Jeannette L. Clariond, da “Davanti a un corpo nudo”

Jeannette L. Clariond

Querría entregar mi cuerpo como has entregado el tuyo para un bien mayor. Pero es flaca la carne y débil este espíritu mío. No habría podido mover esa piedra que yacía sobre tu muerte y que sólo Magdalena supo descifrar, pues vio en tus ojos, oh profeta de las palmas, que todo cambia cuando miras.
Eres el dolor de ser mundo.

Vorrei donare il mio corpo come tu hai donato il tuo per un bene più grande. Ma spossata è la carne e debole questo mio spirito. Non avrei potuto spostare la pietra che giaceva sulla tua morte e che solo Maddalena ha saputo comprendere, poiché ha visto nei tuoi occhi, o profeta delle palme, che tutto cambia quando tu ci guardi.
Sei il dolore di essere il mondo.

***

Un cuerpo desnudo es un árbol sin corteza. Su silencio no pide la floración que recubra la desgarradura. Un cuerpo desnudo sabe que nadie puede ver su desnudez: dentro de su carne corre un río de soledades. A las tres de la tarde se oscureció aquel mar. A las tres en punto de la tarde tu desnudez inflamó de amor todo mi cuerpo.
Hay pasiones que queman la raíz, hay amores que arden más que mil hojas de pergamino.
Aun fuera del pote, ardería la flor.

Un corpo nudo è un albero privo di corteccia. Il suo silenzio non ha bisogno della fioritura che rivesta le lacerazioni. Un corpo spoglio sa che nessuno può vedere la sua nudità: nella sua carne scorre un fiume di solitudine. Alle tre del pomeriggio quel mare si fece oscuro. Alle tre in punto del pomeriggio la tua nudità gonfiò di amore tutto il mio corpo.
Ci sono passioni che bruciano le radici, ci sono amori che ardono più di mille pagine di pergamena.
Anche fuori dal vaso, arderebbe il fiore.

***

Cada tarde regreso a tu cuerpo y siento una inmensa aflicción al verte abandonado, sostenido del madero por ese clavo ardiente esperando que alguien desprenda los declives de la decepción. Pero, nacida como soy, carezco de la fuerza para ascender a tu reino, ese reino tuyo, vislumbrado mas nunca alcanzado. Yo no puedo con el peso de tu cruz, en mi corazón no ha nacido la rosa que, al desencadenarse el estruendo del mundo, llague tu cuerpo de misericordia.

Ogni pomeriggio torno al tuo corpo e sento un’immensa tristezza nel vederti abbandonato, sorretto sul legno da quel chiodo ardente, nella speranza che qualcuno possa allontanare i pendii della delusione. Ma, nata così come sono, non ho la forza di ascendere al tuo regno, quel tuo regno, intravisto eppure mai raggiunto. Io non ce la faccio con il peso della tua croce, nel mio cuore non è nata la rosa che, scatenandosi il fragore del mondo, piaghi il tuo corpo di misericordia.

***

Aprendí a beber mi propia sed. Aprendí que, para soñar tu rostro, era necesario negarme en el amor. Así me hice una contigo, así arrastré mis pies por el desierto. Ese desierto que tú habías sembrado de espinas para probar que el amor es así: un caminar ciego sin pedir nada a quien se ama. Entonces opté por callar, por devorar los mil demonios de mis miedos, acepté que tan sólo era una ancila de tu reino. Viví sin vivir, amé sin amar, me negué buscando aquella rama desnuda donde descansar mi marchito cuerpo.

Ho imparato a bere la mia sete. Ho imparato che, per sognare il tuo volto, era necessario negarmi in amore. Così divenni una con te, così trascinai i miei piedi nel deserto. Quel deserto che tu avevi seminato di spine per dimostrare che l’amore è così: un cieco camminare senza nulla chiedere a chi si ama. Allora ho scelto di tacere, di divorare i mille demoni delle mie paure, volli essere soltanto un’ancella del tuo regno. Ho vissuto senza vivere, ho amato senza amare, mi sono rifiutata di cercare il ramo nudo dove mettere a riposo il mio corpo sfiorito.

