Roberto Carifi, da “Ablativo assoluto”

Non hanno pace i volti dei bambini
disse un tempo dal suo esilio
la riva destra dove il fiume scende
rammenti, una madre in fondo a un letto
d’ospedale, con la mascherina,
ed il dottore vicino a me che mi diceva
finita, finita, finita.

*

Cenere, sangue
mi accompagnano alle falde del Tibet
qui i voli dei gabbiani sono i miei fratelli
dove c’è l’immensa preghiera
pronunciata da tutti.

*

Dirò in solitudine le preghiere
a nord di tutte le terre, di tutte le nevi
vestito con un paio di pantaloni arancione
reciterò a voce bassa,
quasi impercettibile,
le ruote dell’illuminato.

Roberto Carifi, Ablativo assoluto (Anima Mundi, 2020) Continua a leggere

Roberto Carifi, poesie

Qualcosa è irreparabile nella merenda sbriciolata,
gli attimi puri della nascita
quando uno vede le cose allontanarsi
e prega che non ci sia nessuno,
nemmeno un padre da perdonare…
nessuno, vi scongiuro, sia troppo vivo
tra le lampade spente,
nel bianco delle corsie,
questa voce che si cancella dove non c’è rimedio
e ogni errore è una vittoria.

***

Un figlio, all’alba, la gioia di vivere
in un battito preciso,
sollevano le insegne di questa povertà
ed una rabbia che non uccide
illumina ogni cosa
… il tempo… hai visto… nelle cantine buie
qualcuno ha chiamato con insistenza…
“Perdona, Roberto, perdona il nostro amore.
Fummo gettati nella tua voce, tra Piazza d’Armi
e la casa di Luciano… non volevamo…
non volevamo perderti… è stato il vento,
nel solaio, una luce fredda e miserabile”
ragionano, nel gelo, mentre deve decidere
una stella.

***

Era giusto correre fino al parco
trovare il vecchio addormentato
lui, mi dicevi, conosce l’orrore della vita,
poi anche l’ultimo bambino
parla nel nostro suicidio,
un orfano che portiamo a destra
accanto ai documenti
quando giuriamo di morire in piedi,
dietro un vetro rotto. Continua a leggere

Roberto Carifi, “Nel ferro dei balocchi”

 

 

 

 

NOTA CRITICA DI PIETRO ROMANO

 

Il nesso che unisce gli opposti nell’immagine di un logos che tutto di sé permea è il fulcro tematico dell’opera di Roberto Carifi, Nel ferro dei balocchi (Crocetti, Milano, 2008), in cui si trovano raccolte le poesie scritte in quasi un ventennio, dal 1983 al 2000.

L’infanzia figura come un terreno di indagine sul quale la parola poetica si muove in un’intima solidarietà con il tepore delle immagini che abitano la memoria.

Sin da L’obbedienza, del 1986, il poeta scandaglia il tema della morte come un abisso nel quale scendere per rischiarare una temporalità che si avverte vincolata alle trame di un destino ineludibile. Tale è la percezione attingibile dal testo posto in apertura alla raccolta, che si dà al lettore in una chiave dialogica, quasi Carifi tentasse di ricostruire un dialogo con il fantasma della madre, oramai figura della memoria: «“C’è una luce fortissima, un vento che piega le ginocchia”. /” Dove?” /” Dove non puoi guardare”. / “Dovrò uccidermi, lentamente, come una cosa abbandonata”. / “Non ti capisco”. / “Non parlo più la stessa lingua…non posso”. /” Devo andare”. / “Perché?” / “Qualcuno dà degli ordini… degli ordini inflessibili”. /” Ti aspetterò…” / “È inutile. Hanno sospeso il tempo, c’è una neve che fa tremare, anche qui, in questo campo arato”».

La dicotomia su cui il testo si costruisce avvicina il poeta alla constatazione del confine che separa la vita dalla morte, evidenziando, attraverso le immagini di «una luce fortissima e di un vento che piega le ginocchia», la rapacità di quest’ultima.

Lungi dall’essere espressione di forza rigenerante, la luce appare sempre correlata a una temporalità che, in quanto precaria, incide la vita oggettivandola nella dimensione conoscitiva del dolore: «Quante volte, tra le pagine/ una mano lanciata come un sasso/ negli anni che sono gocce,/ centimetri del tuo sangue/ e la parola adolescente che consumi/ come un cuore inzuppato…/ finché un raggio ferisce tutto/ anche gli attimi invincibili/ e un angelo si solleva,/ con esattezza,/ trafigge la tua domanda/ proprio lì,/ nelle vocali». Rilkianamente, Carifi sembra fare riferimento all’angelo come figura che specchia in sé la vita e la morte, e con essi l’effimero che li innerva, senza però mai redimerlo davvero.

