria. Proprio tale eccesso costituirebbe l’infrazione, la colpa da riscattare, qualora avvenisse. «Proviamo insieme | la memoria chiusa da perdonare | nel livido per tutto questo tempo». «Ogni corsa dovrebbe essere muta | tra i rami, non eludere, non sapere».

Attenzione e ascolto, silenzio e attesa: sono queste le dimensioni entro cui esplorare l’edificio interiore, nel raccoglimento. Dal quale guizza poi d’un tratto il particolare decisivo, la frase indelebile, il gesto irreparabile o prodigioso cui ciascuno è vincolato per sempre: sarà il lettore a ricostruire l’accadimento, la situazione d’insieme, in base alle poche pennellate suggerite dall’autore.

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Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire

Alberto Russo Previtali, foto di proprietà dell’autore

di Jean Nimis

Dopo Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto (Franco Cesati, 2018), Alberto Russo Previtali propone un secondo saggio monografico sull’opera del poeta di Pieve di Soligo. L’autore ha inoltre dedicato ben nove articoli all’opera del poeta scomparso nel 2011, prova della sua esperienza riguardo a un’opera poetica reputata difficile e però essenziale per l’arco di tempo che va dalla seconda metà del Novecento al primo decennio del Ventunesimo secolo. Infatti, Andrea Zanzotto è stato un poeta tra i più significativi di questo periodo, certamente per la sua ricerca formale molto originale, ma soprattutto per la messa in rilievo dell’esperienza di un soggetto lirico inserito nella realtà contemporanea e intento ad esperimentare un principio di consistenza del linguaggio.

Alberto Russo Previtali parte dall’osservazione secondo la quale vari elementi del discorso fenomenologico lacaniano sono presenti nei testi in prosa e in poesia di Andrea Zanzotto. Era un elemento che Michel David aveva enunciato nel suo saggio del 1966[1] e che Stefano Agosti aveva ripreso nelle prefazioni ai volumi delle opere pubblicate da Mondadori fin dal 1973. Ed è questa configurazione che Russo Previtali mette in rilievo con precisione già nel suo prologo, dove si parte dal fatto che il linguaggio, considerato da Zanzotto in quanto dimensione “totale” (p. 10), non poteva che rendere conto di un distacco per così dire “fatale” tra significato e significante. Tale distacco appare già nel titolo del saggio, con la sbarra che separa i cognomi del poeta italiano e dello psicanalista francese. Russo Previtali insiste su “un punto teorico inaggirabile”: se Lacan rappresenta per il poeta trevisano “il nome del tentativo più coerente e organico di un’alleanza teorico-pratica tra linguistica e psicoanalisi”, non si tratta di ridurre sul piano interpretativo questa poesia al suo rapporto con la teoria dello psicanalista francese, bensì di riconoscere che è “una sua componente prospettica fondamentale, imprescindibile” (p. 10). Andrea Zanzotto, che leggeva il francese e che ha frequentato in modo regolare i testi di Lacan, aveva visto nel discorso teorico dello psicoanalista una potenzialità conoscitiva atta a permettergli di intavolare un approccio – poetico – del proprio rapporto soggetto-mondo.

Occorre certo avere una piccola idea del percorso poetico di Zanzotto (sin dagli esordi, o almeno a partire da Dietro il paesaggio del 1951, fino a Conglomerati del 2009 e passando da La Beltà del 1968), ed è anche necessario avere abbastanza chiari alcuni dei concetti di Jacques Lacan per seguire l’analisi di Russo Previtali. Tuttavia, l’autore riesce a palesare in modo accessibile, citazioni all’appoggio, le modalità con cui i concetti in area psicanalitica si fanno presenti nell’operato poetico, lungo tutta la produzione di Andrea Zanzotto, sia nelle poesie che nelle prose (saggi e narrazioni).

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Una storia in versi, un storia umana

NOTA DI LETTURA SULL’OPERA DI BARTOLO CATTAFI
DI MATTEO BIANCHI

Con la poesia non avrebbe potuto fare altrimenti Bartolo Cattafi – come ammise a Giacinto Spagnoletti – essendo fatalmente vocato a scrivere in versi con o senza il placet della critica. Sin dagli esordi a motivarlo era stato un “troppo” emotivo o sensoriale che superava la sua stessa finitezza e spaziava al largo, ma non sempre in ascesa. Il suo concetto di ispirazione, spesso ridicolizzato dai suoi colleghi, era ai limiti dell’ingenuità: non si trattava della riuscita egoica di un mestierante né di un vizio perpetrato per sottrarsi al circondario, piuttosto di un demone, di una frenesia che lo conquistava, ebbro, all’improvviso. Emerge questo da Bartolo Cattafi. Tutte le poesie (Le Lettere, Firenze, 2019), a cura di Diego Bertelli, un volume tanto imponente e impegnativo quanto necessario. Il siciliano trapiantato a Milano, accolto e stimato da Raboni e da Sereni, fu tra i poeti più clamorosamente trascurati degli anni Sessanta e Settanta. Fuori dal coro e di indole irregolare, si distinse per la radicale estraneità alle tendenze dei suoi contemporanei. Inoltre non era avvezzo al solito “do ut des” che aveva fatto la fortuna dei più, almeno nel breve periodo; rifuggiva i compromessi, la mera autopromozione e non smaniava per gli agganci editoriali, ha puntualizzato Paolo Maccari in Spalle al muro (2003). E non condivideva le pose intellettualistiche: leggendolo si scoprirebbero le pagine e i lineamenti di un uomo, non di un ‘dottore’ di poesia, ribadirebbe Caproni ancora oggi.
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Paolo Ruffilli, l’esperienza del quotidiano

Paolo Ruffilli

DI FABRIZIO BREGOLI

Il nuovo libro di Paolo Ruffilli, Le cose del mondo (Mondadori), come dice lo stesso autore nella nota introduttiva all’opera, è frutto della elaborazione più che quarantennale del progetto che ha assunto appunto la forma di “Le cose del mondo”, in un percorso – immaginiamo – di successive stratificazioni, rielaborazioni e revisioni intervenute nel corso degli anni. L’obiettivo che anima il lavoro è, attraverso la poesia, comprendere il mondo mediante l’esperienza del quotidiano, delle cose che lo popolano, nel tentativo di decifrare o cercare di definire un rapporto di dialogo fra io e realtà (le cose appunto, intese sia nella accezione concreta, come vedremo, di oggetti, sia nell’accezione astratta di esperienze che si vivono nel mondo). Questa scrittura che si è sviluppata nel corso di più anni spiega senz’altro la generosità nel numero di poesie incluse nella raccolta, senza che nessuna di queste sia in realtà superflua; al tempo stesso, l’ampiezza e la varietà dell’opera non fa venire meno l’impostazione poematica, che rende la silloge molto coesa, e quindi efficace nel suo sdipanarsi passo a passo durante la lettura. Non deve quindi ingannare il titolo in apparenza semplice e lineare, titolo che in realtà consente, data la sua genericità, di istituire una serie di rimandi molteplici a diverse sfere della realtà, in virtù della natura polisemica connaturata alla dizione poetica: cose – dicevamo – come rappresentazione della realtà, dove la parola (quella poetica in particolare) interviene per “domarne” “la resistenza”, “invita ciò che chiama a farsi essenza”, perché è grazie a lei che si riesce a “rompere il silenzio” (tema questo che si esplicita sezione per sezione fino a quella – decisiva – in chiusura). Continua a leggere