
Mario Benedetti, foto Dino Ignani
di Corrado Benigni
Poeti del suono e poeti dell’immagine. Mario Benedetti appartiene senza dubbio alla prima categoria. La tessitura della sua lingua è prima di tutto musicale: una poesia “per legame musaico armonizzata”, verrebbe da dire citando Dante. Tanti nodi suonosenso tengono insieme la trama dei versi di Benedetti.
Dopo Amelia Rosselli, credo sia stato il poeta che meglio ha fatto risuonare la pagina poetica come una partitura musicale, e questo senza alcun artificio o pre-intenzione, ma con un impasto di naturalezza e lavoro artigianale sulla lingua, che è proprio dei poeti veri; una lingua sfuggente e inimitabile anche quando appare semplicissima. L’analogia, come capacità di connettere elementi e mondi lontanissimi, nei suoi versi è prima di tutto analogia di suoni, voci e ritmo.
Ho sempre avuto grande stima e ammirazione verso la poesia di Benedetti, che pure è lontana dal mio stile. Questa distanza tra noi ha però reso ancora più affascinante ai miei occhi la sua scrittura. Soprattutto dopo l’uscita di “Pitture nere su carta”, un libro coraggioso e fuori dagli schemi, che a mio avviso ha spinto più in là e più a fondo le possibilità della lingua poetica. Il titolo tuttavia non deve trarre in inganno: centrale non è l’immagine, ma il suono, con il quale Benedetti è riuscito in modo straordinario e spiazzante a tratteggiare vere e proprie figure dell’inconscio, che rimandano, per impressione, ai capolavori di Goya. I segni neri lasciati sulle carte, come dice il titolo, sono la traccia visibile che i suoni della sua poesia ci consegnano, quasi testimonianza di un dovere cui non è stato possibile sottrarsi. Come in tutti i suoi libri, realtà e favola si mescolano sulla pagina, che diventa così una potente tela allegorica.
Ricordo perfettamente la prima volta che ho conosciuto di persona Mario Benedetti. A San Pellegrino, nella Bergamasca, nell’ottobre 2004, quando vinse il primo premio con “Umana gloria”. Ho ancora in mente la gioia “tersa” dei suoi occhi. Per la prima volta il suo lavoro poetico riceveva, meritatamente, un riconoscimento importante. Non dimentichiamoci che ha pubblicato il suo primo libro organico vicino ai cinquant’anni, segno del lungo e paziente cammino che ha compiuto la sua scrittura. E di questi tempi – in cui molti cercano un consenso facile e immediato – la sua esperienza è un grande insegnamento.
Voglio ricordare Mario Benedetti soprattutto con la sua poesia, perché questo mi sembra sempre il modo più giusto per tenere accesa la voce di un poeta. Una in particolare mi ha fin da subito colpito, da “Tersa morte” del 2013, con quell’attacco memorabile (Benedetti, maestro degli attacchi perfetti!) che porto con me e che credo sintetizzi al meglio lo sguardo di Mario, poeta e uomo, uno sguardo limpido, di una limpidezza che lascia intravedere le cose in profondità:
Dentro i discorsi si perde
la prima cosa che il bambino ha guardato.
Lui gioca silenzioso e gli occhi non muove.
Hanno tagliato l’albero, il tronco è caduto,
lui non muove gli occhi, ascolta il da farsi.
Impara a vivere poveramente.
Da Tersa morte, Mondadori, 2013