Antonella Anedda: “La vita dei dettagli”

“La vita dei dettagli” (Donzelli, 2009, euro 18,00) è la nuova avventura letteraria di una delle più apprezzate poetesse italiane, Antonella Anedda. Si tratta di un’opera di saggistica di grande significato in quanto offre lo spunto per un’importante riflessione, oggi, sul senso e sul significato dell’arte. Gli occhi della poetessa vedono, “pensano la vita” e ci riportano al viaggio compiuto da James Joyce con “Ulysses” e alla frase pronunciata da Stephen Dedalus: “Pensare la vita attraverso i miei occhi”.

“Dimmi a chi appartiene questa casa in fiamme, chi lancia la sua picca sul vuoto, quale peccato viene punito” si domanda la Anedda compiendo il suo ritratto, pietoso e impietoso, mettendo insieme frammenti, dettagli, accumulati negli occhi, immagini che l’hanno atterrita e affascinata.

“Che cosa si ferma nei nostri occhi?” Si chiede la poetessa. Cosa ci colpisce e ci commuove? Lo sguardo della Anedda “collezionista di perdite” procede minuzioso nella ricostruzione, ritaglia e fotografa dettagli delle opere di alcuni dei più grandi artisti visivi del nostro tempo, Nicolas De Staël (1914-1955) Marc Rothko (1903-1970) Bill Viola (1951) Jenny Holzer (1950) e si interroga: “Qual è il significato dell’arte?”
“Nelle scaglie nere che annunciano tempesta” lo sguardo non riunisce, ma scompone particolari che diventano un altro quadro. Ecco che l’osservazione e la sintesi della poetessa incrocia il solco di altri poeti che come la Anedda furono dei grandi cacciatori di immagini. Penso a Guillaume Apollinaire che divenne amico intimo di Pablo Picasso. Il punto di vista di Apollinaire nei confronti dell’arte rafforzò il grande artista che divenne Picasso e contribuì al suo precoce riconoscimento pubblico. Così “La vita dei dettagli” rafforza e consolida il senso e il significato di tutta l’arte, evidenziando il ruolo del poeta nella contemporaneità e attribuendo assoluto valore alla sua testimonianza.

La Anedda entra nel “frammento di un discorso” che comincia, per ogni poeta, proprio dall’osservazione, dallo stare davanti al “quadro”, all’immagine, affascinato o respinto da un tratto, dal dettaglio che compare o scompare del tutto, evidenziato dalla luce o inghiottito dal buio. Ciò che resta impresso nell’occhio del poeta è quell’infinitamente piccolo che ha attirato la sua attenzione, ha smosso la riflessione, l’argomentazione, il discorso che ha reso possibile – che rende possibile – la Sua Opera. L’attenzione del poeta al particolare diviene quindi la sintesi di una conoscenza di cui il poeta entra in possesso e dalla quale non potrà mai più separarsi. Quel dettaglio – una finestra spalancata sul visibile – è pensiero, movimento, azione, è l’Opera, nel suo farsi e disfarsi.
di Luigia Sorrentino

Bruno Galluccio: Verticali

Un esordio riuscito quello di Bruno Galluccio che pubblica la sua opera prima di poesia Verticali (Einaudi, 2009, pp. 110, euro 12,00).
Già il titolo evoca la perpendicolarità della parola poetica che si adagia su di una superficie bianca e traccia sul piano della pagina la parola che tuttavia non rinuncia allo spazio largo, orizzontale, delle emozioni. Bruno Galluccio, napoletano, laureato in fisica, con trascorsi in un’azienda di telecomunicazioni, partendo da un piano di emersione – che richiama il titolo della prima sezione del libro – si solleva da una ‘ferita’ tenuta nascosta dietro un vetro, insieme alla quale riaffiora, gradatamente, ‘il lato rovescio del pensiero’ radicato, da chissà quanto tempo, nel suo ‘lembo di indicibile’.
Una parola netta, pronunciata con ingegno, che si concentra con estrema precisione sul ritratto del grande matematico russo-tedesco, George Cantor (1845-1918) fondatore della teoria degli insiemi. ‘L’irrazionale ha fatto breccia nella mia vita fino all’osso/ fino a calare tende lungo le pareti/ e attutirmi i clamori troppo fini’, scrive Galluccio nella poesia dedicata a George Cantor. Ed è proprio lì, nella poesia collocata nella parte centrale del libro, che l’io del poeta fonde la precisione del pensiero scientifico allo spaesamento, drammatica espressione di ogni comune esistenza. Il genio matematico perde la sua potenza svelando il proprio isolamento nello scorrere del quotidiano, nel giorno per giorno, ‘calando i maestri giù nell’ombra’, smarrendo i confini della scienza e trasbordando nell’ ‘irrazionale’, nell’emotività della propria condizione umana. Il poeta, adagiandosi ‘sul fianco dentro il freddo/verso le caverne della terra’, dopo aver percorso una progressiva, graduale, emersione dal fondo, in un processo di proiezione-identificazione ‘discende’ nella spina dorsale di un profondo dolore fino a raggiungere una parola poetica scevra dall’esattezza della formula matematica, tutta proiettata verso l’alto, verticale, appunto: ‘Non ho sonno, non so pregare. / Accolgo la solitudine di ogni singola onda./ Questa casa ha guscio di rapina/ e tentazione lunare. Non ha scale/ da scendere, sono nella terra friabile/ la rena scardinata. Mi lascio indietro’. E in questo spazio di linee verticali che si tracciano dal basso verso l’infinito, si erge l’uomo, in tutta la sua sostanza, consapevole e inconsapevole della propria esistenza irrisolta, un io disperatamente dilaniato dalla distanza tra il piccolo sé e l’assoluto.

