Sulla parola di Giorgio Bassani

IL LIBRO

Le cinquantuno conversazioni qui raccolte offrono un Giorgio Bassani in presa diretta e a figura intera: e restituiscono al lettore i suoi talenti indomabili e l’altezza – in tutti i sensi – della sua voce. Alcune di esse, appena ritrovate, compaiono in volume per la prima volta; altre, realizzate con la complicità di amici quali Mario Soldati, Enzo Siciliano, Manlio Cancogni e Claudio Varese, si svolgono come autentici happening; altre ancora ci presentano Bassani attraverso lo sguardo di beninformati cronisti americani, svedesi, brasiliani, inglesi, argentini e francesi. Autore di un’opera poetica, narrativa e saggistica fra le memorabili del Novecento, Bassani è innanzitutto l’inventore di una voce. Qui, lungo quattro decenni all’incirca, il lettore può ascoltarla mentre va prendendo forma, seguendone i guizzi di genialità critica e autocritica, i progetti irrealizzati che balenano per accenni, le illusioni e le delusioni, le impuntature e le gioie, le rabbie e gli slanci, il partito preso di contraddire e la fame di complicità, in breve: la progressiva scoperta di sé e del mondo nei momenti in cui si trova intercettata dalla pubblica notorietà, da un interlocutore equipaggiato di taccuino o di magnetofono o magari della sola memoria. Da oggi in avanti, Interviste 1955-1993 – volume curato da Beatrice Pecchiari e Domenico Scarpa, con una premessa di Paola Bassani – si aggiunge al canone dell’opera di Bassani come un diario vocale ininterrotto, come un autocommento su pungolo altrui. Il libro assertivo e antagonista di un uomo che seppe coltivare il raro dono della “distrazione interiore”. Continua a leggere

La virtù dei buoni libri

Un libro che riapre sentieri interrotti

di Franco Ferrarotti

Ecco un libro geniale e originale. Per questo va segnalato, letto e meditato. È un libro che parla di libri, ma, come dice bene l’Autore nell’avvertenza posta all’inizio, non è un libro di recensioni. Non è, in altre parole, uno di quei libri – temo che si tratti della maggioranza – che sono prodotti, oserei dire, incestuosamente mercé altri libri.

Contro tutte le apparenze e le prime impressioni, che a torto Voltaire riteneva le più giuste, (méfiez-vous de la première impression; c’est la bonne), questo libro non fa parte e non rientra nella cultura libresca. È vero che spesso, troppo spesso, quando gli scrittori parlano dei loro colleghi lo fanno in termini molto libreschi e intellettuali. Parlano e scrivono come se dovessero venir letti, e giudicati, solo da colleghi e intellettuali.

Questo libro è diverso. È un’altra cosa. Ha la virtù che hanno i buoni libri – una esigua minoranza nella sterminata produzione di molti editori, degradati ormai a meri stampatori, portati a vendere libri come se fossero carciofi o patate o altra frutta di stagione. Questo libro fa parlare i morti. Ne resuscita l’intento profondo. È una chiamata dall’oltretomba; richiama un passato ormai ritenuto lontano, che invece ha ancora cose importanti da dire nel presente o addirittura contiene i semi dell’avvenire.

C’è un merito ulteriore, che non va sottaciuto. Questo libro non parla solo di libri best-seller. Parla anche, se non soprattutto, di libri poco noti al gran pubblico. Oppure parla di libri divenuti noti o anche celebri per le ragioni sbagliate. Ma parla anche di «rivisitazioni» critiche necessarie, non più rinviabili, vale a dire di libri riscoperti pienamente, valutati solo generazioni dopo la loro prima pubblicazione.

Il successo commerciale non è ritenuto un test decisivo per il valore di un libro. Tutti sanno che Honoré de Balzac fu subito famoso. La sua «comédie humaine» vendeva molto. I suoi contemporanei – la borghesia francese in ascesa – vi si rispecchiavano come in uno specchio di alta fedeltà. Stendhal, invece, del suo trattatello De l’amour, aveva venduto tre copie in otto anni. Non solo nessuno lo comprava. Non lo toccavano neppure. Lo sconsolato Stendhal confessa, a malincuore: «On dirait qu’il est sacré. Car personne n’ytouche». Curioso com’era, si fa dare dal libraio – una specie di libraio in via di rapida estinzione – nomi e indirizzi dei compratori. Li va a trovare. Che delusione! Almeno due di loro avevano comprato il libro credendo che si trattasse di un Kamasutra. Ma Stendhal, con La Certosa, Il Rosso e il nero e i Souvenirs d’égotisme dava un appuntamento ai lettori di centocinquant’anni a venire. Inutile dire che l’appuntamento è puntualmente scattato. Continua a leggere

