L’Odissea di Kazantzakis tradotta da Crocetti

Nikos Kazantzakis

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Nel 1956 il Premio Nobel per la Letteratura è assegnato ad Albert Camus, che diviene il più giovane detentore dell’ambita onorificenza. Lo scrittore francese di origine algerina, con eleganza d’antan, invia un telegramma al più anziano collega : «Voi l’avreste meritato cento volte di più». Di fatti — si saprà in seguito — in quella tornata l’autore neogreco arrivò secondo, fortemente penalizzato per altro dal suo stesso paese che «si mobilita, non già per sostenerlo, bensì perché non gli venga assolutamente assegnato il prestigioso riconoscimento». È quanto scrive Nicola Crocetti nell’informatissima introduzione all’Odissea di Kazantzakis, opus magnum del poeta cretese, diviso in 24 canti — come le lettere dell’alfabeto greco — e composto dal «numero sacro» di 33.333 versi (5.527 in più dei poemi omerici messi insieme!) in decaeptasillabi, una sorta di metro barbaro che tenta di ricreare il ritmo degli esametri classici.

L’Odissea costa al suo versatile artefice 13 anni e mezzo di lavoro (dal 1925 al 1938), 7 stesure autografe, 240.000 versi redatti a mano, con un esercizio di scrittura che arriva anche a 200 decaeptasillabi quotidiani e con la presenza di 7.500 athisàvrista, ossia parole introvabili sui vocabolari, trascritte personalmente sul taccuino e recepite nelle isole Cicladi, espressione della cosiddetta dimotikì, la lingua popolare.


Ma il multiforme ingegno di Kazantzakis non era nuovo a imprese di questo genere: fu traduttore infaticabile dell’Iliade, della Divina Commedia, di Shakespeare, del Faust di Goethe e anche di Bergson, Darwin e Nietzsche, autore di drammi, opere di poesie, romanzi (si pensi a Zorba il greco, Il poverello di Dio e L’ultima tentazione, portata al cinema da Scorsese nel 1988). La sua «sconfinata fantasia» e la «prodigiosa capacità lavorativa» divengono presto leggendarie. Siamo, infatti, dinanzi alla vastità di un’intelligenza come poche nell’intero Novecento, uno scrittore profondamente incompreso a causa dei suoi rimpasti filosofici e ideologici (un eclettismo à la Posidonio), di quell’ibridismo sincretico che è alla base della sua stessa concezione religiosa.

La parola d’ordine dei libri di Kazantzakis è forse contaminatio, ossia quella tecnica di fusione di registri stilistici e visioni spirituali che ha come risultante un condensato caleidoscopico: non stupisce allora che il sequel dell’Odissea omerica, fluvialmente composta dal poeta di Iraklio classe 1883, funzioni come una «sintesi di tremila anni di storia del pensiero» e appaiano nel corso del poema Gesù (il Pescatore Gentile), Don Chisciotte (Capitan Uno), Buddha e addirittura Trotsky, Lenin e Stalin sotto mentite spoglie.

Ma qual è il significato profondo del testo? «Tutta l’opera di Kazantzakis — scrive Crocetti che ha lavorato indefessamente alla traduzione per quasi un decennio, producendo per altro una versione armoniosa e naturale, premiata recentemente dai lettori del Corriere della Sera —, e l’Odissea in particolare, è animata dalla lotta del bene contro il male. Secondo l’autore cretese, il compito di un poeta e di uno scrittore non dev’essere la ricerca del bello, ma la verità; non la creazione di un’utopia, ma la trasformazione dell’utopia in realtà». Dietro alle ottime aspirazioni si cela però un «pessimismo eroico» e il tentativo ulissiaco di fondare una Città ideale fallisce con l’esaurimento delle forze tensive.

L’Odissea, monstrum letterario che richiama a sé in un unico calderone lo scibile, racconta l’evoluzione stessa dell’umanità, il desiderio di grandezza, la sete inesausta di avventure e lo scontro con il trascendente (come Giacobbe e l’angelo di Dio), lo smisurato anelito dell’uomo non soltanto verso la conoscenza — aspetto che Kazantzakis ha mutuato dall’Ulisse dantesco —, ma soprattutto verso un principio di pienezza e di pace, già ravvisabile nelle prime battute dell’epos (Proemio, vv. 1-3): «Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente,/ che amo portare di traverso, ho voglia di giocare,/ perché gioiscano i cuori finché siamo entrambi vivi». Le trappole logiche e i paradossi insiti nella poesia di Kazantzakis, persino nell’impurità linguistica, sintattica e ortografica, coincidono con le misticheggianti antinomie del suo pensiero, con il suo immaginare Dio ostaggio d’amore dell’uomo.

