Ancora due passi. Per Franco Loi.

Franco Loi

di Alessandro Santese

 

 

Consegnato alla sua giacca a vento grigia, la sciarpa multicolor lunga ai due lati del collo che spiove fino alla cintola, Franco Loi cammina su e giù, sopra un palco che potrebbe essere una via tra le tante che sapeva a memoria di Milano. C’è un incontro; lui parla; il titolo è: «Il silenzio dell’amore». Ma non parla soltanto, cammina, su e giù, da un lato all’altro, senza sosta: e si lascia sottilmente invasare. Camminare lo riporta alle sue vie, pensa, forse, qualcuno. Una scrivania, al centro esatto del palco, dell’acqua e un bicchiere rovesciato sulla testa della bottiglia, una sedia e tutto l’occorrente, lo attendono. Non li vede neppure. Entra ma come non entra davvero; comincia a parlare. Non si accomoda, declinando gli onori di casa. Tiene il cappotto e la sciarpa. E forse rifiuta, in silenzio, con grazia naturale, senza volere, la cerimonia degli arrivati, di chi è costretto a parlare poi borghesizzando i fatti in poltrona, dal pulpito morbido: vuole fare su e giù, continuando a scalpitare anche lì senza tregua, è probabile, le sue strade mentali, zeppe di rioni rumorosi o festanti, silenzi definitivi, occhi ridevoli, risa violente e pane caldo. Vento, tram, bèj tusann; balere; la guerra dentro.
Quarantacinque minuti. Su e giù, e ancora, continua, su e giù: mentre parla, ce ne accorgiamo, egli si lascia parlare, con la sua voce da giradischi magato unghiato dalla puntina, flautata nel timbro, dolcemente spiritesca. I temi sono quelli che lo muovono, grandissimi, da sempre: il silenzio mentale, lo spiro di amore dantesco, le dimensioni intersecanti del tempo, la dettatura dell’anima e dei versi, i morti e l’innamoramento, riportati tutti ad altezza d’uomo e a misura di vita con la disinvoltura di uno sciamano senza difese cresciuto nei sobborghi, quasi stesse, con la stessa naturalezza, continuando il porta a porta dei tempi del PCI, solo ora con l’anima e i suoi segreti da confidare.
E difatti cammina al bordo quasi del palco, come per immergere anche se stesso nel flusso di chi lo ascolta. Dunque termina: e se ne va, così come era venuto, senza stacco di cinepresa, il cappotto troppo grande ancora addosso, senza nulla toccare degli strumenti di chi si vuole a casa, lasciandoli lì intatti, dietro di sé, pungolato invece da un demone che lo spingeva con furia dentro sé e che chiamava, anche lui, poesia.
Chi sedeva ascoltando, io credo, stupiva. E lì sotto, non lontano dal flusso, quel giorno, al centro Asteria, stupivo sorridendo di gioia anche io.   Continua a leggere

Luna su Viale Misurata

Franco Loi

di Paolo Senna

 

Dal balcone vedo la casa di Franco Loi, il civico 60 di Viale Misurata, una strada a veloce percorrenza che sorge sopra la canalizzazione dell’Olona solcata senza sosta da lunghe file di automobili. Oltre al viale, tra casa sua e la mia, una piazza con la giostra dove spesso dall’alto potevo vedere Silvana, la moglie di Franco, passare per la spesa o per altre commissioni. Oggi vedo quella casa che per me come per molti altri resterà sempre “la casa di Franco Loi” così come una volta, accompagnandolo a casa in macchina dopo una serata di letture, passando da Viale Gorizia lui disse: “Questa è la casa di Vittorini”. Milano era la sua città, quella che lo aveva visto crescere e diventare uomo, quella che sarà sempre la città dell’Angel, con le partite interminabili a pallone, le rappresentazioni teatrali fatte da ragazzo un po’ per gioco e un po’ sul serio nella vecchia Via Teodosio, gli sguardi così densi di aspettativa e di vita dei primi amici e dei primi amori. Di Milano Franco conosceva i motti e le facezie, le pieghe cerebrali e intestinali, i personaggi che l’hanno popolata, che hanno riempito gli uffici delle case editrici e i locali delle osterie. Milano è stata anche il paradigma della città, del luogo dove si incrociano i destini degli uomini, dove iniziano e finiscono le dittature, dove la voce, e le voci, posso trasfigurarsi in vûs della poesia.

