Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza”

Vittorino Curci

“Credo che da sempre il principale compito affidato al poeta sia quello di liberare le parole per rigenerare il linguaggio. In questo nostro tempo però il poeta si fa carico di un altro compito, non meno importante: quello di verificare se siamo ancora vivi.”

Vittorino Curci

ESTRATTI

 

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza” (Prima edizione 2008, I libri di Icaro).
Dalla seconda edizione ampliata dall’autore sono estrapolati  gli ESTRATTI qui pubblicati, (2017 Spagine).
Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri presidio del libro di Lecce.

 

1. I testi necessari

De quoi souffres-tu?
De l’irréel intact dans le réel dévasté.

René Char

Voglio raccontare queste figure. Non posso ignorarle. Sono figure eloquenti, compatte, intrattabili.
La verità della poesia è nel suo farsi confine e legge della sua stessa inutilità.
Il destino e gli sguardi si sono incrociati. Le ferite cantano.
Il poeta è colui che per debolezza o necessità alza lo sguardo, e così facendo si accorge di non avere più le vertigini.

Non sto qui con la faccia da scemo di chi vive in un mondo bellissimo che vorrebbe spiegare agli altri.
Il pianeta è ammalato e altro non ci è dato conoscere che il punto in cui ci troviamo.
Tra le cose più giuste da fare, quell’immergersi e imparare di cui parla Benn nel primo verso di Aprèslude.

Di che soffri?
Dell’irreale intatto dentro il reale devastato.

Parole condotte alla luce, battute sul corpo. I frantumi di un vaso che nessuno può mettere insieme.

“Faccùlo faccùlo” gridò più volte il ragazzo ritenendo che un solo “faccùlo” non rendesse a sufficienza l’idea di quanto fosse arrabbiato.

La stanchezza dei nostri conflitti è diversa. L’irreale ci è scoppiato addosso.
Noi siamo lanciatori di coltelli.

Con Rimbaud e Mallarmé la poesia moderna ha avviato un processo spirituale che non ha precedenti nella storia dell’umanità, una vera e propria rivoluzione incentrata sul linguaggio a cui, per la prima volta, viene data la possibilità di parlare apertamente di se stesso.
Le parole infatti non sono del poeta. Anche se egli arriva al punto di inventarle, esse di fatto non gli appartengono. E allora, se le parole non sono del poeta, di chi sono? Della comunità linguistica cui il poeta appartiene? Oppure dell’umanità nella sua interezza?
Se queste domande hanno senso – e se hanno un senso, indicano una direzione nella quale cercare – io dalla mia esperienza ho imparato che nella vita di ogni giorno si usano le parole per dire qualcosa.

In poesia invece sono le parole che vogliono dire qualcosa. Scrivere poesia perciò vuol dire essenzialmente ascoltare.

9. Dal mito al destino

Sintetizzo con le stesse parole di Pavese:
“Noi a questo concetto del mito giungemmo meditando appunto un fatto religioso. Ci accadde di chiederci che cosa fosse per il fedele un santuario, in che cosa un sacro monte differisse per lui dalle altre colline – e la risposta fu precisa –: santuario è il luogo mitico dove è accaduta un giorno una manifestazione, una rivelazione del divino”… “Che cosa prova il fedele, al contatto con la collina? Il tempo per lui si arresta, in un attimo vertiginoso egli contempla, sente, l’unicità del luogo, simbolo incarnato della sua fede, nucleo centrale di tutta la sua vita interiore. La qualità dell’oggetto mitico non conta – liturgia complessa o semplice roccia, esso non esprime ma è il divino – – un «vero metafisico»”.
Il discorso è interessante e persino abbagliante, se è anche vera la storia di una momentanea conversione dello scrittore. Ma il punto è decisamente un altro. Procedo enucleando i fatti essenziali.
Nel settembre 1943, dopo l’armistizio, Pavese si rifugia presso la casa della sorella Maria, a Serralunga, nel Monferrato. Il questa località vi è il Sacro Monte di Crea su cui sorge un santuario mariano.
Nel “Mestiere di vivere”, a partire dall’11 settembre, compaiono le prime annotazioni sul mito che saranno poi sviluppate in “Feria d’agosto” e in alcuni altri scritti poi raccolti in “La letteratura americana e altri saggi”. Queste riflessioni ispireranno anche i “dialoghetti mitici”, la cui stesura comincerà nel dicembre del ‘45 e sarà ultimata nel ‘47, anno di pubblicazione.
“Dialoghi con Leucò” era il libro che Pavese aveva più caro – “sono forse la cosa meno infelice ch’io abbia messo sulla carta”, diceva.
Nel diario, alla data 8 febbraio 1946, si legge: “Certo, il mito è una scoperta di Crea, dei due inverni e dell’estate di Crea. Quel monte ne è tutto impregnato”.
La scoperta consiste essenzialmente, e in primo luogo, nella rivelazione dei “luoghi unici”, cioè di quei luoghi (“così sono nati i santuari”) che hanno un carattere sacro poiché in essi sono accaduti fatti straordinari. Esattamente come accade per i luoghi della nostra infanzia, o anche per i nomi comuni – “il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa” – chenella loro indeterminatezza contengono tutti i prati, tutte le selve ecc. Questi luoghi “mitici”, che mantengono intatto il mistero delle origini e hanno valore simbolico e significato assoluto, si differenziano da tutti gli altri: “Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione”.
Quando facciamo esperienza del mito noi raggiungiamo uno “stato di grazia” (l’extase nell’accezione baudelairiana) perché “i simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi
autentici ricordi”.

L’approdo forse più interessante di queste riflessioni è quella che Pavese chiama “poetica del destino”: “Che cos’è questo destino? Che anche i gesti, le parole, la vita umana siano veduti come simbolo, come mito, significa che si configurano come esistenti fuori del tempo e insieme ogni volta scoperti come unici, come per la prima volta rivelati. Una vita appare destino quando inaspettatamente si rivela
esemplare e fissata per sempre”.

L’introduzione del concetto di destino gli consente di risolvere un problema (quello di fissare “gli uomini e le loro passioni” con gli stessi occhi con cui si percepisce “il selvaggio, il divino, di piante, acque, rocce e paesi) e di aprire, anche per i poeti d’oggi, una prospettiva “nella tenebra feconda delle origini dove ci accoglie l’universale umano”.

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Poeta, pittore, sassofonista di musica improvvisata, Vittorino Curci vive a Noci, in provincia di Bari, dove è nato nel 1952. Collabora alle pagine culturali di diversi quotidiani pugliesi e alla rivista “Nuovi Argomenti”.
Fra le sue pubblicazioni di poesia più recenti: La stanchezza della specie (LietoColle, 2009), Un cielo senza repliche (Lieto Colle, 2008), Il frutteto (LietoColle 2009), Il pane degli addii (La vita Felice 2012), Verso i sette anni anch’io volevo un cane (La Vita Felice 2015) e Liturgie del silenzio (La vita Felice 2017)

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