Mauro Germani, “La parola e l’abbandono”

Mauro Germani

Mallarmé scrisse che il mondo esiste per giustificare un libro. Ma quale libro potrà mai giustificare il mondo?

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Non usciremo mai dal nostro oblio. Incapaci di sapere chi siamo veramente, vaghiamo come sonnambuli nella notte del mondo.

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Quando scende la sera e si accendono i lumi dell’orizzonte, è possibile provare nostalgia di un’unità perduta ed irraggiungibile.

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Non c’è che un’unica notte che ritorna.

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Quando si è malati si è più veri. La malattia sorprende la nostra clandestinità.

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L’esilio è il destino dell’uomo.

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Il poeta è un abitatore di rovine.

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La poesia deriva non da ciò che si ha, ma da ciò che ci manca.

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La parola è sempre sola davanti al dolore e alla morte.

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Il mare conserva una forza primordiale che attrae e spaventa, un altro mondo buio e profondo sempre pronto a inghiottirci.

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Il poeta non è solo quando scrive. E’ tremendamente solo dopo.

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Kafka sapeva bene che l’unica sua aspirazione e vocazione era la scrittura, tuttavia dovette sperimentare che il potere di quest’ultima non era suo e che non aveva affatto la prova di scrivere veramente. I suoi testi lo ponevano in una condizione di esilio abissale ed egli era spesso costretto ad interrompere la scrittura, che così ritornava a quella misteriosa notte in cui era nata, il destino della frammentarietà e dell’incompiutezza lo perseguitava, avvertiva allora in sé il senso di un doppio fallimento: quello di uomo, estraneo agli altri uomini, e quello di scrittore, preso da una forza oscura e da una vertigine più grande di lui. Continua a leggere

Paul Claudel, “La Scarpetta di raso”

Paul Claudel

La letteratura come gioia

Traduzione, note e saggio critico di Simonetta Valenti

Doña Prouhèze. — […] Perché far finta di non credermi quando credi a me disperatamente, povero infelice!
Dalla parte in cui vi è più gioia, è lì che vi è più verità.
il Vice-re. — A che cosa mi serve questa gioia se tu non puoi donarmela?
Doña Prouhèze. — Apri ed essa entrerà. Come fare per donarti la gioia se tu non le apri quella sola porta attraverso la quale posso entrare?
Non si possiede affatto la gioia, è la gioia che ti possiede. Non le si pongono condizioni.
Quando avrai fatto ordine e luce in te, quando ti sarai reso capace di essere compreso, è allora che essa ti comprenderà.

il Vice-re. — Quando sarà, Prouhèze?
Doña Prouhèze. — Quando tu le avrai fatto posto, quando avrai ritirato te stesso per farle posto, a questa cara gioia! Quando la chiederai per sé stessa e non per aumentare in te ciò che le fa opposizione.

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Paul Claudel, La Scarpetta di raso, XIII scena, III giornata, traduzione, note e saggio critico di Simonetta Valenti, Le Château Edizioni, Aosta 2011.

 

COMMENTO

DI

ALBERTO FRACCACRETA

 

La Scarpetta di raso (Le Soulier de satin) è il capolavoro di Paul Claudel (1868-1955). Fu pubblicata nel 1929 e fu messa in scena solo dopo molti anni, con grande fatica. La traduzione integrale della pièce — scritta sia in versi e in prosa — si deve all’appassionata edizione proposta da Simonetta Valenti, uscita nel 2011 per Le Château, arricchita da note preziose e da un commento esplicativo. Di cosa parla La Scarpetta di raso? È un opus magnum al limite della rappresentabilità, affollato da decine di personaggi e di quadri d’azione, emblema del teatro totale, anzi del «teatro-mondo» tipico della sterminata fantasia dell’autore francese. Eppure, le quattro giornate in cui si svolge il dramma hanno alcuni ‘fili’, alcuni motivi conduttori, che ne riescono a esemplificare il messaggio. Come sottolinea la curatrice, un ‘filo giallo’ è ad esempio legato al tema del potere e della conquista; un ‘filo blu’ coincide con l’ineffabile intervento del mondo spirituale a favore dei protagonisti della vicenda; un ‘filo verde’ riguarda il discorso sull’arte che lo stesso Claudel lungamente imbastisce, presentando l’ipotesi di un’arte ‘cattolica’, capace di toccare ogni angolo del cosmo e di dimostrarsi universale.