Molti hanno sentito il bisogno di scrivere di lui dopo il 4 gennaio, come a continuare un dialogo che per forza di cose si è interrotto e perciò scrivere di lui è diventato un modo per scrivere a lui, anche se nell’immediato non sarà semplice attendersi risposte. È comunque una cosa di cui non sono molto sicuro perché ci sono molte più cose tra cielo e terra (con quel che segue); e Franco lo sapeva benissimo.

La sua poesia è pervasa da un inevitabile trasporto metafisico; inevitabile non perché prestabilito a priori, come assunto di una fede o di un fideismo teorico o arbitrario; ma come semplice ed elementare dichiarazione della vita. In questo senso tale valore che chiamiamo a buon diritto spirituale è stato uno dei punti fermi della sua poetica (e si veda proprio in questo blog il ricordo di Umberto Piersanti). Basterà rileggersi quello Strolegh che nel dialetto milanese è “l’indovino”, ma è anche il folle, il personaggio bizzarro che vive fuori dalle righe e al limite fra due mondi, proprio come sarà per l’Angel ma anche per il puèta: che è sì l’“òm inamurâ” ma è anche quello stesso uomo che “la matina s’alsa desperâ”. Basterà rileggersi i moltissimi testi brevi da L’aria a Isman fino a Voci d’un vecchio cantare, dove ad ogni passo il poeta che attraversa il mondo osserva e al contempo si lascia osservare da quanto accade attorno a lui: una finestra che si apre, il colore cangiante di una nuvola, il volo degli uccelli, il canto di una voce, il passare di una figura femminile. E, su tutto, l’esclamazione di sorpresa che trafigge come quell’acerba puntura interiore che proviene dalla bellezza più tesa (“quèl mal che vègn de la belessa”) e che nasce quando si ha davvero esperienza di una compiuta, e inspiegabile, contemplazione:

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Una poesia per Franco Loi

Franco Loi, Milano,  Spazio Oberdan (viale Vittorio Veneto 2 –  in occasione della proiezione del film documentario a lui dedicato: ‘Il viaggo del poeta‘ (durata: 71’).

di Davide Rondoni

 Franco, poeta de l'Angel e dell'aria,
 era acuto di vita il tuo sentire
 veniva da un rimuginare senza
 quiete e senza amarezza
                        era una bellezza
 dei colletti aperti,
 della carezza che va via dove va, degli occhi
 che mai incerti
 cercavano umani gli occhi -
 un diapason preciso che veniva da chissà
 risuonava in te
 mentre compilavamo la nostra
 democratica antologia, poeti
 semisconosciuti, voci di malinconia -
 e di gratitudine,
                       profezia dei semplici.
 Caro Franco,
 di libertà noi complici...

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Gli ultimi giorni di Franco Loi

Franco Loi

di Vivian Lamarque

Qualche parola solo per ricordare alcune cose dei suoi ultimi giorni. E la sua grande moglie Silvana Corti, cui lui chiuse gli occhi tre mesi fa, il 26 settembre. Pur seriamente malata da anni, fu dedita al marito, con grande discrezione, fino all’ultimo.

Gli ultimi giorni di Franco me li ha raccontati la figlia Francesca che era andata a vivere con lui dopo la morte della madre.

Anche i figli Stefano e Maddalena e i nipotini gli sono stati vicino, giocavano con lui a scopa d’assi, con carte per ipovedenti, “qualche volta baravamo al contrario per farlo vincere”. Per una crisi cardiaca, in ottobre era stato ricoverato una decina di giorni all’ospedale San Paolo. Gli avevano raccomandato di camminare molto, seppure in casa, e lui ubbidiva, contava i passi con le dita, “arrivo fino a cento con il pollice, poi ricomincio con l’indice e con il medio…”. Non vi pare di vederlo?

