Norman MacCaig: stelle, pianeti, mucche e un caprone

Norman MacCaig

Goat

The goat, with amber dumb-bells in his eyes,
The blasé lecher, inquisitive as sin,
White sarcasm walking, proof against surprise,

The nothing-like-him goat, goat-in-itself,
Idea of goatishness made flesh, pure essence
In idle masquerade on a rocky shelf –

Hangs upside-down from lushest grass to twitch
A shrivelled blade from the cliff’s barren chest,
And holds the grass well lost; the narrowest niche

Is frame for the devil’s face; the steepest thatch
Of barn or byre is pavement to his foot;
The last, loved rose a prisoner to his snatch;

And the man in his man-ness, passing, feels suddenly
Hypocrite found out, hearing behind him that
Vulgar vibrato, thin derisive me-eh.

da “A Common Grace” (1960)

*

Caprone

Il caprone, l’ambrata ottusità nei suoi occhi,
il satiro menefreghista, curioso come il peccato,
bianco sarcasmo su quattro zampe, a prova di stupore,

il non-sembra-affatto un caprone, di-per-sé-caprone,
l’idea di lascivia fatta carne, pura essenza
in maschera indolente rizzata su una roccia –

si appende a testa in giù dove l’erba è più verde per strappare
uno sterpo dalla gola arida del dirupo,
ci tiene a quel quel filo d’erba macilento. La nicchia più stretta

è cornice perfetta per il volto del diavolo, il tetto più ripido
del granaio o della stalla è un marciapiede per i suoi zoccoli,
l’ultima rosa, la più amata, un prigioniero per la sua razzia.

E l’uomo nel maschio passa in secondo piano, improvvisamente
si scopre ipocrita, all’udire dietro a sé quel
vibrato primitivo, sottilmente canzonatorio, beeh-eeh. Continua a leggere