Ma soprattutto c’è un ‘filo rosso’. Su questo vorrei soffermarmi. Sì, perché le multiple, multiverse e labirintiche scene della Scarpetta di raso sono riassumibili in poche battute: l’amore di Don Rodrigue per Doña Prouhèze. Un amore ovviamente contrastato, che cerca di fissarsi nell’eterno e che ha suscitato splendide riflessioni — dal teologo Hans Urs von Balthasar a Carlo Bo — sulla natura non soltanto pragmatica (affettiva) di questo amore, ma anche per i suoi significati simbolici, filosofici, teologici. La storia è semplice: in un Seicento ancora fortemente ‘combinatorio’ Prouhèze è sposata prima con l’anziano Don Pelayo, poi — morto il coniuge — con il vile Don Camille. In entrambi i casi non può venir meno al vincolo matrimoniale, che accetta per obbedienza e per necessità. Don Rodrigue, che lei ama riamata, non può che desiderarla in un altro spazio e in un altro tempo, oltre le catene della necessità. Continua a leggere

Gian Maria Annovi, “Persona presente con passato imperfetto”

Gian Maria Annovi/ credits ph. Dino Ignani

la realtà della mia tortura era
una banale prova balistica

se nel sole ti munivi di
una bellezza di cui eri totalmente
deficiente prima di adesso

incomprensibile che tu solo
abbia ragione d’essere ed

io torto

 

****

 

mi rompevi gli alluci
per accorciarmi
per accorgermi del vivere

mi sgridavi pure le orecchie
e lo sgrido sgualciva il divario
divaricato della guancia

(di niente
circondavi la mia stanza)

crescevano placide
solo le crepe
di cui mi innamoravo

(enormemente)

 

***

 

la peluria del tuo pensiero
faceva quasi pena
di fronte all’ampia calvizie
del mondo che si spolpava
al sole

al solito depilarti le
ciglia preferivi una assorta
contemplazione del poco

che tanto ti somiglia

 

***

 

è corpo che monta nel corpo nome di donna
indicibile come

le cose distrutte per troppe parole

inutili

 

***

 

la persona che state chiamando
non è un momento raggiungibile

(dice)

eppure aggiunge al vero il verbo

il verso dell’aria che non respira

né più descrive

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Milo De Angelis, “Poesia e destino”

NOTA INTRODUTTIVA DI MILO DE ANGELIS

Perché ristampare queste mie vecchie pagine? Perché da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro – intatto, quasi intoccabile dal tempo – e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre. Molti temi di Poesia e destino sono quelli che mi scuotono ancora oggi: la tragedia, l’eroismo, l’adolescenza, il mito, il gesto atletico. Ma il tono è un altro. Il tono è furente, perentorio, imperativo, dà sempre l’impressione di un ultimatum che io pongo a me stesso e a chi mi legge. E’ come se da lì a poco dovesse scaturire una sentenza senza appello, l’ultimo grado di un processo dove si gioca la condanna o la salvezza. E questo tono guerresco circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate, la stessa di Millimetri, per intenderci, che è stato scritto nei medesimi anni. Ora non potrei nemmeno immaginare quella corsa sulle macchine volanti della parola. Me ne sono accorto trascrivendo il libro in un file per necessità editoriali. A volte ero pienamente d’accordo con me stesso, felice di essere rimasto fedele alle grandi passioni giovanili. Ma molto più spesso non capivo, letteralmente, il nesso troppo segreto tra due termini o due affermazioni. Dovevo leggere e rileggere, farmi aiutare dall’insieme della pagina.

