Renato Gorgoni, “Al ritmo di putipù”


gorgoni1[1]Poesie trasversali

Prefazione di Emilio Isgrò

Ne sono trascorsi di anni dal mio primo incontro con Renato Gorgoni. Passavo per la Via Umberto I della mia città, Barcellona di Sicilia, quando vidi all’angolo con Corso Garibaldi uno di quei furgoncini carichi di libri che Einaudi mandava in giro per la provincia italiana nel tentativo di conquistare un pubblico a quell’epoca veramente pigro e sparuto.

Era l’inverno del 1954 e la mia città, dove io frequentavo il primo anno del liceo classico “Luigi Valli”, era piena di una polvere sabbiosa che un po’ saliva con il vento dal mare, un po’ scendeva dalle montagne argillose che si sfaldavano all’aria.

Quel furgoncino carico di opere di Pavese, Gramsci, Proust e altri grandi narratori dell’Ottocento portava tuttavia una luce allegra in un paese dove ancora si sentiva la tristezza delle case sbrecciate dai bombardamenti americani di dieci anni prima.

Di Renato ricordo la faccia da bambino e gli occhiali con le lenti a culo di bottiglia; e anche il soprabito, per la verità, che era uno di quei montgomery beige che facevano tanto “intellettuale impegnato”, anche se l’impegno di Gorgoni, come capirò in seguito, era sostanzialmente l’impegno di un uomo libero, non certo quello di un chierico.

Facemmo subito amicizia. Io diciassettenne, lui dieci anni di più. Quel distacco anagrafico, infatti, non era tale da creare disagio tra noi. Così che mi lasciai consigliare volentieri da lui per i miei primi acquisti librari: il teatro di Brecht e, soprattutto, i drammi andalusi di García Lorca nella bellissima traduzione di Vittorio Bodini.

Poi, per tanti anni, di Renato non ebbi più notizia. Finché, sbarcato a Milano per i miei studi universitari, lo ritrovai con la stessa faccia da infante e gli occhiali spessissimi e gravi ai tavoli del leggendario Caffè Giamaica, dove si riuniva la nuova intellighenzia italiana desiderosa di affermare una visione rivoluzionaria dell’arte e della letteratura.

Almeno due di quei personaggi li ricordo benissimo: l’argentino-brianzolo Lucio Fontana e il siculo-parigino Beniamino Joppolo, che con il mitico Lucio aveva firmato il Manifesto dell’arte spaziale. Tra quei tavoli Gorgoni si aggirava come fosse capitato lì per caso, e non diceva mai da dove venisse né dove andasse. Certo, tutti sapevamo che il suo curriculum era denso di cose e di eventi.

Fotografo, collaboratore di quotidiani prestigiosi e specialista di anglistica per Rizzoli e Bompiani: erano questi i suoi titoli. Ma lui non parlava mai di se stesso, come se il suo solo mestiere fosse quello di esistere senza pesare sugli altri. Leggero come erano in fondo le sue prime poesie apprezzate da Camillo Pennati, da Manlio Cancogni, Marco Forti, Peppo Pontiggia, Ermanno Rea e da tantissimi altri…

Ma era davvero un poeta insopportabilmente “professionale”?
O anche la sua poesia era un gioco della mente e del cuore?   
O meglio: lo sfizio di un viaggiatore che parte senza una meta da raggiungere?

Certo è che una volta mi affidai a lui (quando entrambi lavoravamo alla Rizzoli) perché mi accompagnasse a Fiumalbo dove era in corso un convegno di poeti visivi e altri artisti del genere. Gli chiesi preventivamente se sapesse dov’era Fiumalbo e lui mi rispose che era vicino Modena, ma restando inspiegabilmente nel vago. Così che partimmo alle otto di sera su una macchinetta blu, forse una Cinquecento, e tra una sosta e l’altra arrivammo a Modena che era già mezzanotte.

«Siamo arrivati» mi tranquillizzò Renato.
«Dov’è Fiumalbo?» domandammo al casellante.
«Lassù, tra le montagne…» rispose il casellante.
«Ormai è tardi» replicò Renato . «Chi ce le fa fare? È meglio tornare a Milano».

Con il risultato che mi sono perso la storica manifestazione Parole sui muri organizzata da Adriano Spatola nel segno della poesia concreto-visiva.

