“La dolorosa radice del micondó”

 

conceicao[1]Dalla Prefazione di Chiara De Luca

Il micondó, è una varietà di baobab africano, che può raggiungere ventitré metri di altezza e vivere oltre duemila anni. Il suo ampio tronco costituisce una riserva d’acqua e le sue radici si spingono molto a fondo nel terreno. In questa raccolta di Conceição Lima, il micondò, che nella tradizione assume anche una valenza sacrale, diviene simbolo del profondo scavo a ritroso nella memoria lungo le proprie radici, per risalire all’origine di sé. […] L’intera raccolta è un inno alle radici, in cui Conceição Lima ripercorre la propria storia personale e familiare, che s’interseca con le vicende storiche che hanno scosso la sua terra, con le le piaghe e tragedie che l’hanno prostrata, dalla corruzione politica (“Pantufo”), allo sfruttamento e alla colonnizzazione (“Anti-epopea”),  dalla tragedia del Ruanda (“Ignominia”), al massacro di Batepá (“1953”), per poi volgere lo sguardo alla tragedia d’altri popoli (“Jenin”). Conceição Lima si addentra nel vetre della terra, scava a fondo nella storia del suo paese, disseppellendo scheletri, rievocando errori, sferzando con ripulsa e lucido sarcasmo l’ingiustizia e la tirannide, che hanno ovunque nel mondo il medesimo volto beffardo.

 

HASTE

 

 

Num certo campo de um ermo lugar

um caule dobra agora o dorso — verga

se lhe roça o ego da intempérie.

 

Em qualquer campo aquém do luar

num estreito canto de um país vulgar

o caule cede o dorso

se lhe bate a mão da ventania —

duplica na coluna o peso do próprio corpo.

 

Soergue depois a inclinação da linha

e retoma o vertical instinto de sua raiz —

permanece.

 

*

STELO

 

 

In un certo campo di un luogo deserto

uno stelo china ora il dorso – architrave

se lo sfiora l’ego delle intemperie.

 

In qualche campo di qua dal chiaro di luna

nell’angusto canto di un paese volgare

lo stelo cede il dorso

se lo batte la mano della bufera –

raddoppia nella colonna il peso del proprio corpo.

 

Raddrizza poi l’inclinazione della linea

e riprende il verticale istinto della sua radice –

permane.

 

 

 

*

 

O VENDEDOR

 

 

Os olhos vagalumem como pirilampos

no encalço dos fregueses

 

Do fio que é a mão

esvoaçam sacos de plástico

precários, multicores balões

 

A Feira do Ponto é o seu pátio.

 

Ao fim do dia, parcimonioso,

devolve a bolsa das moedas a um adulto

e recupera a idade.

 

*

IL VENDITORE

 

 

Gli occhi baluginano come lucciole

all’inseguimento dei clienti

 

Dal filo che è la mano

svolazzano sacchetti di plastica

precari palloncini multicolori

 

La Feira do Ponto è il suo cortile.

 

A fine giornata, parsimonioso,

consegna la borsa delle monete a un adulto

e recupera la propria età.

 

*

IGNOMÍNIA

 

 

Enquanto o fio da catana

avançava sobre o medo encurralado

o mundo espreguiçava uma palpebra —

hesitava.

 

E quando o olho da camâra

desventrou enfim o silêncio

um metódico vendaval avermelhara

para sempre as águas e os campos.

 

As consciências

que no universe o caos ordenam

instauraram a urgência dos relatórios

e a estatística dos esqueletos.

 

Ruanda ainda conta os crânios dos seus filhos.

 

*

IGNOMINIA

 

 

Mentre il filo del machete

avanzava sulla paura asserragliata

il mondo stiracchiava una palpebra —

esitava.

 

E quando l’occhio della telecamera

sventrò infine il silenzio

una metodica bufera aveva arrossato

per sempre i campi e le acque.

 

Le coscienze

che nell’universo ordinano il caos

instaurano l’urgenza dei resoconti

e le statistiche degli scheletri.

 

Il Ruanda ancora conta i crani dei suoi figli.

 

*

JENIN

 

 

Os bulldozers partem sem fanfarras.