E tuttavia questa antica furia mi piaceva e mi piace ancora adesso. E forse può colpire chi legge Poesia e destino in questo tempo. Specialmente se ricorda cosa erano quegli anni – il libro è stato scritto di getto nell’estate del 1981 – dove dominavano le scritture sociali alla ricerca di immediato consenso e dove alcune strade notturne erano sentite vicine alla follia e venivano frequentate con circospezione, divieti di transito e di sosta. D’altra parte erano ancora sconosciuti alcuni autori che hanno nutrito queste pagine – da Maurice Blanchot a Paul Celan, da Ion Barbu a Marina Cvetaeva – e con quelli più noti, con Nietzsche o Rimbaud, non era ammessa una simile intimità, un’adesione così gridata da sembrare fratellanza.

Il libro è diviso in tre parti, come vedrete. La prima riguarda i nomi suddetti, con particolare insistenza sullo sfondo greco in cui sono situati. Quella successiva – la mia preferita – è una riflessione ad alto tasso metaforico sul tema dell’impresa, dell’eroismo solitario e del pericolo mortale che ci nomina e ci azzanna. La terza percorre l’immenso universo indiano, cercando un arduo punto di contatto tra i suo Assoluti e l’unicità della singola voce. Ma in tutte e tre circola l’alta tensione di cui dicevo prima, perché la vera poesia naviga in mare aperto e prima o poi dovrà interrogarsi sulle ragioni che l’hanno spinta a veleggiare, sul porto che ha lasciato, su quello che l’attende, sul naufragio che all’improvviso può cancellarla.

ottobre 2018 Continua a leggere

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza”

Vittorino Curci

“Credo che da sempre il principale compito affidato al poeta sia quello di liberare le parole per rigenerare il linguaggio. In questo nostro tempo però il poeta si fa carico di un altro compito, non meno importante: quello di verificare se siamo ancora vivi.”

Vittorino Curci

ESTRATTI

 

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza” (Prima edizione 2008, I libri di Icaro).
Dalla seconda edizione ampliata dall’autore sono estrapolati  gli ESTRATTI qui pubblicati, (2017 Spagine).
Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri presidio del libro di Lecce.

 

1. I testi necessari

De quoi souffres-tu?
De l’irréel intact dans le réel dévasté.

René Char

Voglio raccontare queste figure. Non posso ignorarle. Sono figure eloquenti, compatte, intrattabili.
La verità della poesia è nel suo farsi confine e legge della sua stessa inutilità.
Il destino e gli sguardi si sono incrociati. Le ferite cantano.
Il poeta è colui che per debolezza o necessità alza lo sguardo, e così facendo si accorge di non avere più le vertigini.

Non sto qui con la faccia da scemo di chi vive in un mondo bellissimo che vorrebbe spiegare agli altri.
Il pianeta è ammalato e altro non ci è dato conoscere che il punto in cui ci troviamo.
Tra le cose più giuste da fare, quell’immergersi e imparare di cui parla Benn nel primo verso di Aprèslude.

Di che soffri?
Dell’irreale intatto dentro il reale devastato.

Parole condotte alla luce, battute sul corpo. I frantumi di un vaso che nessuno può mettere insieme.

“Faccùlo faccùlo” gridò più volte il ragazzo ritenendo che un solo “faccùlo” non rendesse a sufficienza l’idea di quanto fosse arrabbiato.

La stanchezza dei nostri conflitti è diversa. L’irreale ci è scoppiato addosso.
Noi siamo lanciatori di coltelli.

Con Rimbaud e Mallarmé la poesia moderna ha avviato un processo spirituale che non ha precedenti nella storia dell’umanità, una vera e propria rivoluzione incentrata sul linguaggio a cui, per la prima volta, viene data la possibilità di parlare apertamente di se stesso.
Le parole infatti non sono del poeta. Anche se egli arriva al punto di inventarle, esse di fatto non gli appartengono. E allora, se le parole non sono del poeta, di chi sono? Della comunità linguistica cui il poeta appartiene? Oppure dell’umanità nella sua interezza?
Se queste domande hanno senso – e se hanno un senso, indicano una direzione nella quale cercare – io dalla mia esperienza ho imparato che nella vita di ogni giorno si usano le parole per dire qualcosa.

In poesia invece sono le parole che vogliono dire qualcosa. Scrivere poesia perciò vuol dire essenzialmente ascoltare.

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