Jorie Graham

Jorie Graham

CAGNES SUR MER 1950

Sono l’unica a ricordare
la voce di mie madre nell’ombra particolare
dell’arco romano ricolmo di cielo
che oscura le pietre sulla strada in discesa
da dove lei ora risale all’improvviso.
Come l’arco, la voce e l’ombra
violentamente afferrano il piccolo triangolo
della mia anima, un film muto dove note di piano
diventano un corpo impazzito
per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui
si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo
rileggo il libro del tempo,
il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui
natura non so rintracciare – o la forma – o l’origine –
prendo la creatura e la riporto
sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa
e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima –
che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto
quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ropercorro
quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie,
stupori – che io non sprechi gli stupori –
che non uccida per errore fratello, sorella – mi
siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio,
macchia scura dove una storia non diventa ancora un’altra,
e parole, non giunte a me ancora, ancora non proveranno a dirmi
da dove vengono le cose, né dove vanno,
dove risplenderà il flusso dell’inclinazione
nella sua veloce discesa. E mi sembrerà
tutta una leggenda,
una di quelle in cui non c’è modo di voltarsi indietro
ma voltarsi si deve, pagando sì, ma voltarsi si deve…
Era d’estate in un paese in collina al sud.
Era prima che io conoscessi la conoscenza.
La mente correva ovunque e restava immobile al centro.
E non era scomodo.
Un uccello cantò, si aggiunse all’ombra
sotto l’arco.
Penso da questa distanza
che ero felice.
Penso da questa distanza.
Ero seduta. Era prima di saper camminare.
Solo la mia anima camminava ovunque senza peso.
Dove declinava la strada tutto spariva.
Proprio come immaginavo dovesse accadere.
Apparire e sparire.
Nella mia unica vita.
Quando s’avvicinò la voce di mia madre aveva un corpo.
Aveva braccia e abbracciavano qualcosa
che doveva essere un cesto. La mia mente ora
può girarle intorno, e davanti, e avvolgerla
come le sue braccia avvolgevano quel cesto.
E doveva essere di vimini
perché nella luce vedo molte sfumature di marrone, le punte bianche
quando esce dall’ombra
dove non si vede nulla eccetto le sue mani
e il suo portare. E quando il suo corpo arriva
arriva con tanti limoni tutti illuminati, interamente avvolti nel sole,
che il pesante cesto ancora contiene,
e le sue unghie brillanti intrecciate,
e lo sguardo sul viso mi cerca,
sguardo simile a quelle cose brillanti che portava
davanti, un nuovo ventre.
Tutto ciò che avrei inventato in questa vita è la nel cesto di vimini fra i limoni.
Venuto da sotto l’orizzonte, da dove sale il rumore del mercato
su all’intima aria dove lei si muove,
dove lei è ancora una donna intera, una donna di volontà,
e io sento gridare quel che devono essere prezzi e nomi
di fiori e frutta e carne e animali chiusi in piccole gabbie,
tutto sotto di noi, dal fondo del villaggio, da quella parte
per me così comoda che è invisibile,
dove ogni cosa deve essere venduta per mezzogiorno.
Penso fosse in quel momento che mi fu dato il mio nome,
quando ho sentito la prima volta i prezzi portati dalle voci
mentre la sua faccia s’apriva in un sorriso chinandosi verso di me
per dire eccoti, eccoti.

(traduzione di Antonella Francini)

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Ben Lerner, “Odiare la poesia”

Author Ben Lerner visits the the Metropolitan Museum of Art in New York, Aug. 5, 2014. Lerner, the poet turned novelist, was at the museum to visit the painting at the heart of his new novel, (Jake Naughton/The New York Times

Traduzione dall’inglese di Martina Testa

Ben Lerner scruta i sentimenti che abbiamo per la poesia come punto di partenza per una difesa del mondo dell’arte. «Odiare la poesia è una grande critica del genere poetico, e una delle sue difese più appassionanti» (Bookforum).

Nessuna forma d’arte è stata denigrata quanto la poesia. Gli stessi poeti sono i suoi primi critici, e sembra esistere una sorta di condivisa sprezzatura, come di fastidio per la sua presuntuosa inutilità. «Io stesso» ha ammesso Ben Lerner «la detesto pur avendo organizzato la mia vita sulla poesia. Non considero questo una contraddizione perché la poesia e l’odio per la poesia sono fusi insieme ed è questo che voglio arrivare a spiegare». Continua a leggere

Golan Haji, “Le poesie che scrivo iniziano, come me, ad allontanarsi dalla Siria. Sento che la fine si avvicina”

Golan Haji

di Luigia Sorrentino

Ho incontrato per la prima volta Golan Haji poeta curdo- siriano (migrato  in Europa nel 2011) a Roma, il 15 maggio 2017, in occasione dello spettacolo CANTI D’ESILIO, con musiche di David Lang, Carlo Galante, Carlo Putelli, Matteo D’Amico. Lo spettacolo proponeva per la prima volta al pubblico versi di Golan tradotti in italiano.

