Dall’Introduzione di Giancarlo Pontiggia
Forse bisognerà cominciare da uno qualsiasi dei cinque, splendidi pezzi che compongono l’Autoritratto, per comprendere questo libro impervio, in cui la severità del pensiero si sposa al fulgore analogico, la quieta lentezza del verso è scossa da improvvisi trasalimenti, la materia del sogno irrompe improvvisa – come uno scandaglio – nella massa inquieta delle sensazioni, esaltandone la potenza conoscitiva. Parole disadorne, spoglie di ogni retorica, affondano nella propria notte, procedono – per pura tensione iterativa – incontro a se stesse, dando vita ad architetture fantastiche, macchine di splendore cosmico, musiche vertiginose.
Ogni componimento di questo poeta nutrito di una cultura rara e immaginosa – frammenti neoplatonici, bestiari medievali, il Rimbaud delle Illuminazioni, i sublimi Quartetti di Eliot, e molto altro ancora – è come un vasto altipiano, cui si accede per spostamenti minuti, lungo i gradini pensosi e scheggiati del verso: chi, dopo un viaggio lento e aggirante, vi approdasse, scoprirebbe vaste ed enigmatiche figurazioni in cui le esperienze esistenziali non sono distanziate, ma sospese nella potenza delle immagini: i pensieri, qui, si danno come suoni; le sensazioni di traducono in geometrie di mondi; le parole aspirano al silenzio.
Ogni incipit pare sorgere dal nulla, inchiodato nella sua solitudine: «Sono nata per piangere nel ferro: la guancia / in fiamme contro l’armatura e la ruggine / che si mescola col sale». Ma nel verso che fa sorgere un mondo, è già compreso il suo sviluppo; generato dal caso, ogni verso non può che procedere verso la sua ferrea conclusione: «Sono nata dentro un racconto / di razzia in cui i predoni non hanno che / parole, perché le guerre non danno / altro bottino che le storie / e la sconfitta: io sono il suo compiersi / anteriore, l’eco / del passo strascicato / sotto i portici / d’un capo / di truppe d’occupazione, morto / di febbri malinconiche» (Autoritratto in cinque specchi: III. Introduzione alla polvere (pianto nel ferro).
Un libro in cui ogni pagina è un esercizio dell’intelligenza, ma in cui l’intelligenza non si placa in se stessa, si fa danza, ritmo, materia figurata, sacro rituale, enigma del mondo.
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ESTRATTI
dA “Viaggio mentre morivo” di Sonia Gentili, Nino Aragno Editore, 2015 (euro 12,00)
Notturno
Gli alberi, le teste buie
al vento, l’occhio invisibile
ed attento
di due volpi
nel tormento
oscuro delle foglie, dei rami che torcendosi
abbracciano ora il tempo
sinistro del naufragio, tutto ritorna
al cielo cancellandosi, le linee
tradiscono le forme
abbandonandole e il vuoto
sale al niente, è pietra
circolare, cieca, è torre
senza finestre che ha
nelle budella
un trono
il buio riempie i tronchi
come un coro
di foglie insonni
di rami che torcendosi
abbracciandosi
resistono al frastuono
della vita
impaurita
dalla notte
rumore notturno
della vita: per il ribrezzo
del niente che la sfiora
si ritrae torcendosi, ancora
più cupamente
viva
anche stanotte il sonno
non basta per morire
*
Istante
La guancia che si volta, scalfita
dalla luce, e non sa di attendere
una pena
la figura piena, dissolta
al centro da uno scorrere
di luce
il sole era l’immensa
radura al centro
della ragazza in piedi sul sentiero
che conduce dentro a un nero
d’alberi e dietro
al ginocchio intanto
nasceva un lago
d’ombra
*
Fiat lux
Che la luce cada rompendosi
sul mondo
cada la luce rompendosi
nel fondo
ma brilli, e le ossa rotte
le nasconda
resti distesa e poi
potrà svanire
pensi a brillare e poi
potrà morire
brilla la luce caduta
in superficie, sale dall’orizzonte
nella spinta breve di queste
arcate di nubi
chiare
brilla il tuo corpo, luce, sei distesa
sul mondo
stai morendo
eppure il tuo mattino è un mondo
chiaro
vada la luce, consumi le pianure
e vada poi perdendosi, già morta,
dentro le vene aride di dio
dentro le vene aride che io
sento distendersi immortali nelle
