Giancarlo Pontiggia, “Il moto delle cose”

Giancarlo Pontiggia / Credits ph. Dino Ignani

L’incontro con la poesia di Giancarlo Pontiggia è una scintilla.
“Il moto delle cose” proviene dalla suggestione e dal suono delle parole, che vengono letteralmente messe alla prova, usate, ripetute, evitate, in modo da intrappolare quel luogo dell’umano in cui nessuno è mai stato, ma che tutti noi conosciamo.
Le poesie nascono dall’attesa fiduciosa della misura giusta per poter dire, quello nel quale la parola, con il suo suono e il suo senso, riesce a farsi pienamente carne, cielo, pioggia, Natura. Il tratto distintivo di Pontiggia è una parola poetica naturale, una voce che sgorga limpida e nuda, priva di intellettualismo. E’ una voce antica, come l’eco di un sussurro che solo il poeta riesce ad intercettare e, in qualche maniera, a restituirci.

La parola è dunque un segno salvato dal tempo, un faro luminescente capace di illuminare, seppure in brevi istantanee, spaccati di quell’altrove che abita la mente dell’uomo da sempre e che affraterna gli individui nella storia.

Ne viene fuori un’opera sapientemente bilanciata, accorata, ma di un sentimento tanto scavato e definitivo quanto misurato e composto. Questa formula mi ha ricordato un passo del libro “Memorie di Adriano” di M. Yourcenar, quando Adriano fa riferimento a quella acquiescenza, alla vita che va assecondata come i movimenti di un destriero, dopo che esso sia stato addestrato meglio possibile. Una difficile ma portentosa conciliazione tra l’adesione ad un addestramento e la libertà di eluderlo, sottomissione e libertà. Al tempo stesso, un’estetica del necessario, un verso misurato, funzionale e in questo, luminoso e nutriente.

Le parole sono “poche ma vere” e capaci di far sentire in modo saldo e appassionato l’appartenenza dell’individuo ad un mondo di cui non conosce le leggi.

La prima poesia della raccolta, meravigliosamente autosufficiente quasi come fosse l’intero viaggio del libro in scala, propone una sorta di dialogo tra la vita stessa e l’io parlante che cerca di indagarla. Ma essa ” va per una strada che non conosco, va dove non è/altro che lei, che loro, lì nella gran fossa/ del firmamento”. Tra l’altro è la vita stessa a chiedere all’uomo di dire “qualcosa che valga”. Per arrivare a qualcosa che valga si deve guardare in luoghi non ben definiti, forse nel sonno della mente, dove le cose si celano e “il verbo s’intana”. La lingua sembra essere incapace di catturare il messaggio cruciale, che resta indecifrato. La lingua è di “troppo gelo” per il materiale incandescente e metamorfico che dovrebbe ingabbiare, eppure sentiamo delle vibrazioni, qualcosa che ci richiama da molto lontano. Come per tutti i grandi scrittori, le parole di Giancarlo Pontiggia sembrano riuscire a riprodurre l’universo che evocano in uno spazio, come un’immaginaria quarta dimensione che sovrasta il reale, innestandosi su di esso e integrandolo segretamente. Gli “urti” a cui l’autore fa più volte riferimento nel libro, sono percosse conoscitive, punti di contatto tra i due mondi che a volte si toccano, producendo una strana forma di frammentaria e malinconica conoscenza.
Quel qualcuno che “esce/ dalla vita animale, dice/ io, non teme/ la morte, e scompare, in un tripudio di nomi” viene letteralmente gettato nella prigionia del vivere e mai potrà recuperare negli occhi “l’aperto” della creatura di cui ci parlava Rilke nell’ottava elegia duinese, anzi gli occhi sono trappole ad accerchiare la sua libera uscita. Perso questo stato di grazia, non resta che mettersi in ascolto e decifrare i minuscoli frammenti, infinitesimali e totali, e custodirli.

Questo è in fondo il compito della poesia: custodire con un canto. Il canto è imprescindibilmente legato ad un’idea di armonia e di bellezza ed è il premio di un’attenzione, di una riflessione calma. Pontiggia è maestro di questo approccio ed è salvo da ogni forma di ideologia o forma a priori. D’altronde come potrebbe mai un’anima che proviene da “un punto smemorato del mondo”, e che “s’infiamma nella materia” avere delle coordinate aprioristiche? Come potrebbe la visione di questo “agitìo di corpi, forme, ombre” portare un superbo messaggio univoco e imperativo?
La condizione dell’umano fa tanta tenerezza, sospesa com’è tra la vita e la morte, tra la gioia e il dolore, tra tutti i contrari.

L’immagine con cui il libro si chiude, quella del tuffatore della tomba di Paestum è l’alfa e l’omega della raccolta poetica. L’uomo è descritto un attimo prima del salto estremo: alle sue spalle “l’antico bulicame delle cose”. Un dubbio e poi il salto “in un’ardesia di fuoco”, in una roccia nera, in una tomba che ha nel suo nome la vertigine del passaggio.

Chi attraversa queste pagine, ha la sensazione di aver seguito per mano un viandante che ha saputo penetrare l’estate e l’inverno, che si è fatto bosco, lupo e preda e che è nato e forse è morto incarnandosi in qualcosa che sappiamo già, ma che non sappiamo ancora.

Federica Giordano

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