Questa ricerca tematica su un’idea di origine che guida il poeta verso il canto si esprime mediante rappresentazioni pervase da un unico gelo, collocando le visioni in uno stato incerto tra il sonno e la veglia: «Pregano, adesso, in una sfera luminosa/la terra fredda dove l’inesistenza sarà guardata/ tra le stelle filanti e un fratello buono…/ compie due anni la tua infanzia,/ i primi passi nel gelo, quando ti meravigli/ davanti alle rovine e un silenzio benedetto/ protegge la tua gioia…/ forse ti amano, anche lì, nell’occhiata fragile dei morti/ e una mano invincibile ti indica la casa,/ un lumicino accanto al tuo ritratto/ e piangeresti se il tempo non fosse arato/ da un amore più forte, l’obbedienza ad un inverno/ dove di nuovo corri e ti sbucci le ginocchia/ con quel balocco arrugginito, e ridi». Continua a leggere

Rilke, la percezione del terribile

Rainer Maria Rilke

COMMENTO DI MARIO FAMULARO

La parola poetica deve essere, per Rilke, una parola svuotata del peso dell’io e fatta essere lo spazio puro in cui si trascrive l’esperienza del «contatto» con le cose, quel contatto che un poeta «senza nome» esperisce con le «cinque dita della mano dei sensi». La questione della parola – il suo come – è pertanto strettamente connessa sia alla necessità di un esercizio di estrema riduzione del sé, sia alla necessità di dire dell’intimità estranea che ci lega alle cose.”

(Daniela Liguori in “Rilke e l’Oriente”, Mimesis, 2013)

Le poesie contenute in “L’Angelo e altre poesie” (Via del Vento Edizioni, 2003, traduzione di Roberto Carifi) riescono a restituire, con una selezione accurata, la cifra stilistica e tematica del Rilke più maturo, quello che, incorporato serenamente l’orrore della morte e della dispersione (ricorrente, ai limiti della novella gotica, nei racconti giovanili di “Totentänze”), si fa voce impersonale dell’assoluto, strumento nelle mani del tremendo e del magnifico, parola commossa che si lascia nominare da quella stessa bellezza che “disdegna di distruggerci”.

Ed ecco che in “Morte del poeta” i versi mostrano la gioia nascosta di essere “una cosa sola / con queste profondità, con questi prati”, in uno splendore invisibile a “chi lo vide vivere”, nonostante il suo viso fosse sia “le acque” che “la vastità del tutto”, quel tutto che lo desidera, “lo reclama” – fino a collegare la maturità della dissolvenza dell’esistere al frutto caduto dall’albero, la cui polpa “nell’aria si corrompe”.

La percezione del terribile, intrecciata alla rivelazione della bellezza nascosta nel mistero delle cose, viene poi paragonata “all’impacciato incedere del cigno”: nuovamente vi è il richiamo alla morte, a una fine serena e compenetrata nel quotidiano, priva di angosce, che si avverte come profondamente naturale.
Nonostante nella consapevolezza della nostra fine dilegui “il fondamento / del nostro stare quotidiano”, essa rivela un’accoglienza felice, “mite”: così come il cigno è “padrone di sé e sempre più regale”, capace di reggere l’abisso della sua “discesa ansiosa” sotto le acque, allo stesso modo l’uomo che ha fatto proprio l’orrore della dissolvenza e della morte, riuscendo ad accedere al segreto più sacro e intimo dello splendore delle cose, “in dignitoso distacco avanza”.

Sarà sempre Rilke, nella nona elegia duinese, in uno stato non dissimile a quello estatico, a ribadire: “Terra … non sono più necessarie / le tue primavere a guadagnarmi a te –, una, / ah, una sola è già troppo per il sangue. / Senza nome, da tanto, a te mi sono votato. / Sempre fosti nel giusto, e la tua sacra scoperta / è la familiarità con la morte.” Continua a leggere

Roberto Carifi, da “Amorosa sempre”

Roberto Carifi

Con le mani chiodate
si alzano in volo
guardando la madre
che ha il volto prosciugato
e questa terra molle, lo sai, è l’unica
che resta tra la nascita e l’orma saccheggiata…
guardateci, dicono da un campo arato,
è la nostra sorella, la vita,
quella semina di bambini che picchiano,
picchiano sulle corde del cielo
e non sanno, loro, la scrittura di sasso
l’esito che hanno scavato
con un occhio nel letto e l’altro,
in croce, sull’arenile. Continua a leggere