Susan Stewart, “Ottave”

Susan Stewart

Natureingang

Almost May, the solitary fisherman
holds up two brown trout
on a stringer: “breakfast” he smiles around
his mask. Yanked from the eddies, scuds and caddis
flies, unfurling, by the banks, trillium,
skunk cabbage. The here and now of starts
and stoppages. One day this song will be merely
puzzling. What did they mean by a mask? they’ll say.

Natureingang

Quasi Maggio, il pescatore solitario
sorregge due trote fario
su un gancio: “colazione”, sorride di lato
alla maschera. Strappate da gorghi, gamberi e tricotteri
alati, dischiusi presso le sponde, trillium annuenti,
lanterne di palude. Il qui e ora di ripartenze
e fermi. Un giorno questo canto sarà meramente
sconcertante. Cosa intendevano con una maschera? diranno.

*

Isaiah

The wolf will live with the lamb, the leopard
lie with the goat. It’s written in stone
and onion skin. The lion will eat straw,
the snake will eat dust. It’s prophesied
in ball point on the palm of your hand.
The date has been fixed for the wedding:
the guests will gather, and mill, and disperse
there beneath the dimmed marquee.

Isaia

Il lupo abiterà con l’agnello, il leopardo
giacerà col capretto. Il leone si nutrirà di paglia,
la serpe si nutrirà di polvere. Ѐ profetizzato
nella penna a sfera nel palmo della tua mano.
L’appuntamento è stato fissato per le nozze,
gli ospiti si aduneranno, e vagheranno, e si disperderanno
là sotto il tendone dalle insegne a luci spente.

*

I guess you say

Static soft as snow, noise emptied
of sound and the sirens quenched
for an hour. A meteor falling into
radio waves, burning through the breath
of this world. I’ve got a sweeter song
says the song than the birds in
the trees. Turned up, up too loud.
What can make me feel this way?

Immagino tu dica

Interferenze ovattate come neve, rumore
svuotato di suono e le sirene spente
per un’ora. Una meteora finisce nelle
onde radio, ardendo attraverso il respiro
di questo mondo. Ho una canzone più dolce
dice la canzone degli uccelli tra gli
alberi. A tutto volume, troppo alto.
Cos’è che mi fa sentire così?

*

Lucretius

Thus you will learn these things,
and with little effort on your part.
One thing will clarify another,
and dark night will not rob you of
your way, and the sun will not blind you,
or the river drown you, until you see
deeply into the final rule of nature.
So things will illuminate other things.

Lucrezio

Queste cose così apprenderai,
e con poca fatica da parte tua.
Una cosa ne chiarirà un’altra,
e la notte oscura non ti priverà del
tuo cammino, e il sole non ti accecherà,
o il fiume ti sommergerà, finché vedrai
in profondità la regola finale della natura.
Così le cose illumineranno altre cose.

(traduzioni di Maria Cristina Biggio)

Laboratorio Susan Stewart—Osip Mandel’štam

Nell’alveo della creazione quale “sete della terra vergine del tempo”—secondo la definizione di Osip Mandel’štam—scorrono e ri-corrono queste brillanti re-invenzioni di Susan Stewart, specchiate sulle Ottave del poeta russo intanto che scavano con maestria nuovi alvei di significato. Affacciate alla finestra magnetica e insieme dolente delle “poesie sulla conoscenza”—così Mandel’štam chiamava le proprie Ottave—le ri-creazioni stewartiane si abbeverano alla fonte materiale esplorata-analizzata-toccata-sofferta-amata-intuita per squarci, proprio quando l’involucro protettivo delle singole parole si schiude, lasciando trapelare l’interno seminale nel suo movimento dalle linee del tempo all’atemporalità. In quello stesso movimento si innesta la forza esemplastica dell’Immaginazione (Coleridge), che permette alla poetessa di filtrare e forgiare nuove forme organiche viventi entro un tempo spazializzato ogni volta in otto versi, che preleva del tempo dalle Ottave, facendone una fenomenalità indipendente che tiene musicalmente il tempo per noi e per lo stesso Mandel’štam. Il poeta di Varsavia — dopo gli anni di fame, paura, persecuzione, fughe, censura, arresti, interroggatori, tentativi di suicidio, deportazione, che hanno segnato la quasi leggera morte della sua vita raminga, itinerante, randagia—viene finalmente accolto entro il luogo della poesia e nel prediletto gerundivo latino: “Voglio vivere nel participio imperativo del futuro, forma passiva – nel dovente essere”, diceva il poeta. In quel gerundivo che “è la forma mediale del futuro passivo”, ricorderà Celan, suo prezioso lettore, sottolineando come “la sua poesia ponga interrogativi all’ora presente, sia la propria sia quella del mondo, al battito del cuore del secolo. Che è come dire in quale misura la poesia di Mandel’štam, la poesia di uno scomparso ora riemerso dal suo abisso, riguardi oggi tutti noi”.