Poco tempo dopo, ho incontrato nuovamente Golan Haji a Parigi, città dove vive. Il nostro secondo incontro ha generato questa sorta di “Racconto autobiografico” che Golan ha scritto in inglese, qui riportato anche nella traduzione in lingua italiana.

Naturalmente prima di conoscere personalmente Golan, avevo già letto il suo primo libro di poesie pubblicato in Italia: “L’autunno qui è magico e immenso”, traduzione dall’arabo di Patrizia Zanella, a cura di Costanza Ferrini (ed. Il Sirente, 2013).

La lingua madre di Golan è il curdo, ma le sue poesie sono scritte in arabo. Qualche volta Golan le traduce in inglese.

Leggendo la poesia di Golan ho incontrato l’orrore e la disperazione della guerra in Siria, il silenzio che tutto copre, ma anche la bellezza e l’amore. La guerra è per il poeta siriano un colpo contundente che colpisce e ferisce la sua terra d’origine, ma la sua lingua è magica, lenisce le ferite e cammina, viene verso di noi e ci tocca, intimamente, ci tocca.

Scrigno di dolore

Ti sostengo,
seppure debole come te, io ti sostengo.
Non come una mano che sorregge il mento di un saggio,
né come un invalido che aiuta gli invalidi,
né come un bastone che un cieco
infila nelle foglie cadute sul marciapiede,
né una palla su cui i pagliacci stanno in equilibrio
come se fosse un unico pianeta
a ruzzolare su questo folle pianeta.

Io, che sono lontano,
ti sostengo nella solitudine,
come un dito che va sulla gota di una vedova,
vibrando come una freccia appena scoccata,
mentre gli brilla sulla punta un cristallo di sale
che risale all’occhio che l’aveva versato
inondato di ombre e ali.

 

di Golan Haji

La mia prima raccolta di poesie si intitola “Chiamò nelle tenebre” ed è stata pubblicata nel 2004. Ha vinto il premio Mohammad Al-Maghout.

Al-Maghout era un importante poeta siriano, considerato un pioniere del verso libero e della prosa nella poesia araba modernista. Prese parte al movimento che c’era dietro la rivista Poesia negli anni ’50. Quel movimento modernista cambiò profondamente la poesia araba nella seconda metà del XX secolo, sebbene Al-Maghout non dimostrò mai interesse per nessun movimento. Diceva che l’unica ragione per cui era diventato membro del Partito Nazionalista Siriano era il camino nel suo ufficio, per lui che nella sua città natale era uno senza un soldo. Continua a leggere

Tudor Arghezi

Vengono, eccoli, sempre da soli
verso di me tutti i frantumi,
briciole slabbrate ed intere
di cose che stenti a capire.
Sono come li ho dimenticati
da quando si sono addormentati:
un vecchio cimitero di bambole.
Ora cominciano a muoversi,
a prendere corpo dall’ombra
e da un brusio come d’alveare,
e si ricompongono a poco a poco.
Zoccoli con aureola d’angelo,
frammenti di icone che serbano, a rimorso,
di benedizione una traccia e maledizione,
una lacrima fissata in pittura,
una mano ferita, uno sguardo,
a campane, pare, lontane,
e qualche pagina di libro.
Un coccio risuscita un’anfora rotta.
Stormisce anche l’edera morta
e a una a una, destandosi, le voci spente
mormorano pare e pare che ridano.
Mi vedo ora convitato alla Cena,
ora centurione nella persecuzione.
Provo di nuovo la camicia d’allora,
stretta, con una ferita d’allora,
e dimenticata
nel cuore del tempo, silenziosa.
E se porto la mano allo squarcio
di non so quale lotta,
mi scivola molle sul sangue.
Là si raccoglie
tutto ciò che da sé si aduna,
frammenti di Scrittura e schegge di luna.
Non posso ingannarmi.
Il gelo mi brucia: un blocco d’argento,
e nella nebbia le dita
diventano sopra le unghie carbone di ghiaccio.

Tudor Arghezi
Traduzione di Marco Cugno
da “Accordi di parole” Einaudi, Torino, 1972

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