Marco Marangoni, da “Sentimentalissima luce”

Marco Marangoni

                      A G. Pontiggia

Io vivo in una traversa
di via Vincenzo Monti – che è un po’ più lunga – …
ma abito in una via,

l’unica di Milano dove c’è soltanto una casa, la mia
……………
***

Maria Zambrano scrive
che c’è un presente perfetto
nella parola che ferma il tempo
ma senza far che diventi
immobile, stella fissa
(senza desiderio);
presente invece
che si installa
in quel che conta
(e che ieri non ti ho detto);
rito del bosco
e del sole,
del tramonto (…) remo che sembrava
spezzato
luce declinante tra gli alberi
freccia che vuole al centro del verbo

***

L’abbiamo capito una sera,
misurando e osservando le piante,
quel brocco di soli andati e di nebbie
che in settembre facevano vedere
(come sotto un velo)
il frutto d’oro delle mele.
Abbiamo parlato a lungo,
ma il mestiere e l’arte restavano indietro,
dove la proprietà finiva in ciascuno,
e c’era un senso che non era meglio alberi
e non era di nessuno.

***

Se non ci fosse un sogno più reale
e questo non fosse il fratello, in luce,
della morte…
da dove mai i canti e i nodi
e gli ordini
che insieme tengono le voci
e il cigolio dei cardini?
c’è un passaggio
in fondo ai segni
e a tutte le porte
che indica il doppio
del tuo stato (alterno), dell’alterna
tua sorte

da: Sentimentalissima luce, Punto a capo editrice, 2021

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Una poesia di Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci

PICCOLA ODE A ROMA

a P. P. Pasolini

Ti ho veduta una mattina di novembre, città,
svegliarti, apprestarti un altro giorno a vivere,
alacri fumi luccicando ai pigri margini orientali
percossi dalla luce tenera come un fiore,
argenti di nuvole più sopra infitti nell’azzurro
offuscandosi per brevissimi istanti, suscitatori di tremiti,
e risfolgorando a lungo, poi che il bel tempo è tornato
e durerà, se è neve quel viola lontano
oltre i colli che ridono di borghi noncuranti
le mortificazioni dell’ombra, poi che il sole ha vinto, o vincerà.
Tu eri viva alle nove della mattina,
come un uomo o una donna o un ragazzo che lavorano
e non dormono tardi, hanno gli occhi
freschi attenti all’opera assegnata,
nell’odore di legno bagnato e di foglie bruciate
o in quello amarognolo degli alberi sempre verdi
che crescono sui tuoi fianchi e si vedono dall’altura
per cui io scendo inebriato ai ponti
fitti di gente in transito, da qui silenziosi e bianchi
come ali d’uccello a pelo dell’acqua giallina.
Io penso a coloro che vissero in questa plaga meridionale
scaldando ai tuoi inverni le ossa legate da geli
senza fine in infanzie intirizzite e vivaci,
a Virgilio, a Catullo che allevò un clima già mite
ma educò una razza meno arrendevole della tua
e perciò soffrì, soffrì, la vita passò presto per lui,
passa presto per me ormai e non mi duole come quando
le gaggìe morivano a poco a poco per rifiorire
il nuovo anno, perché qui un anno è come un altro,
una stagione uguale all’altra, una persona all’altra uguale,

l’amore una ricchezza che offende, un privilegio indifendibile.

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Andrea Zanzotto, da “Vocativo”

Andrea Zanzotto

FUISSE

Pace per voi per me
buona gente senza più dialetto,
senza pallide grandini
di ieri, senza luce di vendemmie,
pace propone e supremo torpore
l’alone dei prati, la cinta
originaria dei colli la rosa
dispersa il sole
che morde tra le tombe.
Ah la cicuta e il poco
formicolio, non più, colà sepolto.
Ah l’acqua troppo tenue che mi cola
oltre la gola e gli occhi al di là s’invischia
in tiepidi miseri specchi
su cui l’ortica insuperbisce.
Ed ah, ah soltanto, nei modi
obsoleti di umili
virgili, di pastori castamente
avvizziti nei libri, nella conscia
terrena polvere,
ah ripeto io versato nel duemila.
– Ah – risuona il colloquio
in eterno sventato,
dovunque io passi, ovunque
l’aria mai sfebbrata mi sospinga,
la selva m’accompagni
e impari la vicenda non umana
del mio fuisse umano.
Futura età, urto di pietra
sulfureo sangue che escludi
che intellegibili fai questi
fiori e gridi ed amori,
non-uomo mi depongo
ad attenderti senza nulla attendere,
già domani con me nel mio fuisse,
pieghe tra pieghe della terra
cieca ad ogni tentazione d’alba.

da: Vocativo, (1957) Continua a leggere

Una poesia di Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli

Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.

Vita meravigliosa (Einaudi, 2020)

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Francesco Accattoli, “La Mar”

Francesco Accattoli / ph. Vito Panico

da: Natanti

L’odore è piantato nel freddo.
Sulla balza del porto
si asciugano le strade, le case bianche.
I gatti dietro i vetri, nessuno
per strada, fuorché il mare.
A volte il dolore della febbre
sale, a volte il nulla arriva
come pioggia, è un nulla
vegetale, verde, vivo,
vicino al molo nel pieno del nord.

Il mare si crepa d’angustia,
non vale lo sforzo di ricucirlo.
Le maglie hanno ceduto.

***

D’inverno i granchi dormono
tra gli scogli, per le ossa è un inferno.
Scendo, a volto scoperto,

nel nord che ci fa il mare grande.
Lo guardo farsi trama, ascolto
i cambi d’intonazione. Le parole

hanno il passo delle maree.
D’improvviso il silenzio sul bianco,
come un tappeto d’organza.

***

A fine corsa, due nuvole
di storni, plasmate da un levante
che mischia le onde e le deforma.

Crepe di creta nella falesia.
L’inverno a guardare il cielo.

***

A meno che non si dica di andare
lì dove si raccolgono i vènti,
chiedere in ginocchio che si calmi
il suono che percuote le porte, che trattiene
il passo sulla terra fermo e gravi
il peso del pianeta;

a me prende il male di parlare
a meno di un miglio dalla costa.
Laggiù sono stati lampi tutta la notte,
di qua luci a mala pena, mogli
piccole case. Io sto di guardia,
che non ci fuggano dalle reti.

***

Si svegliava e prima del caffè cercava il mare con lo sguardo. Era un rito tutto umano, lo faceva prima ancora di parlare. Il mare era stato con lui nel letto, le reti si erano mosse durante la notte, la febbre della terra lo coglieva al primo sonno. E si trovava a camminare sull’asfalto, salire nel cemento, fino al terrazzato, sentire duro sotto i piedi e sbattere di porte in una bora ingrata. Tirava calci avvolto nella tela, tendeva le gambe, cercava la sentina, il fondo sudicio di cherosene. Con entrambe le mani lo sentiva sdraiarsi sulla chiglia, compiere l’amplesso della mareggiata. Sudavano le persiane un cigolio di pescatori, schiumava il tanfo della notte sulla terraferma.

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