Mario Ramous

Mario Ramous

il gran parlare incipit di morte
là sul ponte che brulica di gente
dove epilogo non prevede inizio
che mai in vita si sia esistiti

sulle travi si porta il cadavere spoglio
dei discorsi distrutti dall’ansia di dire
come fuoco che troppo di fiamma s’innalza
esaurendo la forza nascosta nel ceppo
collocate sono le voci in muti loculi
per quella maledetta foia occidentale
di assegnare una schedatura ad ogni cosa
che ne definisca un significato solo
tamburo di un esilio che desta frontiere
come ciminiere di civiltà estinte
ma tra le macerie la lingua è sconosciuta
nei figli si crescono destini di morte
e le parole perdono mummificate
l’imprevedibilità dei dirottamenti
che ne assicurano qualche sopravvivenza
in unità diverse ma riconoscibili
così che inoltrandoci fra loro ogni lume
si omologa con gli altri a formare necropoli
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Jorie Graham

Jorie Graham

CAGNES SUR MER 1950

Sono l’unica a ricordare
la voce di mie madre nell’ombra particolare
dell’arco romano ricolmo di cielo
che oscura le pietre sulla strada in discesa
da dove lei ora risale all’improvviso.
Come l’arco, la voce e l’ombra
violentamente afferrano il piccolo triangolo
della mia anima, un film muto dove note di piano
diventano un corpo impazzito
per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui
si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo
rileggo il libro del tempo,
il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui
natura non so rintracciare – o la forma – o l’origine –
prendo la creatura e la riporto
sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa
e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima –
che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto
quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ropercorro
quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie,
stupori – che io non sprechi gli stupori –
che non uccida per errore fratello, sorella – mi
siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio,
macchia scura dove una storia non diventa ancora un’altra,
e parole, non giunte a me ancora, ancora non proveranno a dirmi
da dove vengono le cose, né dove vanno,
dove risplenderà il flusso dell’inclinazione
nella sua veloce discesa. E mi sembrerà
tutta una leggenda,
una di quelle in cui non c’è modo di voltarsi indietro
ma voltarsi si deve, pagando sì, ma voltarsi si deve…
Era d’estate in un paese in collina al sud.
Era prima che io conoscessi la conoscenza.
La mente correva ovunque e restava immobile al centro.
E non era scomodo.
Un uccello cantò, si aggiunse all’ombra
sotto l’arco.
Penso da questa distanza
che ero felice.
Penso da questa distanza.
Ero seduta. Era prima di saper camminare.
Solo la mia anima camminava ovunque senza peso.
Dove declinava la strada tutto spariva.
Proprio come immaginavo dovesse accadere.
Apparire e sparire.
Nella mia unica vita.
Quando s’avvicinò la voce di mia madre aveva un corpo.
Aveva braccia e abbracciavano qualcosa
che doveva essere un cesto. La mia mente ora
può girarle intorno, e davanti, e avvolgerla
come le sue braccia avvolgevano quel cesto.
E doveva essere di vimini
perché nella luce vedo molte sfumature di marrone, le punte bianche
quando esce dall’ombra
dove non si vede nulla eccetto le sue mani
e il suo portare. E quando il suo corpo arriva
arriva con tanti limoni tutti illuminati, interamente avvolti nel sole,
che il pesante cesto ancora contiene,
e le sue unghie brillanti intrecciate,
e lo sguardo sul viso mi cerca,
sguardo simile a quelle cose brillanti che portava
davanti, un nuovo ventre.
Tutto ciò che avrei inventato in questa vita è la nel cesto di vimini fra i limoni.
Venuto da sotto l’orizzonte, da dove sale il rumore del mercato
su all’intima aria dove lei si muove,
dove lei è ancora una donna intera, una donna di volontà,
e io sento gridare quel che devono essere prezzi e nomi
di fiori e frutta e carne e animali chiusi in piccole gabbie,
tutto sotto di noi, dal fondo del villaggio, da quella parte
per me così comoda che è invisibile,
dove ogni cosa deve essere venduta per mezzogiorno.
Penso fosse in quel momento che mi fu dato il mio nome,
quando ho sentito la prima volta i prezzi portati dalle voci
mentre la sua faccia s’apriva in un sorriso chinandosi verso di me
per dire eccoti, eccoti.

(traduzione di Antonella Francini)

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25 poesie per l’infanzia e non solo

Evelina De Signoribus

Creare un incontro

Poeti in classe” nasce dall’idea di creare un incontro: quello tra i bambini, la poesia e chi la scrive. Per creare questa possibilità ciascuna sezione del libro corrisponde alla voce di un poeta che prima, in prosa, si presenta e racconta il modo in cui ha incontrato la poesia; poi dona al lettore/ascoltatore alcuni suoi versi, anticipati da un breve commento, che funziona come continuazione del dialogo e possibile guida alla lettura del testo. Le voci dei poeti, tra loro assai diverse tanto nelle parti in prosa quanto nei versi donati, sono accomunate dall’idea di rivolgersi al pubblico bambino quale è: meritevole di vera letteratura, esigente, curioso e desideroso spesso di sperimentare quel che fa la buona poesia: crea infatti un legame tra chi legge e chi ascolta, inizia al suono delle parole e al ritmo del verso o della frase, apre ad un linguaggio che è anche e non solo interiore, aiuta a conoscere se stessi e gli altri. Continua a leggere

Alperoli/ Bertoni/ Rentocchini, “Come cani alla catena”

dall’introduzione di Marco Santagata

Rieccoli, eccoli di nuovo qui i tre poeti di Recordare. E però, quanto mutati da quelli! Per sei anni – tanti ne sono passati da quella raccolta – ciascuno dei tre ha seguito la sua stella lungo una rotta che non solo lo allontanava dal porto di partenza ma che anche lo divideva sempre più da quella degli altri due. E così, adesso, il loro ritrovarsi in uno stesso porto a tutta prima ha un po’ l’aria di un appuntamento al quale si è voluto mantenere fede, diciamo, un debito pagato all’amicizia, un modo per non perdersi di vista. Tuttavia si sa che le prime impressioni sono quasi sempre ingannevoli. Continua a leggere

Ben Lerner, “Odiare la poesia”

Author Ben Lerner visits the the Metropolitan Museum of Art in New York, Aug. 5, 2014. Lerner, the poet turned novelist, was at the museum to visit the painting at the heart of his new novel, (Jake Naughton/The New York Times

Traduzione dall’inglese di Martina Testa

Ben Lerner scruta i sentimenti che abbiamo per la poesia come punto di partenza per una difesa del mondo dell’arte. «Odiare la poesia è una grande critica del genere poetico, e una delle sue difese più appassionanti» (Bookforum).

Nessuna forma d’arte è stata denigrata quanto la poesia. Gli stessi poeti sono i suoi primi critici, e sembra esistere una sorta di condivisa sprezzatura, come di fastidio per la sua presuntuosa inutilità. «Io stesso» ha ammesso Ben Lerner «la detesto pur avendo organizzato la mia vita sulla poesia. Non considero questo una contraddizione perché la poesia e l’odio per la poesia sono fusi insieme ed è questo che voglio arrivare a spiegare». Continua a leggere