Rebora, sulle orme di Dante

Clemente Rebora e Dante

Roberto Cicala con questo libro ci presenta una serie di sorprendenti inediti danteschi di Clemente Rebora, grande studioso del Sommo Poeta.

Nel volume Cicala come un archeologo, riprende e riporta in luce tutta una serie di appunti, riflessioni e postille di Rebora alla Commedia (segnate in matita rossa per indicare la grazia e blu per evidenziate il peccato) e un intero ciclo di lezioni tenute da Rebora a Milano nel 1929, l’anno della sua conversione.

Un libro unico che ci fa comprendere quanto Dante abbia influenzato Rebora e con lui, intere generazioni di poeti, fino a oggi, e, a quanto pare, l’anniversario dantesco non ha mai prima d’oggi messo in luce le lezioni inedite di Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento, “maestro in ombra” di poeti quali Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini.

Gli inediti sono notevoli, per esempio sul passaggio – per Rebora autobiografico – dal «folle volo» di Ulisse all’«alto volo» della malattia mistica che l’ha portato alla morte a Stresa, il 1° novembre del 1957.

E proprio il primo novembre di quest’anno alle 16:00, nell’anniversario della morte di Rebora a Stresa, sulla sua tomba ci sarà un reading musicale per onorare la sua memoria, a  partire dal libro di Roberto Cicala Da eterna poesia (il Mulino, 2021) con musica di Roberto Bassa letture di Roberto Sbaratto introduzione di padre Ludovico Gadaleta Interviene l’autore

Il volume esce in libreria a fine ottobre 2021.

(Luigia Sorrentino)

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ROBERTO CICALA
Da eterna poesia
Un poeta sulle orme di Dante: Clemente Rebora (Il Mulino, 2021)
Presentazione di Alberto Casadei

 

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Giorgio Agamben, “Quando la casa brucia”

Giorgio Agamben

 

 

Zajin

 

 

E che compie questa esperienza della parola, chi è, in questo senso, poeta e non soltanto lettore della sua parola, ne scorge la segnatura in ogni minimo fatto, ne testimonia in ogni evento in ogni circostanza, senza arroganza né enfasi, Come se percepissi con chiarezza che tutto ciò che gli capita, commisurato all’annuncio, depone ogni estraneità e ogni potere, gli è più intimo e, insieme, remoto.

 

 

Lamed

 

Il campo del linguaggio è il luogo di un conflitto incessante fra la parola e la lingua, l’idioma e la grammatica. Occorre liberarsi dal pregiudizio secondo cui la parola sarebbe una messa in opera, una diligente applicazione della lingua, quasi che questa presi stesse da qualche parte come una realtà sostanziale e come se, per parlare, dovessimo ogni volta aprire una grammatica o consultare un dizionario. E’ evidente che la lingua esiste solo nell’uso. Che cos’è, allora, quest’uso, se non può essere un’esecuzione fedele e obbediente della lingua, ma, al contrario, un venire a capo di essa-o, piuttosto, dei suoi guardiani, dentro e fuori di noi, che vegliano e che ciò che ci diciamo sia ogni volta ricondotto alla forma e all’identità di una lingua?

Ajin

I nomi non dicono le cose: le chiamano nell’aperto, le custodiscono nel loro apparire. Le proposizioni non veicolano un messaggio: l’essere-La-neve-bianca non è il contenuto della proposizione: “La neve è bianca”, che noi non pronunciamo mai in questo modo neutrale. L’esser-la-neve-bianca è il suo improvviso, gioioso, immacolato apparire allo sguardo in un mattino invernale. E’ un evento, non un fatto.

Nei nomi e nelle proposizioni noi andiamo aldilà dei nomi e delle proposizioni, fino al punto in cui le cose ci appaiono per un istante senza nome nel loro aver nome, indelibate nel loro esser dette, come un dio sensibile e sconosciuto. Continua a leggere

Ilaria Pacelli, da “L’alfabeto del buio”

Ilaria Pacelli

Alba d’inverno

Mi hai fatta nascere in gennaio
e ne porto in sorte i fiumi ghiacciati al posto
delle vene. Chi si avvicina sa il brivido
e il bene che arriva dal freddo.

Gli occhi che hanno perso l’azzurro
dal mare sono ridiventati mare, dell’onda
portano la risacca monotona
senza il suono di una parola.

Adesso che nel tuo corpo è sempre
inverno, a me non resta che tenermi
a quel filo sottile che unisce il sorriso
alle viole spuntate sopra i fossi.

Non c’è più l’urgenza di lottare, abbandonati
all’aria come bambini sull’aia. Lascia a noi,
anime affannate, che ogni gesto sia
una battaglia con la forza di gravità.

Tutto quello che importa
si conserva in un gheriglio di noce.
Adesso è notte, ma resiste la luce dell’alba.

 

La voce

Mia madre non parla più.
Le corde vocali non sostengono la voce.
Di tanti, un tempo vicini, non si sente più la voce
e questo, in fondo, è parte della nostra felicità.

Perché stride quando arriva diretta, la preferisco
portata dal polline, dal vento, dal vapore.
Arriva lieve come una tortora, si posa
sulla spalla, sussurra un nome, torna al cielo.

Promette che è vero ciò che accenna
aggiunge un indizio, un segno di penna
a questo giorno che impara ad andare
oltre la sera.