Davanti a un corpo nudo, a cura di Alessio Brandolini, Edizioni Fili d’Aquilone, 2021

??????? ? ?? ????? ???? della messicana ???????? ?. ????????, a cura di Alessio Brandolini. Un libro intenso e sensuale, non privo di tensione erotico-religiosa alla Alda Merini di cui l’autrice ha tradotto molti libri, poesia che vibra di passione e forza dove l’amore è “un cammino senza nulla chiedere” e il visibile e l’invisibile si fondono nel prodigioso mistero della poesia.

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Mario Postizzi, da “Aforismi”

Mario Postizzi

Nella corsa aforistica, vince chi sa trovare la scorciatoia che allunga i passi del pensiero.

***

Nella leggerezza della mano ritrovi il sotterraneo di una carezza.

***

La trasparenza, così sottile da non apparire.

***

Mette da parte le parole per dimenticarle. Si riconosce in un punto privo di esclamativi o interrogazioni. Ama Haydn con i suoi addii e una pagina che non si esibisce all’occhio nudo e non oscura il silenzio.

***

L’altezza della voce non deve mai superare la profondità dell’occhio che ti sta di fronte.

***

Chi scrive aforismi avanza nel cuore incerto di ogni parola, con le mani di piombo, su una gamba, a piccoli passi.

***

Desidero incontrarti in punta di penna, di primo mattino, con animo sereno come il volto del cielo spogliato dal temporale.

 

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Marco Marangoni, da “Sentimentalissima luce”

Marco Marangoni

                      A G. Pontiggia

Io vivo in una traversa
di via Vincenzo Monti – che è un po’ più lunga – …
ma abito in una via,

l’unica di Milano dove c’è soltanto una casa, la mia
……………
***

Maria Zambrano scrive
che c’è un presente perfetto
nella parola che ferma il tempo
ma senza far che diventi
immobile, stella fissa
(senza desiderio);
presente invece
che si installa
in quel che conta
(e che ieri non ti ho detto);
rito del bosco
e del sole,
del tramonto (…) remo che sembrava
spezzato
luce declinante tra gli alberi
freccia che vuole al centro del verbo

***

L’abbiamo capito una sera,
misurando e osservando le piante,
quel brocco di soli andati e di nebbie
che in settembre facevano vedere
(come sotto un velo)
il frutto d’oro delle mele.
Abbiamo parlato a lungo,
ma il mestiere e l’arte restavano indietro,
dove la proprietà finiva in ciascuno,
e c’era un senso che non era meglio alberi
e non era di nessuno.

***

Se non ci fosse un sogno più reale
e questo non fosse il fratello, in luce,
della morte…
da dove mai i canti e i nodi
e gli ordini
che insieme tengono le voci
e il cigolio dei cardini?
c’è un passaggio
in fondo ai segni
e a tutte le porte
che indica il doppio
del tuo stato (alterno), dell’alterna
tua sorte

da: Sentimentalissima luce, Punto a capo editrice, 2021

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Francesco Accattoli, “La Mar”

Francesco Accattoli / ph. Vito Panico

da: Natanti

L’odore è piantato nel freddo.
Sulla balza del porto
si asciugano le strade, le case bianche.
I gatti dietro i vetri, nessuno
per strada, fuorché il mare.
A volte il dolore della febbre
sale, a volte il nulla arriva
come pioggia, è un nulla
vegetale, verde, vivo,
vicino al molo nel pieno del nord.

Il mare si crepa d’angustia,
non vale lo sforzo di ricucirlo.
Le maglie hanno ceduto.

***

D’inverno i granchi dormono
tra gli scogli, per le ossa è un inferno.
Scendo, a volto scoperto,

nel nord che ci fa il mare grande.
Lo guardo farsi trama, ascolto
i cambi d’intonazione. Le parole

hanno il passo delle maree.
D’improvviso il silenzio sul bianco,
come un tappeto d’organza.

***

A fine corsa, due nuvole
di storni, plasmate da un levante
che mischia le onde e le deforma.

