Sanda Voïca su “Olympia”

Luigia Sorrentino, Credits ph Angelo Nitti

NOTA DI LETTURA DI SANDA VOICA

La poesia di Luigia Sorrentino scaturisce dalla linea di una soglia senza fine: da un presente allargato, senza limiti, ma che non è solo vita quotidiana, e che abbraccia sia il passato ( l’antico) sia il futuro (l’avvenire). Quanto al quotidiano, è il nostro mondo visibile, ma anche un altro, invisibile, che la poeta ci fa vedere.

Attraverso immagini oniriche, allucinatorie, irreali, inaspettate, insolite, ammalianti, abbaglianti e coinvolgenti, a volte leggere, a volte pesanti, che non sono esenti da dettagli realistici, concreti e attuali, seguiamo il percorso della poeta. Porta verso… la fonte della vita, ma anche della morte, e ognuna di esse coincide con la fonte della scrittura, della poesia: « quando ci dirigemmo verso la boscaglia / vedemmo in lontananza la ferrovia, / rapida discese verso il mare / l’avvicinamento carico nel vento / lì dove il rosa antico delle rose / e le ginestre trascinate vanno /nel bosco sempre più/siamo sempre più vicini al cielo / la muratura porosa ogni cosa / salda al giallo, strato su strato » (p. 18).

Questa città, Olimpia, è solo il luogo di origine e… fine di tutto e di niente. Ma anche di tutto e di niente. La sua stessa vita, la vita della poeta, il suo corpo, la sua scrittura sono già lì. Ma anche quella dei suoi cari, di coloro che le sono più vicini, che sono scomparsi – e anche degli sconosciuti.

Attraversiamo questa raccolta come un’insolita bolgia – sempre dall’aspetto dantesco, ma dove inferno, purgatorio e paradiso sono uno solo. Le diverse parti del libro, che possono essere lette separatamente, riescono a formare un insieme specifico. La poeta trova i mezzi per portarci nella sua poetica “città”; non restiamo a lungo alle sue porte.

Se l’antichità è convocata, se Hölderlin è presente anche lì, attraverso Iperione, la caduta, è perché la nuova città, simboleggiata da Olimpia, è solo la nuova poesia di Luigia Sorrentino. Il suo libro non è un’allegoria, l’autrice riesce a creare il suo universo poetico molto particolare. Immagini e idee sono strettamente legate: non è una dimostrazione, ma un’installazione, o una costruzione sui generis, man mano che la scrittura procede si crea un mondo. Senza un piano preparatorio, ma la città rimane perfettamente immobile.

Per molti versi, questo libro ci ricorda l’altro libro di Dante, Vita nuova, soprattutto attraverso la rinascita – attraverso i volti, le forme, i capelli, soprattutto – la memoria.

Le poesie sono apparentemente di difficile accesso, non facili da afferrare, ci giriamo intorno, a volte sconcertati. Ma una volta entrati, siamo sedotti: rimaniamo, insieme alla poeta, in uno splendido vagabondare, in una città sconosciuta. Grazie a questa lettura, condividiamo l’esperienza della scrittura poetica stessa, un’esperienza in cui alcuni degli elementi che vi entrano sono già lì, ma ce ne sono altri che dobbiamo andare a cercare noi stessi. C’è un orientamento bidirezionale permanente – ad ogni passo possiamo andare a destra o a sinistra. E prendiamo miracolosamente entrambe le direzioni allo stesso tempo – ed è questo che ci fa andare avanti. Prendere una sola direzione ci porterebbe a un vicolo cieco. Per non parlare dell’esperienza sconcertante che questa poesia offre: quella di includere il corpo della poetessa – mentre scrive, non… comodamente, a casa propria, ma in quest’altro mondo, al tempo stesso pericoloso, suggestivo, e misterioso, evanescente. Stare fuori e dentro, allo stesso tempo, e trovare il proprio equilibrio in questa oscillazione: questo è ciò che ogni scrittore o poeta cerca di fare attraverso i suoi libri.

