La ristampa di “Cuore” di Beppe Salvia

Beppe Salvia

Interno Poesia ristampa l’attesissimo libro di poesie di Beppe Salvia Cuore diventato introvabile, che uscì postumo nel 1987, a cura di Arnaldo Colasanti a circa tre anni dalla tragica scomparsa dell’autore.

Dall’introduzione
di Sabrina Stroppa

 

 

 

In quel “clima vibrante di philia” è la Roma degli anni Ottanta, “luogo d’adozioni” in cui convergono giovani poeti provenienti dal centro e sud Italia, nascono due riviste destinate a lasciare un segno profondo nel decennio: “Prato pagano” fondata da Gabriella Sica e “Braci” fondata da Claudio Damiani insieme a Beppe Salvia, Arnaldo Colasanti, Gino Scartaghiande e Giuseppe Salvatori. Entrambe caratterizzate da una “pluralità di voci che pure si muovono su uno sfondo comune”, saranno “il luogo effettuale di un numero nutrito di giovani poeti, il centro di sperimentazione di una poesia intonata alla “rigenerazione” di se stessi e della tradizione.

Beppe Salvia era nato a Potenza nel 1954, e a Roma era andato a vivere con la famiglia all’inizio degli anni Settanta. Rapidamente impostosi nel panorama culturale, tra il 1976 e il 1979 aveva pubblicato poesie e prose su riviste come “Nuovi Argomenti” (sostenuto da Dario Bellezza che ne apprezzava la poesia) e “Lettera”. Se  su “Prato pagano” è presente con regolarità fin dal secondo numero (ottobre 1980), con versi naturalmente, ma anche prose, come tombeau di Tommaso Landolfi, su “Braci” scrive fin dall’inizio. Nel primo numero (novembre 1980), “fatto con un ciclostile, a mano”, nello scantinato della casa di Colasanti, firma quella sorta di apertura programmatica che è il “lume accanto allo scrittoio”. Ne ricordo le prime righe, in cui emerge la posizione di ‘nuova chiusa‘ e giovane letteratura che vuole rimettere a fuoco il portato emotivo e vitale della poesia, contro il fulcro formale (e si veda, anche, l’attitudine a usare i ribattimenti fonici come scheletro del discorso, qui dolore… valore… colore).

[…]

 

All’inizio del 1984 escono su “Braci” sedici poesie sotto il titolo di “Cuore”: diventerà il titolo generale di un libro che Salvia prepara nei primi mesi del 1985, e che raccoglie una serie di poesie pubblicate in rivista tra il 1979 e il 1984.

La sezione eponima comprende una delle sue liriche più belle, “A scrivere ho imparato dagli amici”; e saranno proprio gli amici dopo la morte di Beppe, avvenuta il 6 aprile dello stesso anno, a ritrovare i dattiloscritti preparatori tra le sue carte. Il libro apparve solo alla fine del 1987, postumo, per l’editore rotondo, a cura di Arnaldo Colasanti, come primo numero della collana di poesia “Novelettere” da lui diretta. Nella premessa, Colasanti indicavano i versi di Salvia “lo spalancarsi di una potenza e di una unicità lirica” sostenute da “una lingua di magistero, di studio delle cose e degli uomini”. Gino Scartaghiande, che contribuì all’allestimento del volume, ragionando su quella “grande poesia” degli anni Ottanta e Novanta che ebbe le sue radici nei Settanta parla di cuore come di uno dei ‘veri libri’ dell’epoca: “un libro straordinario, miracoloso, impensabile e dieci anni prima”.

Il volumetto ebbe, subito, almeno due lettori di eccezione. Pietro Tripodo, in una presentazione del luglio 1988, indicava in “Cuore” la capacità di “disporre diversamente da prima l’attuale, giovane universo della res publica literatum: leggendo minutamente i versi, sottolineava l’affollarsi di una “iperattività retorica” che è “un tempo risultato e sostanza di poesia”, una “rabbia della forma” espressa da varie insistite “Tessiture formali”, sole in grado di sopportare “l’urto nervoso […] di un’intollerabile urgenza”.  Andrea Zanzotto, riconoscendo nell’autore una voce importante tra quelle dei giovani poeti che stavano facendo un “salto qualitativo […] verso nuove forme”, ravvisava nella poesia di Salvia una “sconcertante luce” capace di creare un “inquietante sfondo di allontanamento”, e insisteva sul quid arduo e sfuggente che leggeva nelle sue prove più composte.