Magnifico è l’episodio in cui la Morte si addormenta e sogna la vita (canto VI, vv. 1265-1292): «Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,/ che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,/ che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra/ passeggino donne nobili e cantino le schiave».

 

Continua a leggere

La Valduga non è mai stata Penelope

Patrizia Valduga

I mille volti e filtri velenosi di Patrizia Valduga

di Monica Acito

 

Può la poesia essere fonte di piacere fisico?

Possono i versi far sussultare la carne, come farebbe il tocco di una mano?

Patrizia Valduga, nel suo corpus poetico, ci ha dimostrato che la poesia può essere madre, matrigna e amante. E, allo stesso tempo, unguento curativo e filtro velenoso.

Valduga si è servita dei suoi versi per attutire il tonfo della vita: le sue parole hanno assorbito qualsiasi forma di dolore, e hanno convertito tutto in delizia e guarigione.

Nata nel 1953 a Castelfranco Veneto, Patrizia Valduga è una personalità carismatica e poliedrica: si serve della poesia con la stessa voce incantatrice che usarono le sirene che tentarono di sedurre Odisseo, e la sua poesia le è fedele come un’ancella.

Spavalda, dolce, mansueta, animalesca e docile: Valduga riesce a indossare tutti i volti possibili, incarnati e cuciti in mille maschere d’inchiostro; con le parole, riesce a fare e disfare la tela, come una novella Penelope.

Ma, a differenza di Penelope, lei non aspetta niente e nessuno: Valduga si prende tutto, e lo fa con la potenza creatrice della sua parola.

Compagna del poeta e critico letterario milanese Giovanni Raboni (a cui rimase accanto dal 1981 al 2004, anno della morte di lui), Valduga ha studiato per tre anni Medicina per poi approdare alla facoltà di Lettere di Venezia; ha fondato e diretto la rivista “Poesia” e attualmente collabora alle pagine culturali di “Repubblica”.

La sua parola è rapsodica e affabulatrice, e riesce a restituire alle papille gustative tutti i sapori della poesia, dai primordi alla contemporaneità.

Il suo libro d’esordio, “Medicamenta” (1982), è un caleidoscopio di forme poetiche disparate; madrigali, ottave, terzine, sonetti, quartine, in un tentativo di succhiare tutto il midollo della tradizione poetica e farlo proprio, in maniera del tutto originale e con un linguaggio ibrido e nuovo.

Il linguaggio di Valduga in “Medicamenta” è pregiato come un arazzo finemente ricamato, ma sa anche essere colloquiale, volgare e quotidiano, in una ricerca spasmodica di “filtri e veleni d’amore”, come il titolo della raccolta suggerisce.

Io per la voglia scoppio e mi sconsolo.
Oh se potessi scagliarmi al suo collo,
e non destarlo… o strascinarmi al suolo
e con lascivo assalto, anche il midollo
succhiargli… o con audaci mani a volo
provarne gli inguini… Avida controllo
che fa di lui la sua notte testarda,
la mia che come astuta, tarda e tarda.
(
Patrizia Valduga, “Medicamenta” (1982, Guanda)

Ingorda, vorace e spudorata; la voce di Valduga, in quanto auctor, vuole tutto: i “medicamenta” di cui parla sono intrugli, pozioni in cui la poesia si mescola con la vita, l’oscenità e la bellezza. Un po’ come i versi di Ovidio, che nei suoi “Medicamina faciei femineae”, delineava un “magister amoris” per le donne romane, fatto di consigli di bellezza. Ciprie, unguenti e filtri di bellezza: così come il poeta di Sulmona insegnava alle fanciulle l’arte del piacere, in contrapposizione ai rigidi dettami del Mos Maiorum, allo stesso modo Valduga ammaestra le sue parole in maniera spericolata e libera.

I suoi “Medicamenta” sono esercizi e gemme di bellezza, un modo per prendersi cura di se stessi attraverso la poesia, che può nascondere fiori dalla bellezza soave, ma anche petali carnosi, che possono sprigionare profumi mortali. E in questo modo, la cura e la medicazione possono trasformarsi nell’esatto opposto.