di Luigia Sorrentino

 

Sergio Zavoli: La parte in ombra

Ci sono pochi uomini di cultura in Italia come Sergio Zavoli, attuale presidente della commissione di Vigilanza della Rai, già Senatore della Repubblica, ex presidente della Rai, giornalista, autore radiofonico e televisivo, scrittore, ma anche poeta.
La sua ultima raccolta di versi, La parte in ombra è uscita a marzo del 2009 nella collana Lo Specchio, Mondadori, come anche la precedente, L’orlo delle cose (2004).

Ma come può un giornalista, un senatore, un presidente della commissione di vigilanza Rai trasformarsi in poeta?

Ecco, la domanda.
Dentro questa domanda sta, semplicemente, il farsi poesia: dire la parola.

Ecco, dire la parola è la risposta alla domanda.

La parola, in poesia, è data, consegnata. E una volta che è data, è data, ciascuno può lanciarsi in ogni possibile interpretazione.

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Paolo Ruffilli: Il poeta che risveglia la coscienza civile

Si fa il possibile/ per questa gente”/ ti dicono di noi,/ “per farla stare meglio:/ da bere e da mangiare/ piu` che sufficiente,/ e sonno quanto basta,/ le loro messe, i libri,/ ore di svago e di riposo.”/ Ma e` un altro, il nostro,/ differente stato/ inerte e doloroso.

Con questi versi che introducono “Le stanze del cielo” Paolo Ruffilli conduce il lettore nel territorio di un’antichissima paura: l’ossessione della perdita della propria liberta`.

Un’esperienza “carceraria” totalizzante, estrema e drammatica attraversa lo sguardo del poeta: “Grate e cancelli da ogni/ parte, intorno, tetri cortili/ dalle altissime mura.” Uno spazio angoscioso e angosciante con il quale l’io entra in relazione svelando un mondo “interno” ed “esterno” dal quale il lettore sembra di non poter piu` uscire.  

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Jeanne d’Arc e il suo doppio

‘Jeanne d’Arc e il suo doppio’ (Guanda, 2008) è il titolo che Maurizio Cucchi ha scelto per il riadattamento de ‘La luce del distacco’ (Crocetti 1990), un testo teatrale scritto nel 1989 per l’attrice Jolanda Cappi, che lo portò in scena con il titolo ‘Nel tempo che non è più e che non è ancora’.

Al centro dell’opera di Cucchi vi è la figura di una donna reclusa che vive un processo di identificazione con Giovanna d’Arco. “La mistica che sentiva le voci – come spiega Fabrizio Fantoni nella sua recensione pubblicata da La Poesia e lo Spirito – diventa, nei versi di Cucchi, una voce che sgorga dall’inconscio, che viene a confortare e a lenire le sofferenze della protagonista, una voce assimilata all’urlo della mandragora, la radice a forma d’uomo dalle proprietà anestetiche che “getta un grido che sembra quasi umano quando la estirpi’.”

Nel monologo teatrale in versi, scritto per voce recitante, Cucchi ci porta dentro la storia di una donna che ha una voce piana, realistica, a volte anche delirante. Una donna laica, non una Santa, che decide attraverso un complesso processo di identificazione, di riscattare la dignità degli umili.

Accanto a Jeanne l’autore inserisce l’orribile figura di Gilles de Rais – prototipo di Barbablu – il cavaliere, nobile e criminale, luogotenente di Giovanna d’Arco nella guerra di liberazione di Orléans, ma anche assassino di bambini: “La sua non era un’anima / insanguinata, ma un gorgo nero / una vertigine assoluta, un’ossessione […] Le cavità, le larve e le serpi, / i grandi coperchi dell’incubo… / Era l’orrore fiabesco che costella / l’infanzia”, che diviene nell’opera di Cucchi il prototipo del male. Gilles de Rais è l’abisso, l’abiezione, l’ipogeo dell’anima che si contrappone alla luce abbagliante e totale di Giovanna d’Arco.

Cucchi, raccontando il martirio di Giovanna d’Arco (che il poeta immagina con il volto di Reneé Falconetti dello storico film di Dreyer), comprende anche, che non vi è nessuna coincidenza tra l’eroismo di Jeanne e la triste condizione della donna che è parte di un destino che non si afferma: “Questa luminosa demenza verticale / non è che un anno,/ una lama./ Un’idea, è stata. Tu non sei storia”.

Nei versi che chiudono il poemetto, la vicenda di Jeanne si distacca definitivamente da quella della donna, e, in tale distacco, dice il poeta, ‘è totale/la luce.’ (Luigia Sorrentino)