Ma ciò che colpisce ancora di più è che la sua stessa esperienza, della vita e della scrittura, così come quella del proprio corpo e delle sue relazioni con gli altri (con gli esseri viventi e morti) e con il mondo – non sono solo quelle di un poeta! Se la poesia di Luigia Sorrentino è così forte, così convincente, è perché ognuno di noi, anche senza essere un poeta, potrebbe vivere questa esperienza, questa inquietudine di un altro mondo, e non necessariamente un mondo parallelo al nostro, anzi: un mondo, per quanto insolito, che è strettamente legato a ciascuno dei nostri gesti quotidiani. Realtà e sogno coincidono, ma questo non rende questa poesia surrealista. Se il sogno e la sensazione di sognare dominano, è solo perché la realtà degli stati (amorosa, affettiva, di mancanza…) e quella dell’esistenza concreta si trasformano al punto di avere solo la stessa consistenza: quella della scrittura stessa. Ciò che è scritto è vero. E soprattutto: se non fosse vero, non ci verrebbe detto.

L’intreccio permanente dei due “mondi”, che non è altro che tutta la vita, non cessa di essere velato e mostrato, in successione e molto rapidamente. E questo colpisce molto anche nella poesia di Luigia Sorrentino: attraverso questo gioco di nascondere/velare ciò che è vita, riesce a mettere i due gesti sui platani di un’immensa bilancia invisibile, che sarebbe la scrittura della poesia, e a dar loro lo stesso peso. Bilancia in perfetto equilibrio.

E, con nostro grande stupore e piacere, ci troviamo a casa nostra in questo passaggio in un universo “altro”. Il percorso di Luigia Sorrentino ha scopi precisi e consapevoli: riscoprire i propri cari attraverso la loro evocazione. Ma questo la porta, senza che lei lo sappia, a trovare l’essere che scrive: se stessa, ma che non è un essere… più conosciuto: rimane anche un’apparenza, una chimera, lontana e estranea come le altre – che ci sono o non ci sono più.

Il lontano e il vicino sono poi difficili da distinguere. Ma la poeta ci fa conoscere l’inaspettato.

Questa poesia è molto vicina a ciò che Jacques Sojcher afferma nel suo libro La démarche poétique, il capitolo “Dans la distance, mais si proche…”: […] “il poeta rifiuta di abdicare di fronte all’oblio (e all’oblio stesso dell’oblio), oppone, non una conoscenza, una dottrina, un’ideologia, semplicemente a un impulso, all’eco talvolta trattenuto di un canto precario e sempre minacciato, all’intermezzo di una certezza (che non si può nominare) e di un’incertezza che non è disperazione ma apertura, alleggerimento degli ostacoli, possibilità di presenza. ». Ed è proprio questo impulso, questa apertura, questa presenza evocata dal filosofo che abbiamo sentito pienamente quando abbiamo letto Olympia.

Philippe Jaccottet

Questo libro è anche molto vicino alla scrittura di Philippe Jaccottet, non è affatto come un pastiche, ma nel suo spirito più profondo, o almeno quello di Paysages con figure assenti: “E si finisce per pensare che tutte le cose essenziali possono essere affrontate solo con deviazioni, o obliquamente, quasi in segreto. ».

E non più lontano, da quei versi di Octavio Paz, che potrebbero anche caratterizzare l’impressione, molto forte, nella lettura di Luigia Sorrentino: “Le cose sono e non sono / Tutto viene disfatto in silenzio / Sulla pagina. “(Versant Ouest).

Ma lei ha saputo creare i propri strumenti per dire “l’essenziale”. Continua a leggere

Fare epoca: “L’estate del mondo” di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni /Credits ph Dino Ignani


NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

L’estate del mondo è un poemetto onirico in cui si risolve brillantemente il breve e intenso apprendistato poetico-esistenziale di Gabriele Galloni. Esso mette in scena una condizione psichica, quella della rêverie, intesa come flusso di coscienza, allucinata divagazione a occhi aperti. Qualcosa che va oltre il sogno (rêve) e, amplificandolo, lo estende alla condizione di veglia, facendone uno stato ontologico primario, l’aurora del fantasticare, l’abbandono alla immaginazione diurna che sta alla base della creazione letteraria e artistica. (Bachelard)

In tale sogno vigile si mette in scena una stagione della vita, l’adolescenza, e un’epoca della storia, la nostra. In un costante scambio pronominale, che solleva l’io/tu della tradizione lirica a livello archetipico, facendone un dialogo fra Animus e Anima, le figure inconsce complementari della psiche femminile e maschile, (Jung) mettendo così in scena un io poetico androgino che qui si individua e si esprime.