Al mattino riposava fino a tardi, nel pomeriggio si alzava, qualche volta chiedeva che gli si leggesse qualcosa, le telefonate gli facevano piacere, vecchi amici e anche giovani e giovanissimi poeti che prima della pandemia andavano spesso a trovarlo. Anche il Natale era stato sereno.

L’anno scorso avevamo festeggiato i suoi 90 anni alla Braidense, Sala Lalla Romano, con Erminia Dell’Oro e Gabriella D’Ina, dal pubblico tanto affetto, tanti applausi. Ultimissimi giorni di manifestazioni pubbliche, il Covid stava avanzando a grandi passi. Continua a leggere

Franco Loi, un maestro senza volerlo

di Alessandro Moscè

Franco Loi è stato un poeta sacerdotale che nella delicata meraviglia della poesia ha cercato solo lo specchio della verità, propagandone i suoi riflessi. La sua parola è esplorativa nella terrigena virtù, nell’aggettivazione scarna, in un qualcosa che taglia in due la realtà e il carattere umano, profondo. In fondo come la sua Milano dialettale, di strada, illuminata in un taglio descrittivo, che placò in parte, nel molle andamento, la coscienza dell’uomo che guardava spesso gli altri per capire meglio sé stesso.

Loi era nato a Genova nel 1931 e si era trasferito a Milano giovanissimo, dove aveva iniziato a produrre le prime poesie sotto la spinta di un’epica popolare lirico-narrativa (pubblicò, per la prima volta, a 35 anni, dunque tardivamente).

E’ considerato all’unanimità uno dei maggiori poeti della nostra contemporaneità a partire dagli anni Settanta. Attraverso i decenni, dimostrò una propensione all’analisi civile, alle trasformazioni della società, compresa la contradditoria fase della contestazione e del terrorismo (aveva militato nel Pci, nella sinistra extraparlamentare e parlava di Dio come di un mistero vibrante dell’essere al mondo).

Franco Loi sentiva i versi nascere da un impulso che si svegliava improvvisamente. Me lo disse una volta, a Fabriano, quando mi regalò un suo libro appena dato alle stampe e mi abbracciò fraternamente, con la consueta disponibilità e affabilità.
Il poeta sapeva andare oltre. Di quanti dolori e misteri, di quante scoperte e gioie si compone la nostra esistenza? Come si esce da un malessere che lacera la mente e spesso il corpo? Sono queste le domande che ossessionano, in un vortice che sembra, inizialmente, girare solo su noi stessi. Ci vuole del tempo per far sì che l’incubo prenda una direzione, che accolga la speranza di un nuovo corso, quello che Loi trovò perfettamente aderente alla poesia.

Ad un certo punto la svolta apparve tipica di chi assorbe e restituisce l’amore come il viatico per sollecitare lo stupore e l’incanto infantile, pertanto qualcosa di salvifico. Da Isman (Einaudi 2002): “Cume me pias el mund! L’aria, el so fiâ! / j àrbur, l’èrba, el sû, quj câ, i bèj strâd / la lüna che se sfalsa, l’èrga tra i câ, /me pias el sals del mar, i matt cinâd, / i càlis tra i amís, i abièss nel vent, / e tücc i ròbb de Diu, anca i munâd, / i spall che van de / pressia cuj öcc bass, / la dònna che te svisa i sentiment: / l’è lí el mund, e par squasi spettàss / che tí te ‘l vàrdet, te ghe dét atrâ, / che lü ‘l gh’è sempre, ma facil smemuriàss. / tràss föra ind i pernser, vèss durmentâ… (Come mi piace il mondo! / L’aria, il suo fiato! / gli alberi, l’erba, il sole, quelle case, le belle strade, / la luna che muta sempre, l’edera tra le case / mi piacciono il sale del mare, le matte stupidate, / i calici tra gli amici, gli alberi nel vento, / e tutte le cose di Dio, anche le piccolezze, / e i tram che passano, i vetri che risplendono, / le spalle che vanno di fretta a occhi bassi, / la donna che ti turba i sentimenti: / è lì il mondo, che sembra aspettarsi / che tu lo guardi, che gli dai retta, / poiché lui c’è sempre, ma è facile dimenticarlo, / distrarsi nei pensieri, essere addormentati…”). Continua a leggere