Kikuo Takano (1927-2006)

Kikuo Takano

WALTER SITI SULLA POESIA DI KIKUO TAKANO

La prima cosa da fare, credo, ragionando intorno alle poesie di Kikuo Takano, è difenderle contro una lettura banalmente “poetica”: il vuoto, lo smarrimento dell’anima, il miracolo della natura (“rabbrividiscono i fiori di mimosa”),l’amore per la vita – genericità che potrebbero richiamare, e soddisfacendo le nostre basse voglie di sublime, certo ermetismo attardato di provincia. La sua poesia è invece per eccellenza grammatica e antisentimentale, violenta asimmetrica esigente; una poesia che non ha paura di riconoscersi contraddittoria, di tacere quando è il caso, e che non cerca il facile plauso. Non per niente nasce, storicamente, dal disastro del Giappone post bellico; Takano ricorda, lui diciottenne, l’incontro in treno con una sopravvissuta di Hiroshima. La poesia si riconosce spezzata come in quel momento il paese, la sintassi è squassata, il metro ( per quanto si può capire dalle traduzioni, e posto che il paradigma di linearità che vige laggiù sia confrontabile al nostro) si disarticola in membri brevissimi e lunghissimi, il verso libero e contundente si impone come esigenza psicologica; “Arechi”, Il nome della rivista che ospita le sue prime prove e mature, in giapponese significa letteralmente “deserto”, “terra desolata”. Aridità, desolazione, frammentazione sono prima di tutto di bei dati fisici, creaturali – per salvarsene esprimendoli l’unica via è quella della cultura, che per Takano è fin dall’inizio, una cultura razionale, lucida, di matrice filosofica e scientifica (mai dimenticare che è stato un buon matematico, autore di importanti ricerche sulla formula del pi greco). Continua a leggere

Arthur Rimbaud (1853 -1891)

Arthur Rimbaud

AUBE

J’ai embrassé l’aube d’été.

Rien ne bougeait encore au front des palais. L’eau était morte. Les camps d’ombres ne quittaient pas la route du bois. J’ai marché, réveillant les haleines vives et tièdes, et les pierreries regardèrent, et les ailes se levèrent sans bruit.

La première entreprise fut, dans le sentier déjà empli de frais et blêmes éclats, une fleur qui me dit son nom.

Je ris au wasserfall blond qui s’échevela à travers les sapins: à la cime argentée je reconnus la déesse.

Alors, je levai un à un les voiles. Dans l’allée, en agitant les bras. Par la plaine, où je l’ai dénoncée au coq. A la grand’ville elle fuyait parmi les clochers et les dômes, et courant comme un mendiant sur les quais de marbre, je la chassais.

En haut de la route, près d’un bois de lauriers, je l’ai entourée avec ses voiles amassés, et j’ai senti un peu son immense corps. L’aube et l’enfant tombèrent au bas du bois.

Au réveil il était midi. Continua a leggere

Gli scritti militanti di Giovanni Raboni

Meglio star zitti? raccoglie centosettanta stroncature firmate da Giovanni Raboni in quarant’anni di attività critica: interventi talvolta garbati, più spesso sarcastici e addirittura spietati, tesi a mettere in discussione il valore e il significato di prodotti artistici (romanzi, poesie, film, spettacoli teatrali) e di fenomeni di costume. Ne fanno le spese nomi blasonati: Woody Allen, Italo Calvino, Umberto Eco, Federico Fellini, Dario Fo, Giorgio Gaber, Ernest Hemingway, Milan Kundera, Pier Paolo Pasolini e tanti altri.

Inflessibile nella difesa della qualità, Raboni condanna la deriva consumista della produzione culturale italiana del dopoguerra, rivendicando la responsabilità primaria del critico militante: essere per il pubblico una guida attendibile e onesta, chiamata a distinguere il “vero” dal “falso”. Compito che va sempre più assumendo i toni di una solitaria e disperata sfida etica.

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Il poeta fa spettacolo ma non si fa leggere

Letture pubbliche di poesia, festival di poesia: e perché no? Anche se appaiono ormai lontanissimi i tempi, fra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, in cui ci siamo entusiasmati per questa nuova forma di comunicazione e, sembrava allora, addirittura di aggregazione, non per questo sembra il caso di metterne in dubbio la legittimità e il senso. Piuttosto, può valere la pena di chiedersi che cosa a suo tempo si prevedesse o sperasse e che cosa, poi, si è davvero verificato, anche per non cadere ulteriormente nelle stesse illusioni. Continua a leggere