Arrastam na poeira as tiras das sandálias

e o pavor nas asas das galinhas

No seu rasto agonizam as palavras

e o bíblico rosto das oliveiras

 

o fémur que perfura os escombros

está morto, não tem nome

É uma estaca de marfim

que brilha

amargamente na terra de Jenin

 

Amanhece em Berlim, outro lugar

Não na Libéria ou nos fields de Freetown

Não no refúgio de Jenin ou em redor de mim.

 

 

*

JENIN

 

 

I bulldozer partono senza fanfare.

Trascinano nella polvere le fasce dei sandali

e la paura nelle ali delle galline

Sulla loro scia agonizzano le parole

e il biblico volto degli ulivi

 

il femore che perfora le macerie

è morto, non ha nome

È un palo d’avorio

che brilla

amaramente nella terra dello Jenin

 

Albeggia a Berlino, altro luogo

Non in Liberia o nei field di Freetown

Non nel rifugio dello Jenin o attorno a me.

*

A MÃO

 

 

Toma o ventre da terra

e planta no pedaço que te cabe

esta raiz enxertada de epitáfios.

 

Não seja tua lágrima a maldição

que sequestra o ímpeto do grão

levanta do pó a nudez dos ossos,

a estilhaçada mão

e semeia

 

girassóis ou sinos, não importa

se agora uma gota anuncia

latente odor dos tomateiros

a viva hora dos teus dedos.

 

*

LA MANO

 

 

Prendi il ventre della terra

e pianta nel pezzo che ti pare

questa radice innestata di epitaffi.

 

Non sia la tua lacrima la maledizione

che sequestra l’impeto del seme

solleva dalla polvere la nudità delle ossa,

la mano frantumata

e semina

 

girasoli o campane, non conta

se ancora una goccia annuncia

latente l’odore dei pomodori

l’ora viva delle tue dita.

 

*

A OUTRA PAISAGEM

 

 

Da lisa extensão dos areais

Da altiva ondulação dos coqueirais

Do infindo aroma do pomar

Do azul tão azul do mar

Das cintilações da luz no poente

Do ágil sono da semente

De tudo isto e do mais —

a redonda lua, orquídeas mil, os canaviais —

de maravilhas tais

falareis vós.

Eu direi dos coágulos que mineram

a fibra da paisagem

do jazigo nos pilares da Cidade

e das palavras mortas, assassinadas

que sem cessar porém renascem

na impura voz do meu povo.

 

*

L’ALTRO PAESAGGIO

 

 

Della liscia estensione delle dune

Dalla maestosa ondulazione delle palme da cocco

Dell’infinito aroma del melo

Dell’azzurro tanto azzurro del mare

Dello scintillio di luce dei tramonti

Del vigile sonno delle sementi

Di tutto questo e di più –

la rotonda luna, orchidee a migliaia, i canneti –

di meraviglie taciute

parlereste.

Io direi dei coaguli che minano

la fibra del paesaggio

della tomba nei pilastri della Città

e delle parole morte, assassinate

che incessantemente rinascono comunque

nell’impura voce del mio popolo.

.

Traduzione di Chiara De Luca 

.

Da: “La dolorosa radice del micondó” di Conceição Lima, Kolibris 2014,  € 12

Conceiçao Lima: Nata a Santana, isola di São Tomé, São Tomé e Príncipe, l’8 dicembre 1960, ed è cresciuta nel suo paese, dove ha svolto gli studi primari e secondari. In seguito ha studiato giornalismo in Portogallo. Nel 1993 ha fondato il settimanale – oggi estinto – «O País Hoje», di cui è stata direttrice. Si è diplomata in Studi Africani, portoghesi e Brasiliani al King’s College di Londra e ha ottenuto un Master in Studi Africani, con specializzazione in Governo e Politica in Africa presso la Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra (SOAS). È stata per diversi anni giornalista e produttrice dei servizi in lingua portoghese della BBC a Londra. Tornata nel suo paese, ha diretto la TVS, Televisão São-Tomense. Attualmente lavora come giornalista free-lance e collabora con diversi periodici. Per la casa editrice Caminho di Lisbona ha pubblicato, nel 2004, O Útero da Casa, nel 2006 A Dolorosa Raiz do Micondó e nel 2011 O País de Akendenguê. Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, inglese, francese, italiano, serbo-croato, turco e arabo.

Sue poesie sono sparse in giornali, riviste e antologie di vari paesi.

 

COVER_CONCEICAO[1]

 

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