Dario Bellezza (1944-1996)

Dario Bellezza

Salgo e scendo le scale di una casa non più
castello di forti speranze o robusti amori, ma
che tessendo le fila dei miei disfatti giorni
annunzia inesorabile la voragine della sventura.
Lì, durante la scalata faticosa al vecchio
maniero abitato dai fantasmi sento voci precise
che appartengono all’incubo di notti cadute
addosso alla mia infanzia celeste nutrita
di ardori sconosciuti e angelici languori.

Fantasmi di amori morti, amicizie consumate
dal tempo rapitore di gioventù, inesorabile
abitatore di malate menti sconvolte dal nulla.
Dio non c’è, non c’è speranza per me se rientro
a casa furtivamente, sospetto di morire
per mano di un giovane assassino dietro
un angolo buio. Così appena arrivato, pieno
di sgomento ed eccitato dal mio sangue
non versato, alzo a me stesso la preghiera
solitaria di chi noti’ s’innamora più
del suo assassino innocente e reale. Continua a leggere

Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”

Giovanni Ibello, Credits ph. Dino Ignani

Prefazione di Luigia Sorrentino

In questi versi ulcerati di Giovanni Ibello c’è un sopravvissuto che invoca la rivoluzione dal margine dell’abbandono. La città sulla quale riversa lo sguardo il poeta non è patria madre per Amin – figura centrale del poemetto – ma nemmeno per l’altro protagonista di questi versi che condivide con il compagno la frustrazione della cancellazione. Il primo frammento del poemetto è già un avvertimento per il lettore: “La poesia è un lunghissimo addio”. La parola di questa poesia rivela fin da subito la cronicità della separazione, addio, miseria, segregazione si annidano in questi frammenti insurrezionali. I versi sorgono quindi da un grido di addio, dalla rinuncia a “fare alta la vita”, contratti come sono nel loro stato di alienazione, fino allo spasimo dell’ultima variante. Una parola potente che tocca la condizione umana tesa sul cavo di un burrone, una parola folgorante che si fa carico di qualcosa che non riguarda solo la capacita versificatoria di Giovanni Ibello. La lingua del poemetto, ha infatti, una prospettiva ampia, che parla di una generazione disposta a morire e a risorgere con Amin, con versi memorabili come questi: “Ci lega la parola feroce, una giostra di penombre./ L’incanto di una teleferica,/ l’esatto perimetro di un grido,/ tu che muori / in quell’assillo di aranceti / che ritorna.” Il cifrario della poesia di Ibello è uno Yucatan, inteso come luogo irraggiungibile e impenetrabile, che però, alla fine, trova nella cancellazione la tenerezza della visione: “Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo una foresta di spine nel buio oltremare.” Ecco che la voce del reietto si fa espressione di una mutazione creaturale e lascia intravedere “un rammendo di secondi luce” che lenisce le ustioni provocate dalla violenza dell’esperienza terrena. Versi che rivelano che la speranza nasce dai disperati, dagli abbandonati: saranno loro a trovare “un altrove di spine e diademi.”

Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello (premio Poesia Città di Fiumicino 2018, sezione “Opera inedita). Continua a leggere

Kathleen Jamie, da “Falco e ombra”

Kathleen Jamie

Hawk and Shadow

I watched a hawk
glide low across the hill,
her own dark shape
in her talons like a kill.

She tilted her wings,
fell into the air –
the shadow coursed on
without her, like a hare.

Being out of sorts
with my so-called soul,
part unhooked hawk,
part shadow on parole,

I played fast and loose:
keeping one in sight
while forsaking the other.
The hawk gained height:

her mate on the ground
began to fade,
till hill and sky were empty,
and I was afraid.
Osservavo un falco
planare lento lungo il pendio,
la sua forma scura
negli artigli come una preda. Continua a leggere

Vittorio Bodini (1914 -1970)

Vittorio Bodini

Piano si staccano
i tocchi
da un orologio e nuotano
fra pioggia, vento e vetri di finestre.
Le terrazze tamburellano
come teli da tenda
e il grido dei fanciulli:«Aea!» si perde
nelle vie
come pei corridoi
d’un castello assediato.
Inverno assediatore
vecchiaia dell’anno,
mette angoscia nei sensi,
chiude il domani.

Ma lasciamo un momento questa città.
Andiamo nel sonno,
andiamo a vedere che succede.

*

Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s’accende un lume.
Un bisbigliare fitto, di mille voci,
s’ode lontano dai vicini cortili:
tutto il paese vuole far sapere
che vive ancora
nell’ombra in cui rientra decapitato
un carrettiere dalle cave. Il buio,
com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono
le luci delle case e dei fanali.
Le bambine negli orti
ad ogni grido aggiungono una foglia
alla luna e al basilico.

Vittorio Bodini, due poesie da La luna dei Borboni, Edizioni della Meridiana, Milano, 1952. Continua a leggere

Giornata della Memoria, Itzhak Katzenelson e Paul Celan

Itzhak Katzenelson e i suoi due figli uccisi dai nazisti

Quest’anno in occasione della  Giornata della Memoria, ho prodotto per la Rai – con il montaggio di Simona Belliazzi – due servizi giornalistici in memoria della Shoah.

Ho scelto di ricordare questa giornata attraverso la lingua di due grandi poeti , profondamente diversi fra loro, che furono, diversamente diversamente coinvolti nella strage degli ebrei d’Europa:  Itzhak Katzenelson e Paul Celan. Essi infatti, raccontarono nella loro poesia la strage degli ebrei perpetrata durante il periodo fascista e nazista, con due lingue opposte che però affermano la medesima condizione.

Katznenelson, da un punto di vista anagrafico più adulto di Celan – nato in Polonia nel 1886, viene ucciso nel campo di concentramento di Aushwitz nel 1944 – vive la deportazione e l’internamento lasciando in eredità un canto:  “Il canto del popolo yiddish messo a morte”. Katzenelson  quindi, racconta l’orrore con una lingua materna, un canto di culla, “affettivo”, lo yiddish, la lingua parlata da 11 milioni di ebrei  d’Europa prima della Shoah e dopo la Shoah totalmente cancellata.

ITZHAK KATZENELSON
SERVIZIO di LUIGIA SORRENTINO
MONTAGGIO di SIMONA BELLIAZZI

Paul Celan

Paul Celan, invece, nato nel 1920 in Ucraina, riesce a sfuggire alla deportazione e ai campi di sterminio, anche se viene spedito in diversi campi di lavoro in Romania – figlio unico, perderà entrambi i genitori catturati dai nazisti: il padre morirà di tifo e la madre, alla quale Celan era legatissimo, viene fucilata nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina -. Celan quindi, pur essendo un sopravvissuto, è fortemente traumatizzato dall’esperienza della Shoah. Tutte le sue memorabili poesie le scriverà in tedesco, nella  lingua del suo aguzzino,  come “ testo a fronte” della sua drammatica esperienza:  la patria perduta, la madre morta nella deportazione, il popolo ebraico sterminato, nella cancellazione totale della lingua e dell’identità ebraica.

PAUL CELAN
SERVIZIO di LUIGIA SORRENTINO
MONTAGGIO di SIMONA BELLIAZZI