Il poemetto è diviso in tre parti, che si sovrappongono e si intersecano, come accade nei sogni: la prima è una esplorazione notturna, lunare, non priva di effetti da Instagram: “Luna di Luglio…. Per poco, ma l’abbiamo fatta nostra/ pensando fosse un fondo di bicchiere.” (12)

“Ma quanto ci ingannammo, sulla Luna./ Chi la credette un foro sulla tela/ del cielo” (14). Oppure: “La Luna, questa sera,/ è l’ombra di un insetto…. Tentiamo, al buio, di raschiarla via.” (17) Una luna di lattice “pronta/…. a cadere, a tornare in fondo al mare/ come all’inizio della storia umana.” (64) E così via.

La seconda è una escursione diurna, solare, fra le dune, le sterpaglie e il mare, a sondare le “ineluttabili modalità del visibile, le segnature di tutte le cose” (Joyce, Ulisse), i limiti del diafano sopportabili dalla percezione e dalla memoria, nel mondo odierno della sovraesposizione dell’immagine che disintegra l’aura della cosa: “è bello correre, andarsene via/ da ogni luce che sia/troppo grande per queste nostre mani.” (9) Per guadagnare la reciprocità degli sguardi, la giusta distanza da cui percepire la “lontananza/ che ritorna. L’eternità felice/ del tuo viso indagato controluce” (10) luce che macera “presso ogni riva” (75) e che si condensa nel “bianco della parete a fine di giornata” (77), riflettendosi infine su quel “muro enorme bianco”, alla fine del poema, che costituisce il correlativo oggettivo di ogni soglia esplorata e massime della rappresentazione stessa, dell’utopia di una eterna adolescenza. (80)

La terza è infine una ricerca salvifica dell’ombra, intesa sia che come riparo all’eccesso di luce e di calore di questa stagione, che come presenza perturbante del passato, delle figure parentali, dei morti, nonché come nostalgia del tramonto, del futuro, dell’orizzonte degli eventi, della fine: “Nudi nell’ombra fonda dell’armadio;/ trattenendo il respiro” (29). “L’ombra/ dei caseggiati popolari” (59) Ma anche “un’ombra sconosciuta/dietro le cose amate” (23), il brulicare delle tacite presenze dei morti che “transumanati già; si stringono in cerchio”, (66) traducendo il tempo lineare nella pura durata di una stagione o di un’epoca, nella melodia cullante del verso memorabile, che racchiude però il rischio di un comune naufragio “nel vuoto di una sillaba”, “in un murmure di annegati”. (66)
Il poemetto porta insieme a compimento l’apprendistato tecnico-esistenziale dell’autore e la consumazione della tradizione lirica, ridotta a puro schema dell’appercezione trascendentale, trasportata dallo spazio della scrittura a quello cinematografico in senso lato, sicché l’intera composizione si può anche leggere come una scenografia in attesa di essere tradotta in film su quel grande muro bianco, alla fine della giornata. Continua a leggere

Le fragili esistenze di Milo De Angelis

NOTA DI LETTURA DI MASSIMILIANO MANDORLO

Lì, sulla linea di confine “tra la gioia e il grumo più buio”, si muovono le creature notturne del nuovo libro di Milo De Angelis. Qualcosa di oscuro e segreto preme dietro l’apparente ritmo più disteso di questi testi, irrompe sulla scena congiungendo la biografia terrestre a un respiro cosmico, universale: “Tutto è come sempre / ma non è di questa terra e con il palmo della mano / pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono / sulle rotaie”.

Tornano i luoghi familiari alla poesia di De Angelis: la Milano notturna dei tram e dell’Idroscalo, dei bar e della periferia con “l’infilata dei grattacieli che sembrano / una barriera corallina” e poi gasometri abbandonati, parcheggi e piscine, aule liceali dove si consumano “gloriose avventure terrestri”.

C’è nel gesto atletico, pindarico, dell’atleta sui blocchi di partenza o del tuffatore pronto per il salto una forza che illumina quel segmento di tempo e lo proietta nelle profondità di un altro tempo: “dovevo tornare / per un oscuro richiamo dei luoghi, per questo / rettangolo azzurro e per i suoi cinquanta metri […] per il tuffo /che illumina laggiù la piattaforma e il doppio avvitamento”.