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De Angelis, “La parola che fa esodo”

Milo De Angelis, Credits ph. Viviana Nicodemo

Note in margine a Linea intera, Linea spezzata di Milo De Angelis

di Marco Marangoni  

 

Come si dice nella presentazione della quarta di copertina, questo nuovo libro di De Angelis ha per protagonista la memoria, in cui sembrano affiorare, da un tempo remoto e arcano, fantasmi dalla voce straniante. La tessitura lirica appare quella di un colloquio con le ombre, da sottosuolo; e il linguaggio si bilancia tra realtà e stati di drammatico pathos. E comunque in questo lavoro –dall’intenzione narrativa che articola una galleria di incontri emblematici-  De Angelis ha messo in opera, ancora una volta, forse il suo unico e vero tema: lo spazio inaugurale della parola poetica. Infatti, come già altrove, Linea intera, linea spezzata mette in luce proprio il prodigio dell’ispirazione; ed è quanto emerge direttamente attraverso una delle tante voci-demoni che affiorano in questo libro: “Io ho creduto/ nella tua poesia, Milo, sono stato il primo e ora/ ti dico

vieni qui, presto, prima dell’ultimo volo.”

La voce-demone, voce d’oltre confine -confine “sottile”, “tremendo”-  ha la legittimità del numinoso-oracolare e si fa segnale della poetica che è propria dell’autore, sottolineandone la specifica determinazione drammatica, e proprio a partire dal simbolismo inquietante di quell’ ”ultimo volo”.

 

Se l’itinerario poetico procede dallo spezzarsi del tempo lineare e dell’azzeramento di  ogni accumulazione di significati, la scena cui la memoria ritorna -ma non come a qualcosa di semplicemente antecedente- è questa: “sei destinato a scendere/ in un tempo che hai misurato mille volte/ ma non conosci veramente”; oppure: “l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,/ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora/guardi l’orologio”.

 

Il poeta ci dice che la poesia non si allinea col discorso che discorre di questo e di quello; non è una variazione comunicativa; essa, piuttosto, è prima o dopo la comunicazione in quanto tale: “giungono da un’altra mente,/ le parole, una mente lontana”; la poesia insomma comincia dal punto in cui il discorso comunicativo entra in crisi, non tiene.  E’ questo il punto in cui il senso di una totale contingenza viene avvertito come insostenibile, folle corsa: “Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,/ la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia/ che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura”. “Nulla ci appartiene” allora, tranne l’evento di questo confronto linguistico-poetico col nulla: “trasalimento di rime contro il nulla”. Il linguaggio poetico si presenta sciolto da ogni funzione ancillare, fino al limite di una identità tra significante e significato, cosa e parola.

 

Di qui la distanza netta che separa la poesia del poeta milanese da ogni altra che non sia radicalmente ispirata, e tanto più da ogni poetica strumentale o ideologica. In quest’ultimo caso è utile ricordare che De Angelis, con altri importanti poeti della sua generazione, si è impegnato, sul finire degli anni ’70, in una militanza poetica per restituire alla parola la sua autonoma dignità espressiva. E tanto quella militanza, diversa da quella dei movimenti ideologici, ha segnato il perimetro della sua poesia, che tra le tante voci-demoni di questo libro ne troviamo una proprio risalente allo “slancio delle assemblee antiche e dei cortei”, mentre chiede al poeta “da che parte stai?”; domanda rispetto alla quale c’è un’unica, categorica risposta: “la poesia non sta dalla nostra parte/ma in un luogo tremendo e solitario, dove nessuno/resta intatto.”

 

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Cettina Caliò, “Di tu in noi”

Cettina Caliò

 

da La Forma detenuta

Ti tengo
nell’entroterra dell’anima
in un respiro di due sillabe

nel silenzio che fanno gli occhi
quando spalancati sentono
quel perdersi bello
nel nulla del passo

***

Piano sequenza

Quel mio ritornare a te
da tutte le strade
per sottrarci da tanta morte

e ricucire i luoghi
feriti
di una vita che qui
è stata vita
per un poco

***

Dove grido

Dove il tuo odore semplice dura
dove ti trattenevo

dove nessuno adesso
attendo e non accade

duro il desiderio
del respiro
nella sosta del viso

dove il colpo di frusta del sangue
brucia
rivedo antica e senza più mistero
la ruga a dividere la tua fronte
ostinata nella sua durata abissale

dove il tuo pensiero veleggia
gonfio e immemore

in questo viluppo di scogli
come l’onda mi rompo
e schiumo

***

Cade anche l’ultimo vento
ogni cosa è sola
nel risveglio che trema
come il cespuglio arruffato
dalla fuga di un uccello

non so più nominarti
se non nel pugno stretto

e indolenzito
ricomincia il giorno
a consumare lento
le suole
e noi
con aria da passanti
moriamo a strattoni nel rumore
secco del desiderio in ceppi