Crepe di creta nella falesia.
L’inverno a guardare il cielo.

***

A meno che non si dica di andare
lì dove si raccolgono i vènti,
chiedere in ginocchio che si calmi
il suono che percuote le porte, che trattiene
il passo sulla terra fermo e gravi
il peso del pianeta;

a me prende il male di parlare
a meno di un miglio dalla costa.
Laggiù sono stati lampi tutta la notte,
di qua luci a mala pena, mogli
piccole case. Io sto di guardia,
che non ci fuggano dalle reti.

***

Si svegliava e prima del caffè cercava il mare con lo sguardo. Era un rito tutto umano, lo faceva prima ancora di parlare. Il mare era stato con lui nel letto, le reti si erano mosse durante la notte, la febbre della terra lo coglieva al primo sonno. E si trovava a camminare sull’asfalto, salire nel cemento, fino al terrazzato, sentire duro sotto i piedi e sbattere di porte in una bora ingrata. Tirava calci avvolto nella tela, tendeva le gambe, cercava la sentina, il fondo sudicio di cherosene. Con entrambe le mani lo sentiva sdraiarsi sulla chiglia, compiere l’amplesso della mareggiata. Sudavano le persiane un cigolio di pescatori, schiumava il tanfo della notte sulla terraferma.

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L'”Ulisse”, il capolavoro di Joyce, torna nella traduzione di Alessandro Ceni

In vista del centesimo anniversario della pubblicazione, nel febbraio 2022, il capolavoro di Joyce torna in una nuova traduzione a cura di Alessandro Ceni.

Dublino, 16 giugno 1904. È la data scelta da James Joyce per immortalare in poco meno di ventiquattr’ore la vita di Leopold Bloom, di sua moglie Molly e di Stephen Dedalus, realizzando un’opera destinata a rivoluzionare il romanzo. È l’odissea quotidiana dell’uomo moderno, protagonista non di peregrinazioni mitiche e straordinarie, ma di una vita normale che però riserva – se osservata da vicino – non minori emozioni, colpi di scena, imprevisti e avventure del decennale viaggio dell’eroe omerico. “Leggere l’Ulisse,” scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva (qui pubblicata integralmente), “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”.

Una sfida insomma che, con il procedere della lettura, si trasforma in un vero e proprio godimento. Lo stesso di Joyce che, parlando del suo capolavoro, disse: “Vi ho messo così tanti enigmi e rompicapi che terranno i professori occupati per secoli a chiedersi cosa ho voluto significare; e questo è l’unico modo per assicurarsi l’immortalità”.

 

 

Nota introduttiva
di Alessandro Ceni

Ancora oggi il realista guarda solo verso
la realtà esteriore senza rendersi conto di
esserne lo specchio. Ancora oggi l’ideali-
sta guarda solo nello specchio voltando le
spalle alla realtà esteriore. L’atteggiamen-
to conoscitivo di ambedue impedisce loro
di vedere che lo specchio ha un rovescio,
una faccia non riflettente, che lo pone
sullo stesso piano degli elementi reali
che esso riflette.

                                           Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio

La storia, disse Stephen, è un incubo dal
quale sto cercando di svegliarmi.