Continua a leggere

Wole Soyinka, la passione per la libertà

Wole Soyinka, Premio Nobel per la Letteratura nel 1986

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

 

La poesia civile di Wole Soyinka, Premio Nobel per la Letteratura nel 1986, è tornata un anno e mezzo fa con l’Ode laica per Chibok e Leah (Jaca Book). Un testo altamente politico e intimo, nel quale la passione per la libertà si mescola con il più prodigioso esempio di resistenza umana contro la coercizione, in nome di un afflato che non può semplicemente definirsi ideale. Chibok è il luogo, Leah la ragazza. Nel 2014 a Chibok, città dello stato di Borno, 276 giovani fanciulle furono rapite in una scuola da parte di Boko Haram. Il 19 febbraio 2018 anche Leah Sharibu, giovane studentessa cristiana, fu rapita dalla stessa organizzazione terroristica. E non è stata ancora rilasciata.

Ecco la parte finale della prefazione dell’Ode laica, che spiega le ragioni della scrittura dell’autore nigeriano: «A differenza di Chibok, a Dapchi gli ostaggi — poco più di un centinaio — furono rilasciati dopo breve tempo. Quando arrivò il momento del rilascio, tuttavia, alle ragazze già ampiamente traumatizzate fu imposta un’ulteriore condizione: avrebbero dovuto abiurare la propria religione per ottenere la libertà. Lo fecero tutte, tranne una. Di nome fa Leah Sharibu. Da quanto riportato dalle sue compagne liberate, la ragazza avrebbe detto: “Non posso. Sia fatta la volontà del Signore Dio”. Nell’esprimere questo atto di volizione umana che trascende ogni singola fede, persino chi non crede trova uno spazio di serenità in cui prendersi cura della propria realizzazione spirituale».

Straordinario: il gesto umile e dimesso di una fragile ragazza, proveniente da un oscuro villaggio, colpisce nel profondo il granitico intelletto di un Premio Nobel. Leggiamo anche i versi finali dell’Ode laica, pieni di commozione e partecipazione: «Non solo Chibok agogna la liberazione, ma/ fino al giorno del Risveglio della Mente, questi/ giorni di Chibok ci riempiranno il cuore di bile. Abbiamo/ negato alla tua gioventù i riti della mente al Risveglio/ di Primavera, e le acque sorgive della vita.// Vivi, Leah. Perdona».

La piccola e maestosa testimonianza di Leah sommuove il cuore di Soyinka, lo sconvolge. Nel gesto di Leah si concentrano tutte le qualità che rendono unico l’essere umano: l’umiltà, la pazienza, la tenacia. Ma tale particolarità ha a che fare non soltanto con l’emozione di un momento, capace di ispirare il poeta. Soyinka, in realtà, in questa schietta e purissima manifestazione della personalità di Leah vede incarnato l’elemento più perfetto della sua poetica e del suo messaggio di scrittore africano. Leah è probabilmente l’opera che Soyinka avrebbe voluto scrivere. Continua a leggere

Cees Nooteboom, “Addio. Poesie al tempo del virus”

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

 

 

Poesia filosofica e profondamente legata al contingente, quella dell’olandese Cees Nooteboom è una continua divagazione sull’essere e sull’apparire, un registrare i mutamenti immutati della natura (soprattutto degli amatissimi cactus nel suo giardino di Minorca, dei fichi, della vegetazione lussureggiante ma anche delle oche del vicino), un sommesso ascoltare nomi, suoni, stridii, fragore di giornali, passaggi in lontananza. Poesia dunque di pittura e di musica, di improvvisi e irripetibili squarci, di esaltazioni nominali e avvolgimenti sinfonici: poesia racchiusa in gabbie metriche addentellate — Addio consta di trentatré liriche, ognuna costruita su tre quartine caudate —, con andamento progressivo e poematico che apre e chiude una stagione di riflessioni dello scrittore (in questo caso si tratta di un autunno a Minorca e, significativamente, del periodo di quarantena trascorso a Hofgut Missen durante la prima ondata di Covid-19).