Entro le Ottave originali, scritte in gran parte nel 1933—quasi contemporaneamente all’epigramma contro Stalin e poco prima dell’arresto e il confino nel campo di Voronež, quando Mandel’štam era già un uomo cui la sorte “aveva serbato di attraversare e vivere la propria morte” (A. Achmatova)—le rielaborazioni di Susan Stewart tentano di rinegoziare il contratto tra la parola del poeta russo, le sue acrobazie metriche, le sue allusioni erudite, e il nostro smemorato mondo contemporaneo. Ricordandoci così il valore relazionale oggettivo, non elegiaco-sentimentale della memoria, in un tempo funestato dall’ira di un Covid-19 globale e da altre pestilenze che aleggiano tra disastrosi cambiamenti climatici, confinamenti-ripartenze-fermi, che vanno di pari passo con il violento insulto al pianeta e alla bellezza di una primavera nonostante tutto in fiore.

Con l’incipit primaverile Natureingang — la prima di una più ampia e ben articolata serie di Ottave — la trobairitz statunitense apre il tema caro alla poesia trobadorica provenzale, domandandosi e domandandoci se sussista ancora l’unità di grazia-amore-natura-armonia-musica. Se, sia pure secolarizzato, qualcosa di divino permanga ancora tra noi e se l’amata, benché donna terrena, possa ancora spargere intorno a sé l’in-canto della poesia, l’idillio dove tutto è attraversato dall’estrema tensione dello straordinario che penetra l’ordinario. Accompagnandosi alle voci di Lucrezio e Isaia e alle parole di una vecchia canzone, I guess you say dei Temptations, mandata a tutto volume da un’auto in sosta nella città deserta per il lockdown, Susan Stewart sembra ripeterci sottovoce le parole di Agostino: Amo, volo ut sis (Amo, voglio che tu esista), come se fossero parole trobadoriche da aggiungere a un più vasto canto liturgico, a una melodia preesistente da preservare nella coralità del mondo e della cose.

[Del fitto intreccio intertestuale operante nelle proprie Ottave, Susan Stewart mi dice:

“Stavo leggendo Occupation Journal di Jean Giono [importante rappresentante della letteratura francese del ‘900 e portavoce culturale dell’Alta Provenza. Acuto interprete del rapporto uomo-natura, Giono affrontò i temi del pacifismo, delle dittature e dei nazionalismi. Traduttore delle principali opere di Machiavelli, appassionato di Omero e Virgilio, lavorò per tre anni alla traduzione di Moby Dick, ma venne arrestato pochi mesi prima della sua pubblicazione. Scrisse Occupation Journal durante gli anni dell’occupazione della Francia da parte dei nazisti. N.d.t.] e le sue brevi, profonde considerazioni mi hanno fatto pensare che, in un’emergenza, il solo modo di essere utili è riflettere sulle peculiarità della vita attorno a noi, per cercare di cogliere ogni giorno qualcosa di significativo, ed essere in sintonia con tutte le forme della natura umana che emergono.

Mi tornarono in mente le potenti Ottave di Mandel’štam, con le loro rime interne e i mutevoli modi di rapportarsi agli altri, e la sua attenzione ai dettagli del presente mentre ne valuta anche la cultura, e pensai che avrei cercato di scrivere in quella sua forma. Intanto leggevo anche Lucrezio sui processi nascosti della natura e Baudelaire su Le folle (Lo Spleen di Parigi).

Gli otto versi in inglese tendono a dividersi in quartine binarie e hanno qualcosa della forma-sonetto (e, allo stesso tempo, somigliano a delle ottave mancanti dei loro sestetti).”]

(Maria Cristina Biggio)

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