notti
sento confondersi ai mortali nella
notte
le vene della mano che domani
frantumerà ancora sul mondo
le ossa della nostra
luce
*
Viaggio mentre morivo
Viaggio mentre morivo ed ero
assente o forse solo
sola: ferma davanti all’ultimo ancoraggio
del mondo come patria del
presente
viaggio dove il presente si consuma
nel nero ventre della luce, trasparente
come nel buio l’attesa della luna
verrà e non viene ed io
sono distante
il cielo dell’esistere costante mi guarda
e non conosce ciò che vede
sono uno scioglilingua nero e ho la verde
scorza del paradiso: sono terra. Il cielo
mi lascia ma
non mi abbandona
l’ho abbandonato io dietro le case
nere come i tentacoli del sonno
e viaggio dentro antiche primavere
nere dal ventre verde
dal frutto rotondo
solo la terra, la patria più antica
sa abbandonarmi ai vortici del mare
il mio respiro nel sonno è questo
andare
il cielo non mi abbandona ma
mi uccide
*
Interlunio
Tra luce e luce resta il nero
puro di questo interlunio: il giorno
è già finito nel motore
spento d’un’auto parcheggiata
sotto lo zoccolo del buio
tra luna e luna c’è il corpo
del giorno, puro nero nella nera
bocca del grande ruminante, il dio
del sonno
il nero è il tempo che la luna
ora percorre per diventare
luce della notte, è il tempo
selvaggio della bocca
divina che distrugge
ogni frontiera di tempo
nel suo nero
la luna di ieri è stata regno: corona
di giardini, rigoglio, crescita
di fiori, luce e silenzio
in trono e ai loro piedi, domato
come una schiena di velluto
percorsa da quiete lussurie,
il buio
stanotte, forse, tornerà la luna
a dominare il nero, la sua
carotide in tempesta per il moto
della digestione, ma l’esercizio
della distruzione è adesso: è ancora
sera. Lo zoccolo del nero
piantato nel tuo fango, l’unghia
fessa d’un immobile
interlunio e l’odore
d’un vecchio radiatore
sei il nero sul fiume, tra le pietre
che rompono le frasi
in schiuma
*
Tu sei sorta
Tutto il cielo mi dice tu sei sorta
dalla distanza morta che gli oceani
hanno lasciato andare
alla tempesta: dal vortice, da pezzi
di vite fortissime, ormai
estinte
la marcia dei mostri sterminati
dal ghiaccio mi ha dato vertebre,
frammenti di mandibole, pensieri
di forza, fame e procreazione
che oggi senza saperlo
sono miei
tutto il cielo mi dice tu hai sbagliato
per bassezza: il blu che pesa
e si distende è sottigliezza
di uno stelo
un solo stelo per milioni di corolle
tutto il peso verticale
si distende come
luce ed io mi nego
al cielo per il peso
rotondo di questo sole cieco
mi distendo e il nero
in fiamme illumina
l’interno buio
dello stelo
aperto e nudo
del prossimo
inverno
l’ultima
notte nel
primo mattino, nel sole
del mattino sta
l’inferno
ecco il signore
minuscolo che prego: un pidocchio
antichissimo, un punto
perduto nella linea
all’orizzonte
tutto il cielo mi dice tu
sei sola e mi getta
sulle spalle questa luce
che brucia e si distende
e lo trascina
lo incastra nella terra
la riva muta, la poesia
che il cielo illumina e conduce
al buio
*
[dalla sezione Città:]
Serata in ghetto I (il Greco)
Il blu incastrato di lato nella notte
come un’ala o un’auto parcheggiata male
la bocca del divieto, tonda
e sbarrata, muta nel buio
come l’infrazione
un’auto blu sotto la lettera di dio sul sonno
del carabiniere, un’auto nera
maritata al muro: sotto
c’è l’argine e poi il fiume
hai benedetto schiuma
sul fiume tossico
e furioso, basso nella sua corsa
come un topo, tu, luna del ghetto, e il disco
gemello del semaforo che è rotto, e il ponte
che per metà è in rovina
tu splendi fino ai morti e sai cosa si lascia
vivendo: perciò ha un breve sorriso
il tuo silenzio. Sai che la luce brilla
come il buio: perciò gli scemi la cercano
nel buio
il Greco, il sopravvissuto, il mentitore
nel lungo viaggio dalla guerra
a dove, a quale tempo imboscato
nella sera, a quale presente
o cronaca
o finzione
a quale topo annegato in questo fiume
*
Khartago (profezia formula frammento)
ma tu sei malinconica,
regina
Cartagine regale tra le nubi, Cartagine