Come scrive opportunamente Andrea Bajani nella postfazione, «a dispetto del titolo, questo libro non è un congedo. L’autore di Tumbas non si congeda da niente. L’addio è semplicemente il muro ultimo, dopo il quale si estende, o si annida l’inesprimibile». Certo, nella sconcertante precisione di un timbro levigato emerge sovrano — negli scarti e nei vuoti semantici da waste land — il silenzio, inteso come frattura e fattura estrema del poetare («Il silenzio, travestito da voluttà notturna, circonda/ la casa, e lui riascolta le voci di un tempo»). Dentro il silenzio sorge, però, per dirla con Adam Zagajewski, un «dialogo pacato», fatto di sguardi — sguardi che diventano poesia — e intese fulminanti dinanzi al testimone muto, simboleggiato, o meglio incarnato dai cactus. Qui avviene l’incontro sempre sospettoso, sempre rimandato con la morte, con il dopo, viaggio estremo prefigurato nella dissoluzione del virus e nella scomparsa degli amici («L’amico morto senza poter più parlare,/ l’altro amico che sull’ultimo letto/ tracciava con le mani un cerchio,// e voleva dire viaggio. Era/ un addio»). Mentre fluisce vorticosamente l’identità in una singhiozzante alterità («Il corteo/ che si mescolava ai loro sogni/ è apparso al lui del mio/ io, l’io del mio lui»), la solitudine e il senso heideggeriano di gettatezza (Geworfenheit) implicano una visione del mondo incentrata sul tema del viaggio non soltanto come giunzione con la morte, ma anche e soprattutto come peregrinare incessante degli elementi dell’universo: il cosmo è già movimento, divenire in dissolvenza, fuoco («Quante vite stanno in una vita?/ Quante volte la stessa testa è qualcun altro?»). Continua a leggere

Essere polvere, Chandra Livia Candiani

 

Chandra Livia Candiani, Credits Salvatore Mayarro

NOTA CRITICA DI FABRIZIO FANTONI

La domanda della sete

La voce è il bosco del volto
tutte le mirabili cose
dell’universo sono nate
dalla voce. La voce
le ha chiamate una a una
senza pensarle le ha chiamate
fuori dalle tenebre e le cose
una a una si sono presentate
sorridendo, non sapendo
che sarebbero presto
rimaste gettate e sole.
La voce conduce, lega
e libera, grida verso l’alto
bisbiglia nella notte
e rispondono i sogni.
Sarà la voce a chiamarmi fuori
dalla tana del corpo,
con quale audacia
il mio personale frammento di voce
risponderà: “Eccomi, sto arrivando”?

E’ nel solco tracciato da questi penetranti versi, che occorre scavare per addentrarci nella lettura dell’ultima raccolta poetica di Chandra Livia Candiani intitolata La domanda della sete, 2016-2020 (Einaudi, 2020). Il libro si presenta, fin dalle prime pagine, come un lungo cammino di meditazione sul senso dell’esistere, che prende le mosse da una riflessione sul corpo, sulle varie parti che lo compongono – piedi, mani, sangue, cuore… – viste, ognuna, come lo strumento attraverso il quale si realizza la nostra percezione dello stare al mondo, del nostro esserci, ma anche del nostro attraversare la vita in tutti i modi possibili “Non domandarti mai dove vai / solo fallo bene”.

A indicare la strada di questo percorso di meditazione è la poesia. La prima sensazione che La domanda della sete offre al lettore è di trovarsi di fronte, non già ad una semplice restituzione in versi di un’esperienza emotiva o esistenziale ma all’estrinsecazione di un più intimo e denso rapporto con la poesia: una sorta di antico patto o sodalizio che impone di affidarsi completamente all’autorità di una parola che emerge da una consapevole sospensione del pensiero e porta a galla i doni di un mondo interiore profondissimo, dando forma ad un nuovo modo di esistere. In questa raccolta, la voce del poeta chiama, dà un nome alle cose, “la voce conduce, lega / e libera, grida verso l’alto”, la voce impone di affrontare il nascosto che è in ognuno di noi ed intima: “Sei l’unica me che ho/ torna a casa”.

La tematica dello smarrirsi e del ritrovarsi, del voltarsi indietro e del tornare ad una dimensione più vera del vivere è centrale nella poesia di Chandra Livia Candiani e presuppone, quale condizione necessaria, l’attraversamento da parte della poesia stessa dell’ ”accaduto”: quel danno originario che è alle nostre spalle e a cui non sappiamo dare il nome ma sappiamo che è lì, presente, come un fardello pesante che immobilizza e confina entro trincee, che isola e smarrisce. Continua a leggere