Mark Strand, in assoluto una delle voci più rilevanti della poesia contemporanea, ha appena pubblicato in Italia per gli Oscar Mondadori una raccolta di tutte le poesie: L’uomo che cammina un passo avanti al buio, Oscar Mondadori, 2011 (euro 15,00).
In questa video-intervista realizzata da Luigia Sorrentino Mark Strand, premio Pulitzer per la poesia nel 1999, rivela un’inedita lettura di tutta la sua opera poetica.
http://www.rainews24.rai.it/ran24/clips/2011/04/MARK_STRAND_BREVE.flv
Intervista di Luigia Sorrentino
Accademia Americana di Roma
18 marzo 2011
Siamo qui per parlare della sua opera di poeta, l’opera di un poeta definito ‘della montagna e del mare’, con tratti peculiari che lo differenziano da altri poeti suoi contemporanei statunitensi. Innanzitutto ci dica una cosa… Lei come altri scrittori, si era avviato alla pittura, scoprendo poi, di volersi dedicare totalmente alla scrittura… E’ successo a Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura del 2006, ed è accaduto a lei che nel 1957, a 24 anni, ha deciso di vivere da poeta. Ci racconta com’è andata?
“Ho sempre letto poesie, sebbene fossi un pittore, ero uno studente d’arte, non ero un pittore vero e proprio, bensì uno studente-pittore, ma, in un certo modo, l’essere uno studente d’arte mi aveva preparato per la scrittura, perché avevo il senso della formalità dell’impresa: prima davo forma alle immagini e in un secondo momento davo forma alla poesia. Deve esserci molta armonia tra la prima linea, quella centrale e quella alla fine, proprio come in un quadro, tutti gli elementi si uniscono. Ho rinunciato alla pittura perché ho capito che non ero un buon pittore, dopo mi sono dedicato alla poesia, ma non ero un bravo poeta. Ma ho sentito che avevo la possibilità di migliorare come poeta. Ci sono stati anche altri motivi. Nella mia famiglia i libri erano molto importanti, mi sono spesso sentito inadempiente come lettore e inadeguato come scrittore. E improvvisamente ho sentito il bisogno di compensare questa inadempienze e questa inedeguatezza scrivendo. E’ iniziato come un modo per rispondere ai desideri e alle speranze dei miei genitori.”
La sua prima poesia, quella degli anni Sessanta, sembra dominata dalla pittura di Edward Hopper su cui lei ha anche scritto una monografia negli anni Novanta. Ci spiega come entra l’opera di un grande artista visivo, quale fu Hopper, nella sua opera?
In realtà non era propriamente la pittura ad avermi influenzato così tanto all’inizio, ma piuttosto scrittori come Kafka, Borges, Calvino, questi erano gli scrittori che ritenevo interessanti, nessuno di loro era un poeta, eccetto Borges, ma comunque avevano scritto una prosa molto intensa, densa, ed erano in contatto con ciò che noi tutti oggi definiamo ‘misterioso’, lo strano, l’inaspettato. Ero affascinato da tutto questo nei loro lavori, ma, al contempo, ero anche affascinato dal lavoro dei surrealisti, perché si erano specializzati nell’inaspettato e nell’irrazionale. Sicuramente non si può scrivere qualcosa di sensato ed essere irrazionale, devi essere capace di trasformare l’irrazionalità in qualcosa che abbia una forma. In altre parole devi permettere al lettore di sperimentare l’irrazionale, non in un modo programmato, ma in maniera formale. Perché, in generale, non viviamo le nostre vite in modo razionale, le nostre vite sono dominate dagli incidenti, e molto spesso siamo motivati da forze irrazionali che non comprendiamo. Siamo spinti a questo, spinti a fare quello, a volte contro il nostro interesse migliore. E queste contraddizioni interne erano qualcosa che io volevo esplorare nel mio lavoro, e che analizzavo nel lavoro degli altri.”
Tutta la sua opera è costellata dal tema dell’attesa, c’è qualcosa che non avviene, una poesia che rievoca, in qualche modo, che celebra qualcosa che non accade ma che prima o poi accadrà…
Come definirebbe la sua poesia?“Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte.”
Lei potrebbe anche essere definito ‘Il poeta della disillusione’. Forse questa è una delle caratteristiche principali della sua opera di poesia. Lei dice che l’immaginazione è come svanita o affievolita. L’uomo contemporaneo ha perso l’immaginazione, la creatività. Perché è accaduto questo?
“Io mi considero un comico. Credo che le mie poesie siano divertenti. Credo che ‘L’uomo e il cammello’ sia una poesia piuttosto divertente, in cui l’uomo e il cammello della poesia si rivoltano contro il poeta, poiché ha interpretato il loro significato. Ed è questo il motivo per cui alla fine ritornano e dicono: ‘l’hai rovinata, rovinata per sempre!’ (riferendosi alla poesia). E’ la poesia stessa che si vendica con il poeta. Ma, voglio dire, un uomo e un cammello che cantano, è ridicolo!… Un uomo e un cammello che appaiono all’improvviso! A dire la verità ho avuto l’immagine di un uomo e di un cammello e mi sono detto: ‘Come posso metterli insieme in una poesia? Cosa posso fare con un uomo e un cammello in una poesia?’ E così ho inventato questa piccola storia, che ho pensato fosse divertente. Ma il termine disillusione è troppo forte, non mi sento disilluso. A volte provo disillusione, ma chi no lo fa? Credo che se si leggono le mie poesie con più attenzione diventano sempre più divertenti.”