Nella voce di una campana lenta
passa la vita
e chiude ogni frase
in un tormento di ultime volte
sapute sempre
dopo

qualcosa cerchiamo
su cui posare lo sguardo
senza tremare

fra un rintocco e l’altro

un sentiero piccolo di arbusti
promette giorni di fiori a venire

e noi
un dettaglio
in questo panorama che basta
a se stesso

ma ancora
sorveglio le tue foglie
e mi attardo a guardare
il modo che ha il sole
di far colare la luce
sui muri

***

Sei salita
che mi vede a bocca aperta
in un giorno di finestre chiuse

mi dico parole
nell’idea di quella virgola
che dava fiato al silenzio

quando
avevamo piedi e mani
a fare il paio

***

Cadono cose e restano
cadute
in questa vita a orario fisso

tuttavia io

nell’assenza che mi porta
dove tu
arreso hai sorriso
vado

e imparo
la figura paziente dello zero


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Francesco Tomada, “Affrontare la gioia da soli”

Francesco Tomada

Pubblichiamo cinque poesie di Francesco Tomada tratte da Affrontare la gioia da soli, Collana Gialla Oro, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021

IL MARE IN TRASALPINA

I. STAZIONE TRANSALPINA, 22.30 PM

Ha bevuto almeno quattro calici di bianco
poi si è messo a camminare traballando
verso un prato buio e un palazzone popolare
forse ad aspettarlo c’è una solitudine più grande
rispetto a quella di adesso

sui binari solamente un treno merci fermo e
due carrozze graffitate senza passeggeri con le luci spente

qui vicino la panchina dove
è morto Adelmo in overdose di metadone
conosciamo bene sua madre
o meglio quello che ne resta

ma tu
tu stringimi la mano
se vogliamo credere che ci sia qualcuno a casa
di quell’ubriaco che lo svesta e lo perdoni
che ad Adelmo sia spettato un paradiso di colore
verdeazzurro come l’acqua dell’Isonzo
stringimi la mano fammi forza
che per tutte queste lampade appese alle colonne
con la plastica a forma di conchiglia
tocca a noi di immaginarci un mare

II. CAVE DEL PREDIL

La miniera è chiusa da vent’anni ma qui tutto è ancora miniera.
Le case sono state costruite per i lavoranti, il museo si è preso lo
stabilimento dove si purificava il piombo, il pendio della montagna
è un accumulo di pietre scavate da là sotto.
Quando nevica d’inverno i fiocchi sono grossi e lenti, come quando
capovolgi quelle sfere trasparenti che contengono un paesaggio.

Rovescia ancora quella sfera.
Che la neve si raccolga nella concavità del cielo.
Che la terra discenda nel vuoto delle gallerie da dove è venuta.
Che tutti gli uomini risalgano salvi. torna più indietro, prima di
silicosi e pleuriti. Fino alla festa di Santa Barbara, quando vestivano
i loro completi con ventinove bottoni dorati e lo sguardo fiero di
chi tutti i giorni scende nel mondo e lo spacca davvero.

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Francesco Iannone, inediti

Francesco Iannone

COMMENTO DI ALFONSO GUIDA

Quelle proposte da Iannone sono poesie sulla grazia della fecondazione. Il padre si estingue nella sua sagoma terrestre, trova la cavità dei cieli. Nulla di materno nelle rotazioni luminose e buie del pensiero ma una penetrazione: la ” pigra grazia del sole” che attraversa. Una ” cum – prensione”: non solo una nuova presa nella visione celeste, ma una nuova “prensione” della sequenza immaginativa e, dunque, narrativa. Una paternità mitica, cosmica si snoda in un frasario ardito e ardente, dove diremmo “ardenza” (l’autore è partenopeo) più che “battesimo”. Il ritmo incalza da un qui a un altrove onnicomprensivo. La parola nuda come la luce che descrive indica la via di un’apertura dentro la parola stessa. È come se un alfabeto scoprisse d’improvviso la molteplicità delle combinazioni letterali.

inediti da “Prima opera del gesto” di Francesco Iannone

*
Mia stella. Ho tanti cieli per te. Se vieni i miei bui si voltano sugli abissi. La mia sera diventa una veglia celeste.

*
Come in una catena lo spazio di un anello. Nel suo giro il mio inchino più fecondo. Se sveglia la ruggine sul ferro di una vita, è l’amore. Continua a leggere

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