James Joyce, Ulisse

1. Abracadabra

Leggere l’Ulisse è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto. Spesso a rovescio. Per poi allontanarlo. E quindi riavvicinarlo. In un continuo movimento, anche muscolare, di avanti e indietro, o meglio, di indietro in avanti. Movimento durante il quale si ha coscienza e si dà contezza dello spazio e del tempo in cui esso avviene e dei sensi in atto. Questo processo diciamo ottico-cognitivo, incantatorio com’è proprio della sua qualità cinetica, incessantemente mettendo a fuoco e mandando fuori fuoco (offrendoci di volta in volta primi piani della fibra stessa del tessuto e campi lunghi dell’insieme dell’intreccio) ci conduce alla tutt’altro che stabilizzante condizione di trovarsi dentro e fuori dal testo contemporaneamente. L’Ulisse è la trama di una tela vista in simultanea nel recto, nel verso, alla luce ultra- violetta, a luce radente, e così via; tela che ha per telaio, che possiede per impianto portante, le due assi verticale-orizzontale delle due parole di apertura, “Stately” e “plump” (in questa traduzione “Sontuoso” e “polputo”), vale a dire l’alto/ basso, il drammatico/comico, l’eroico/farsesco del sopra/ sotto umano. Il dramma (nel senso stretto di rappresentazione seria di un avvenimento) e il comico (il suo contrario, la commedia dell’arte italiana) che vanno sobbollendo nel medesimo calderone danno origine per metamorfosi o trasformazione a una pozione che è la condizione del tragico quotidiano, quella condizione da tutti esperita dove l’antica matrice greca della ineluttabilità del destino e il moderno senso di illusorietà dell’esserci si fondono. I fili della trama del tessuto della tela sono i tanti e vari registri e colori (stilistici, linguistici) che animano questa stoffa fino a farcela balenare davanti per quello che potrebbe essere, per l’unicum che è: tutt’altro che “a misfire” (“un colpo mancato”, “una cilecca”), com’ebbe a definirlo Virginia Woolf, bensì uno straordinario e irripetibile colpito-e-affondato della scrittura. Un impensabile, fino ad allora (la data di pubblicazione è il 1922), tappeto magico.

2. Abracadabra

Nel leggere l’Ulisse ci si accorge che le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano: com’è specifico della poesia, accade che le parole (anche una sola parola) illuminino violentemente rivoltandole le pagine, accendano orbitando di significato il tutto, incendino sul proprio asse l’immagine. Grande è la frequenza qui con cui la parola ci induce a percepire, grazie a una capacità sinestesica precipua della scrittura poetica, e in un modo a tal punto insistito che si potrebbe considerare l’intero testo alla stregua di un’unica poesia (niente a che vedere col poema), un’unica poesia dilatata, iperbolica, strutturata nelle 3 parti (I, II, III) ovvero macro-strofe del racconto divise in 18 episodi (3, 12, 3) ovvero scene ovvero macro-versi, dove ogni episodio è in realtà un lunghissimo, pantagruelico solo verso, ricchissimo di rime interne, assonanze, metafore ecc. che vanno materilizzandosi (cioè, vengono narrativamente rese) in persone, personaggi, casi, situazioni, frasi, espressioni ecc. L’impressione è che Joyce, superata nel 1916 la prova sperimentale del suo A Portrait of the Artist as Young Man, abbia voluto trasportare e ricomporre in prosa per il tramite tecnico della poesia una sua musica interiore, dove il geniale monstrum, il prodigioso ordito prodotto dall’unione di uno spartito sinfonico con un pezzo di chamber music ma dodecafonico – e Chamber Music è, come si sa, anche il titolo del primo libro di Joyce, una raccolta di poesie uscita nel 1907 –, miscela il recitar cantando (Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi) al melodramma pucciniano, le malìe di Ravel all’astrazione di Schönberg e alle fiamme di Stravinskij. È per questo che le sue parole nella pagina rivoluzionano: l’uso totale della lingua, declinata nei suoi multiformi linguaggi, fa della lin- gua in sé il racconto, il narrato (si presenta, diciamo, al pari di una Odissea della lingua, il cui canto è come se fosse per sortilegio in perenne esecuzione). E ancora: pittoricamente parlando, sembra quasi di assistere alla, per dir così, messa in scena di una pala d’altare giottesca, con la sua predella e le sue formelle (il cui ordine però è stravolto), dipinta da un cubista, di modo che lo stesso oggetto è osservato contemporaneamente da più punti di vista per ottenere una scomposizione che compone: un cubista con solidissime fondamenta figurative classiche (la mente va al Picasso di Les demoiselles d’Avignon).