superba è grande gloria
ma tu sei malinconica,
regina
il tuo essere superba di morte e di vittoria è triste
gloria
Cartagine eretta sugli scudi, ed il tuo sguardo
è il piombo e l’argento degli scudi
le armi del re morto alle tue labbra, e le tue labbra
sono nubi. Di queste hanno il destino: recedere
nei venti
Cartagine, il tuo regno da distruggere, accoglierà
un re naufrago, coi suoi; amare, per un naufrago, è
distruggere
*
[dalla sezione Ritratti:]
Autoritratto in cinque specchi
I. Quadratura
Il mio abbandono è un trono
quadrato sulla propria solitudine. Ha anelli ai lati per l’attracco
di navi perdute che trasportano
spoglie di santi dalla faccia nera. Chi manda a me i cadaveri
dell’estasi? Chi manda a me il silenzio delle bestie
che stanno mute al mondo come occhi? Forse la sera rossa
di papaveri che sulla pelle stampano
le stelle; forse la torre che non ha finestra ma capelli stretti
in una lunga treccia e aspetta, altissima tra i fiori e l’erba blu, che il raggio
del sole la perfori. La torre si è sdraiata e scorre
nella luce, l’erba di giorno
è stoppa e il santo è legno
e chiesa
e marionetta
del mio abbandono, suddito
dei miei occhi verdi
in trono
*
II. Febbre morte paesaggio
La febbre che raffredda la sua guancia bollente
in una maschera mortuaria, la morte permanente
di ogni faccia secondaria, febbre di morte nel vuoto mistico
del sole e morte in battaglia
nel paesaggio: nel raggio delle guance, nel campo
verde degli occhi tra sassi indifferenti le ginocchia cavalcano
lontane nella polvere, io sto
seduta e scrivo cronache di guerra e vanno le mie gambe
ferrate e non sellate alla battaglia, le mie gambe splendenti
di lance di sperpero di sangue
*
III. Pianto nel ferro
Sono nata per piangere nel ferro: la guancia
in fiamme contro l’armatura e la ruggine
che si mescola col sale. Sono nata dentro un racconto
di razzia in cui i predoni non hanno che
parole, perché le guerre non danno
altro bottino che le storie
e la sconfitta: io sono il suo compiersi
anteriore, l’eco
del passo strascicato
sotto i portici
d’un capo
di truppe d’occupazione, morto
di febbri malinconiche
*
IV. La stella
Bisogna che ogni tanto io maledica
questo mio andare allegra alla disfatta
questa mia via di disertori, di stendardi abbandonati al vento, queste lance
al sole
bisogna che l’abiura mi conforti e mi sprofondi a vittorie
più servili, al ritorno della polvere
alla polvere a mangiare terra a camminare
con le mani, a stringere accordi
in cui non credo. Domani,
domani mi faccio nera d’obbedienza, domani è un giro
patetico di danza, un trascrivere, un salire
scale e poi riavrò la stella
gialla di chi può pentirsi e non si pente
*
V. Posso io o no
Posso io o no ridiventare
pura nel puro flusso delle cose
retrocedere andando tra le cose
ridiventare l’ultimo dei venti
solo una cosa e non una paura
tra le cose, fino all’argine grigio
della prosa
se ridivento pura
della voce che ero ride
il vento
la mia voce sterrata è una piramide
sepolta nella strada
*
Un Amleto
Farsi dall’estate, sottostare
alla bellezza, alla pigra
indifferenza con cui crollano
palazzi di petali rossi. Il vortice
carnale dei fiori
ti ricatta, ma tu, re
di Danimarca, tu regni
sul tuo teschio
…..
il re porta nel petto il sole
……
così dentro la tua caverna brilla il sole: l’hai preso
per farlo piangere con te, per questo hai strappato
anche le stelle e oggi per fare luce anch’io
devo cacciarmi nel tuo teschio. Mi hai visto ed hai afferrato
le falesie, perché nel chiuso del tuo petto brilli la rupe sospesa
al sole, il bianco della roccia, lo strapiombo
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Sonia Gentili insegna Letteratura Italiana (Sapienza università di Roma) e collabora col quotidiano “Il Manifesto”. Saggista, traduttrice, vincitrice del premio per la letteratura “A. S. Novaro” (Accademia dei Lincei, 2009), ha pubblicato le raccolte poetiche L’impero e la Gorgone (2007) e Parva naturalia (2012, finalista premio Brancati).