E questo, retrospettivamente, mi dispiace non poco, trattandosi di un vero e proprio vulnus nella mia carriera d’artista. Se non che, in quegli anni, le persone perbene alla carriera non ci pensavano neppure lontanamente, orgogliosi com’erano dei loro sublimi ideali di libertà e giustizia, nonché, ovviamente, della fame che ne conseguiva.

Il mancato viaggio a Fiumalbo tramutò d’altra parte in certezza il sospetto che già coltivavo da tempo: che Renato Gorgoni, al di là dei suoi mille, svariati mestieri, fosse essenzialmente un poeta. Certo non inscrivibile (come il suo amico Luciano Bianciardi) in una scuola o in uno schieramento. Ma poeta vero: silenzioso in apparenza, ma di fatto rumorosissimo.

Il che, a rileggerlo oggi, è ampiamente confermato da parecchie poesie pescate qua e là nelle discrete raccolte da lui pubblicate negli anni. In sordina, si capisce, ma pur sempre con un bisogno irresistibile di musica. Sicché una sua vecchia poesia intitolata Nitriti e nitrati (peraltro bellissima) secondo l’autore “è da interpretarsi con effetti sonori”.

Effetti che poi si traducono in grugniti, russìi, sbruffi di cavallo, borborigmi, scorregge e rutti coscienziosamente prescritti alla fine di ogni lassa. Si potrebbe sperare che almeno il fantasma evocato in un’altra composizione sia silenzioso e leggero. Ma quando mai! Anche questo se ne va in giro “con il suo pesante respiro/perché, come si sa, un fantasma/è un fantoccio che soffre d’asma”.

Darei un’idea sbagliata e riduttiva della poesia di Gorgoni, d’altro canto, se mi limitassi a segnalarne lo sberleffo e il pernacchio, magari fuorviato dal fatto che il poeta è napoletano. Condizione che non esclude la tenerezza che portano certi versi d’amore incastonati qua e là come rarissime perle. Come non sono esclusi, dall’orizzonte dell’autore, le citazioni un po’ calligrammatiche un po’ futuristiche (si pensi a Cangiullo) di una poesia come Aria.

Napoli, insomma, è la musa di un poetare solenne e ronfante anche ora che Renato ha scelto la Toscana come rifugio della mente e dello spirito dopo gli anni tumultuosi e folli trascorsi a Milano. Un rifugio dal quale il nostro folletto continua a sparare i suoi petardi con questo nuovo libro non meno rumoroso e avvolgente dei precedenti, Al ritmo di putipù, come se i viaggi per il mondo (e la moglie inglese) non riuscissero a tener fermi i mille diavoli tarantolati che il raffinatissimo, cosmopolita Gorgoni si trascina dentro e dietro da sempre.

Forse da quel giorno che lo conobbi nella mia terra di Sicilia: il sottoscritto diciassettenne, lui dieci anni di più, ma certo già libero e disponibile per un’idea d’arte e di letteratura capace di strattonare i versi compiaciuti di tanti suoi colleghi.

Anche in questa raccolta, per fortuna, non mancano le trappole e i versi velenosi come questi: “Acceso nel suo occhio grigiospento,/ma pallido di cera conformista/il babbeo virtuale internettiano/si bea di tasti, di tin, di com,/di cip, di chat, di web…”.

Tasti silenziosissimi, come si sa, tasti da clinica psichiatrica.

Se non che, quando più non ci speravo, timoroso che il mio carissimo amico Renato si fosse rassegnato al silenzio per ragioni anagrafiche, rinunciando per sempre ai suoi meravigliosi rumori, ho cominciato a leggere La febbre del sabato sera, con l’avvertenza che tale poesia “va letta, gridata, o bisbigliata con un sottofondo di stridìo di freni, fracasso da scontro frontale di auto, gorgoglìo di acqua, sirene spiegate”.

È su questa colonna sonora che agiscono i personaggi del libro: bizzarri elefanti, giraffe raffinate, signorine sdilinquite, segretarie pettorute, vecchietti cacciatori di ninfe e ninfette, e naturalmente lo stesso autore, “un poeta  amico/di una rima baciata/molto ben calcolata”.

Forse la rima fiore-amore, la più antica, difficile del mondo come diceva Saba. O forse un’altra rima ancora più difficile che riassume in sé il senso di tutta l’opera poetica di Renato: rumore-pudore…

È dal rispetto degli altri e dal pudore che, trasversalmente, vengono distillati i veleni di queste pagine. Ma perché mai, ora che la stessa politica si è fatta insopportabilmente “trasversale”, proprio la letteratura dovrebbe essere lineare e diretta?