3. Abracadabra

Dal leggere l’Ulisse – dai suoi nodi-parole della trama del tessuto del tappeto, dal suo inesorabile decontestualizzare e ricontestualizzare con la sua feroce conseguenza di spostamento di significati fino al rovesciamento e alla parodia (all’acuminato vertice della parodia della parodia), e oltre, fino alla purezza del travestimento e dell’imitazione (mai qui della dissimulazione o della falsificazione, perché qui tutto è onestamente e crudamente “reale” e “vero”), cioè a una sorta di sincronico incamminarsi sul filo senza bilanciere e farsi sparare dal cannone –, dal leggere l’Ulisse se ne può facilmente sortire con le ossa rotte e con la inquietante sensazione di non averci capito niente ovvero con la irritante sensazione di non possedere adeguate facoltà intellettuali, se non addirittura intellettive, oltre che con la ragionevole tentazione di liquidare il tutto come il coltissimo delirio di un letterato irlandese ebbro. In realtà, superato l’iniziale e, mi si passi, iniziatico sforzo di approccio, ponendosi in piena libertà e disponibilità nei confronti della sensibilità del testo, ci si può impadronire (e farsi irretire, esattamente farsi “prendere nella rete”) della profonda grandezza e bellezza di questo punto di non ritorno della letteratura mondiale di tutti i tempi. Da una parte il lettore tenga sempre ben presente che il modernismo joyciano, sodale della linea guida che andava allora tracciando il poeta Pound, ha salde basi evidenti e dichiarate oppure misteriosamente alluse proprio nella tradizione che va scardinando (avvelenando l’impianto stilistico dei grandi narratori dell’Ottocento europeo), secondo un procedimento comune a ogni opera d’arte autentica, e che qui, com’è ormai arcinoto, è costituita da uno zoccolo ovvero piattaforma (tettonica) o pangea formato dal Vecchio e Nuovo Testamento amalgamato alla totalità dell’opera shakespeariana (sulla quale Joyce abilmente riesce a innestare una speciale commistione ottenuta con le accese tinte di una novella chauceriana e le fosche di un truce dramma elisabettiano), passando per il mondo classico greco-latino, la mitologia gaelica e Dante e innervato da scrittori come Defoe, Sterne, Dickens, Rabelais, Cervantes, Balzac, tanto per rammentarne quasi a caso qualcuno; quindi il metodico lavoro di distruzione e di ricostruzione (di rinnovato utilizzo delle pietre del castello letterario) che caratterizza questo inedito omerico bardo del disastro dell’esistere poco o nulla ha a che spartire con l’inane macello di un avanguardista. Dall’altra parte un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza, a imbarcarvisi provando dunque quel particolarissimo stato d’animo che si ha nel navigare, di identificazione di sé con la nave (io sono la nave/la nave sono io, la nave mi ha/io ho la nave): sono portato dal mezzo e ne divengo il mezzo. Al lettore è richiesto, insomma – an- che se è possibile che ne riemergerà come sfiorato dalla baudelaireiana “ala del vento dell’imbecillità” e stordito, claudicante, balbuziente – di calarsi nel buio della parola, nell’abisso della lingua, di scendere nell’agone di quelle pagine come un antico atleta di Olimpia: nudo. Si esige qui il cedere e l’affidarsi alla consapevole scelta del precipitare (in quel “Sì” con cui si chiude il viaggio?), evitando di controllare gli strumenti, le bussole e i portolani o i radar sollecitamente forniti dallo sterminato contributo critico e dall’apparato di commenti, glosse, note (utili, senza dubbio, ma giustificabili quasi del tutto da, legittimi, criteri editoriali), eludendo se possibile il sotteso, e presunto, schema compositivo che ricalcherebbe episodi dell’Odissea (e che a me pare invece presentarsi come un ulteriore depistaggio, a posteriori, joyciano, una ulissica trappola nella trappola, tanto ammiccante quanto grottesca, e proprio per le sue caratteristiche di erranza ed enigmaticità), e persino la figura medesima di Ulisse, che andrei casomai a rintracciare, anziché nell’eroe omerico, nell’arcaica figura mitica di un dio solare, cioè della nascita e della morte, antecedente alla colonizzazione greca dell’Egeo, pertanto da far risalire a prima dell’epica che lo riguarda. Il lettore infine cessi di continuare a guarda- re del prestigiatore il cilindro con la puerile speranza di capire come e perché ne esca il coniglio.