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Il mio nome
Una sera che il prato era verde oro e gli alberi,
marmo venato alla luna, si ergevano come nuovi mausolei
di strida e brusii di insetti, io stavo sdraiato sull’erba,
ad ascoltare le immense distanze aprirsi su di me, e mi chiedevo
cvosa sarei diventato e dove mi sarei trovato,
e quanto a malapena esistessi, per un attimo sentii
che il cielo vasto e affollato di stelle era mio, e udii
il mio nome come per la prima volta, lo udii
come si sente il vento o la pioggia, ma flebile e distante
come se appartenesse non a me ma al silenzio
dal quale era venuto e al quale sarebbe tornato.
Da: L’uomo che cammina a un passo avanti al buio Poesie 1964-2006 di Mark Strand, Oscar Mondadori, traduzione di Damiano Abeni
Mark Strand (1934) è nato a Summerside, nella Prince Edward Island (Canada). Vive a New York e insegna alla Columbia University. Uomo e cammello (Mondadori 2007) è la sua undicesima raccolta di poesie. Ha pubblicato anche un libro di racconti Mr and Mrs Baby, tre volumi di traduzioni, diverse antologie.
Ha ricevuto numerosi premi tra cui il Pulitzer per la raccolta di poesie Blizzard of One.
In Italia, oltre a tre plaquette per le Edizioni L’Obliquo sono disponibili due antologie delle sue poesie (L’inizio di una sedia Donzelli, 1999; Il futuro non è più quello di una volta, Minimum fax, 2006), un volume di scritti d’arte (Edward Hopper – Un poeta legge un pittore, Donzelli 2003) e la favola Il pianeta delle cose perdute (Beisler 2002).
Io non credo che questo sia un tempo senza immaginazione, si fa fatica certo a inventare, ma credo che sia un tempo dell’ ‘ascolto’ e dall’ascolto si ricavano molte cose; ciò che dobbiamo dire lo abbiamo già dentro di noi, anche perché è l’Universo che ci accompagna e noi ne facciamo parte, non siamo parte distinta, Mark è molto bravo in questo, dalla poesia letta ho capito che ha il dono di saper ascoltare e ‘vedere’, in un certo senso, tutto ciò che si trasforma in racconto, diciamo; l’uomo che si fa partecipe di un Universo proprio e lo regala in forma ‘rinnovata’. Ciao.
Certo che quando definisce la sua poesia comica, qualche dubbio lo solleva. Un motivo in più per rileggerla.
Caro Bruno,
Credo che Strand desideri fortemente perfezionare la teoria di Aristotele secondo la quale il ridicolo è “ciò che è fuori tempo e fuori luogo, senza pericolo”.
Strand lo dice nell’intervista, sperimenta ‘lo strano’, ‘l’inaspettato’, che nella sua poesia si traduce in un efficace mezzo di comunicazione essendo ‘lo strano’, ‘l’inaspettato’, qualcosa che ti proietta immediatamente in un mondo ‘altro’, straniante, appunto, ma anche mistico.
E’ vero… qualche volta – mi è capitato – ascoltando Strand leggere le sue poesie il pubblico ride, ma non come si ride a teatro quando si assiste a uno spettacolo comico!
Si ride perchè ciò che pone in essere Strand direi che è ‘tragicomico’- spesso la nostra vita è tragicomica… Ascoltando Strand si ride – qualche volta – per ciò che di così fortemente umano la sua poesia trasmette. Si, credo che si rida anche per questa ragione.
Strand poi, è uno straordinario interprete della sua poesia.
La particolare intonazione della voce, le pause prolungate, i silenzi improvvisi… Il suo ‘modo’, genera, di certo, anche ‘il riso’, ‘il sorriso’, ma emozionandosi, commuovendosi…
Si, si fa fatica a inventare. Forse solo per questo si può dire che l’immaginazione si è affievolita…
Quanto all’ascolto, credo che l’ascolto sia – o debba essere – la lingua della poesia.
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Ho trovato molto piacevole questa intervista anche perché offre spunti interessanti per (ri)scoprire e (ri)leggere le poesie di Mark Strand. Mi ha incuriosito l’aspetto della comicità nelle sue poesie. Personalmente non le trovo divertenti ma, come lui stesso suggerisce nell’intervista e come Luigia fa notare,forse bisogna leggerle con più attenzione e tra le righe. Io le trovo vitali e tristi, con questo fluire del tempo e insieme questa sospensione dell’attesa. Comunque la comicità ha sicuramente una componente irrazionale, e nessuna forma di scrittura meglio della poesia si presta a scoprire mondi misteriosi, emozionali e suggestivi. Credo che l’intervista abbia anche messo in evidenza differenti e nuove chiavi di lettura per “sperimentare l’irrazionale” ognuno secondo il proprio soggettivo punto di vista.
monica
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Una giovane donna di New York stava facendo jogging a Central Park. D’improvviso un importuno cerca di bloccarla prendendola alle spalle: prova innanzitutto a sfilarle documenti e portafogli. Non trovando nulla di interessante prova a sfilarle altra, dopo averla trascinata dietro il primo cespuglio avvistato. Lei che fa? Fisicamente inerme rispetto all’uomo, inizia a recitare a memoria una poesia di Mark Strand, suo poeta adorato. Il manigoldo, pensandola pazza, desiste e scappa. La poesia salva la vita. Lo stesso Mark Strand, Premio Pulitzer 1999 per la Poesia, lo ricorda sempre alle presentazioni dei suoi libri, anche in Italia.
Una cosa e’ certa. A Mark Strand piace ridere. E’ un po’ come mia madre che rideva quando gli altri piangevano od erano solo imbarazzati. Il riso e’ sempre fantastico e prolunga la vita. Il comico e’ la percezione di una situazione in un istante particolare. Mio padre non capiva la comicita’ che faceva ridere
a pieno cuore mia madre. A volte ridevo con lei ed il fatto che lui non capiva ci faceva ridere ancora di piu’.