È questa la domanda che il buon lettore si pone chiudendo il libro.

—-

Poesia, signorina mia sdilinquita,

            tramortita, aureolata,

            spiritualmente sfinita

            sublime anima lucidata

            trasparente con i languori

            sublimi della mente;

Maestrina mia, poesia,

            con veli d’anima vai

            palpitando fra la gente 

            che non legge niente

            elucubrata silfide

            agognata inutile

            perplessità di lirici

            tremiti verbali;

Seghetta mia, poesia,

            compunta eppur peccaminosa

            a volte masturbazione formale

            priva d’intuizione

            anale sfinterica

            carnale gassosa

            musa d’ombre e di sviolinamenti

                                           glandi glandi.

 

 *****

 

Acceso nel suo occhio grigiospento,

ma pallido di cera conformista

il babbeo virtuale internettiano

si bea di tasti, di tin, di com,

di cip, di chat, di web,

su facebook sorride ultrasmanioso

«eccomi sono vostro qui presente!!!»

ma se gli citi a caso

Tasso o Dante, gli accenni

a un tal Moravia o a John Fante,

gli bisbigli di Gadda e di Montale,

gli reciti un po’ di Orazio o di Marziale     

ti guarda vitreo con la mente invasa

dal vuoto della sua tabula rasa.

*****

Un certo Gorgoni

alla maniera di Palazzeschi

 

Son certo fluttuoso di sillabe

sparse, diverso in concerto.

Non sono un Leopardi,

né un Conte, né un Cucchi,

né un Porta o un Raboni.

Son forse un Caproni ?

Magari!

Più un vero me stesso

appartato poeta

un certo Gorgoni,

vissuto nei sogni nascosti o lontani,

nostalgici o arcani, nei salti segreti

di pazzi neuroni.

Sarò pubblicato ?

Ma no, che importa,

ho sbancato parole curiose

che vengono a caso,

mi son divertito ogni giorno;

in fondo ho giocato.  

*******

 

Noi poetucoli

 

 

C’è un cacopedico

rettile estetico

dandy satanico

bamboccio sfatto

nel nero anfratto

doppia puntuta

la biforcuta

sua lingua fetida

mostra venefica

ma noi pulcini

giallopiccini

capriolando

su storte sillabe

piene di uncini

smembriamo il mondo

zabbaionandolo

con nuovi succhi

densi di stecchi

con punte aguzze

di nuovi allucchi.

—-

Poesie tratte da: AL RITMO DI PUTIPÙ, di Renato Gorgoni, Samuele Editore 2013, collana Scilla, prefazione e copertina di Emilio Isgrò

http://store.samueleeditore.it

—-

Renato Gorgoni, originario di Napoli, vive a San Vincenzo in Toscana. Ha vissuto anche a Roma, e a Londra, quattro anni, dove è stato collaboratore della BBC, Italian Section.

Di ritorno in Italia, a Milano, ha lavorato in qualità di lettore di anglistica e traduttore per alcune case editrici, come Mondadori e Bompiani, e quindi, per alcuni anni, redattore di anglistica presso la casa editrice Rizzoli. Ha scritto l’introduzione a Il mago di Oz di L.Frank Baum (BUR Rizzoli, 1978). Ha curato la traduzione e scritto l’introduzione di Peter Pan nei giardini di Kensington di James M. Barrie ( BUR Rizzoli, 1981).

Si segnalano le sue raccolte di poesia: Gabbiani di città  (ExCogita editore, Milano 2000), Irrequieti fra la gente (Rubbettino, 2007), La balena Serafina, poesie per bambini (Tagete edizioni, 2009), Il vampiro di Valacchia, poesie per bambini o per adulti rimasti bambini (Tagete edizioni, 2011). Infine, nel dicembre 2011, ha pubblicato: Viaggio in Gran Bretagna, dalle isole Orcadi allo Yorkshire (Nexmedia edizioni, Campiglia Marittima). Poi nell’ottobre 2012, in formato eBook, sul sito www.amazon.com, Trofeo di guerra, 20 racconti. Del 2013, con Samuele Editore, Al ritmo di putipù con prefazione e copertina di Emilio Isgrò.

 

 

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