Sul cellulare leggo “Madre massacrata dall’ex davanti
al figlio di cinque anni” “ti può interessare?”.
Arriva sinistra come un corvo si posa sulla spalla, emette un verso, torna alla terra.
Decreta che è vero ciò che esibisce.
Ma io credo solo nel silenzio di quello
che muore, e fingo per me un fiore reciso,
rosso, sul comodino.

 

Suoni per una malattia

In assenza di parola, mi attengo
a semplici suoni. Li ascolto.
Gli asciugamani piegati, l’acqua
all’orlo, la tapparella in linea.

E giù, giù in piedi nel tempo
ad accogliere cenni, farne una gerla.
Osservo la tua vita, la stessa vita
cruda delle viole. Grazia e cura

la custodiscono, con la luce fanno
un paradiso in terra. Una brezza a stento
percepita porta la notte, e la confidenza
che hai con le tenebre ti fa bella.

Per bellezza ti prego, anche se è tardi:
insegnami come si fa nel buio a baciare il dolore.
Io che da tempo avrei dovuto imparare
come si sta in bilico sull’orlo dell’abisso,

sulla soglia di casa quando saluto, presi
dalla luce del giorno, mio figlio
il padre, di suo padre la stessa ombra
e mi trovo ancora a schivare la luce.

Estratti da : La parola del buio, con immagini di Dario Massi (LietoColle, 2020) Continua a leggere

Dimitri Milleri, da “Sistemi”

Dimitri Milleri

La sala d’aspetto
era un luogo di mimesi involontaria.
Era un silenzio privo di telefoni,
composto di frammenti: gesti usuali
in miniatura, archetipi di sedie
gerani immobili.
Nulla giungeva allo stato solido, violenta
era la forza di gravità in ogni volto,
irrefrenabile
la volontà di divinarla.

Quando non ci fu più distanza
fra esterno e interno
tutto si fece angusto, angusto e scomodo:
leggings a pois, riviste e prescrizioni
volevano restare corpi estranei.

Qualcuno poi spaccò la confluenza
con mosse improvvisate, gentilezze
dovute.
Bisognava essere buoni.

***

L’ipermnesia colpisce prima il cuore,
le statue degli affetti come fiori
finti nei cimiteri
le miniature esatte del vissuto.

Si perde il filo, tanto è quel nitore:
si dice mucchio di spire
che un corpo fa dormendo
terra magra,
rosso degli occhi chiusi.

Eppure, guardala nel troppo dei ricordi
la matassa di nomi battuti a pioggia, la spranga
ferruginosa, la data, la ricorrenza
che il disperdono fisso non arretra.

***

Se il vento muore la retta del mare
collassa e si provano tutte, ma resta
fisso comunque l’interno dell’occhio-mare.
Fra le stagioni si apre una distanza
come fra caste, il server fa le lucciole
tutto d’un colpo nel maggese, i forasacchi
dentro le orecchie dei cani.
L’estate
cade dal cielo come un’overdose.

Se il vento muore si provano tutte, ma resta
comunque fisso l’interno dell’occhio-mare.

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Alessandro Bellasio, “Monade”

Alessandro Bellasio

NELL’AMBRA

Sepolti
sotto queste bende, dove
il nostro odio
tende il filo
e si fa pensiero, verklärte Nacht
di un mercurio strano
che ci divora con i suoi granelli, una
pioggia
leggera e già inalata, che anche tu
misurasti a morte con il tuo respiro:
sei nell’ambra.

«Due grammi
di astinenza mutano
la mente in una torcia, scavano
con unghie vuote
dentro il sonno, e tu
sotterrato il lume
ti scopri da te stesso arato».

Gli occhi, talvolta, hanno mani,
entrano nei faggi
radunandone i magneti
mappano
la struttura del vento.

Una vertigine, perenne,
scendendo dalla macchina
spegne i fari, avvicinandosi
con un solo passo
mi sussurra

Non avrò
in questa vita mai
altra gioia
all’infuori di te

LITIO

Un luogo azzerato è l’ora
dove abbiamo respirato cenere, la
polvere, finissima,
di queste esalazioni
tra cui vivremo piano e cancellati… Avvolti
nella strana calma
di un sussulto, dove le sostanze
agiscono radiali, diventano sentenza
dipinta e improvvisa
nello stridio di noi: ecco,
da un alto giorno, venirci incontro
i nostri sensi
inginocchiàti, dentro il niente,
nei patriarchi – qui,
riversi sui giornali,
dove capiamo a stento il nostro esistere,
l’interludio, perenne,
di notizie e scorie
che vi crivellano civili
con i kalashnikov, gli F16.

Scocca
da lontano questo colpo, e
si alza sopra i legni
dove sbatte respirando
nel niente degli uomini, mentre
un urlo
pende dal soffitto, sempre
più preciso sempre
più vicino, squarciandosi la gota… Altri
cieli, poi, lunghissime
incursioni dentro la radice,
tra le raffiche – il soffio
di nessun ossigeno
in volo verso il paradiso, quando
punta il freddo
che vive nelle docce, l’attimo
che vi attraversa
senza generarsi, fino
al giorno del giudizio,
finché sia l’ergastolo
di ogni cellula e dei secoli
e l’universo torni
nel suo principio immobile.

Estratti da “Monade“, di Alessandro Bellasio (L’arcolaio, 2021)

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