Così, come in una sequenza cinematografica, in Sala Venezia l’occhio del poeta inquadra i passi al rallentatore di un uomo appena entrato in una sala da biliardo, si sofferma sui movimenti e sulle parole pronunciate, sul tavolo da gioco su cui va in scena l’attimo decisivo di una vita intera: “sorridi e ti acquieta il panno verde / come un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi / di legno che ora contengono il tuo evento / e la forza centripeta conduce l’universo / in un solo punto illuminato”. Il poeta se ne sta lì, come un mendicante o un eremita, a raccogliere “gli emblemi dell’inizio e della fine” come frammenti dispersi, linee intere o spezzate delle fragili esistenze che abitano il mondo.

Sono le linee di forza, continue o interrotte, che compongono il Libro dei mutamenti cinese, qui immagine e simbolo delle numerose vite che si agitano sospese “nel brivido del tempo”, ai bordi della vertigine.

È in questa spaccatura che abita la poesia di De Angelis, tra le ripetizioni e i continui andare a capo che frantumano il respiro del verso e lo tendono fino a un punto finale, assoluto: “e ora io mi fermo in un luogo / qualsiasi e lo riempio di purissima benzina, / la benzina che amavo da bambino ai distributori / della A7, e chiudo in ventidue metri quadrati / il mio episodio”.

Aurora con rasoio è il titolo dell’ultima, intensa sezione del libro in cui il poeta, navigando controcorrente, affronta un tema così controverso e innominabile come quello del suicidio.

Lontana da ogni passione o interesse sociale, la poesia di De Angelis compie uno scavo nelle profondità abissali dell’esistenza, anche a costo di compiere un’ulteriore tappa di questo viaggio al termine della notte.

Quando “la luna non concorda” più con il “battito terrestre” non c’è più nessun commento o parola possibile, ma un grande silenzio scende sulle vicende terrestri di chi ha già visto troppo “della vita e dei suoi sotterranei”. Continua a leggere

Alberto Rollo, “L’ultimo turno di guardia”

Alberto Rollo nella foto di Adolfo Frediani

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Un uomo anziano serrato in una torre, infermo, soltanto una guardia a sua custodia. È questa la condizione alternativamente reale e simbolica, beckettiana, che rispecchia la fine della storia, il crollo delle ideologie e l’inizio di un’èra nuova e indefinibile. Nel poemetto di Alberto Rollo, L’ultimo turno di guardia, una sequenza lirica che consta di sessantasei frammenti divisi in cinque parti, la degenza fisica e allegorica del paziente-vegliardo sembra penetrare nel tessuto dei versi fino a squarciare il velo della presunta temporalità. L’io lirico è «malato di tempo» e, posto su una cupola che guarda verso una fantomatica «torre gemella», riflette, monologa, salmodia sul presente e sul passato, osservato a stretto giro da un infermiere che è anche spia e carceriere, nel cui silenzio sommesso si cela tutta l’incomprensibilità e l’incomunicabilità con l’altro da sé, a metà tra l’inferno del sartriano A porte chiuse e l’innocente di Turgenev («tanto è poco l’io di cui son io/ che il poco del tuo tu fiammeggia appena»).

La storia narra, infatti, per bocca del vegliardo le insidie della solitudine e dell’assenza di una vera comunicazione, lo sfogo psicologico e il tenue apparire del tu in un orizzonte mai del tutto agguantato, sempre lontano e inaccessibile. È una fotografia della nostra età contemporanea, nella quale l’atteggiamento interno, solipsistico (aggravato dal virus e dai suoi derivati) è l’unica maniera per proteggersi da un esterno invadente e selvaggio.

In un ritmo corrusco, balenante, che ricorda il graffio di Sereni e lo scatto fortiniano, i versi di Rollo – romanziere, finalista al Premio Strega con Un’educazione milanese (Manni 2016) ed editor di Mondadori – tentano di rintracciare un senso alle variabili esistenziali messe in scena dal protagonista, rimembrando e accusando, ricusando e difendendosi dall’asciutta quiete del misterioso inquisitore («vi cercherete ciechi sopra il muro,/ come timidi gechi pattugliando/ il giorno e i suoi improvvisi/ nidi di ombre»).

Scolpito da endecasillabi e settenari che si chiudono spesso, soprattutto nelle clausole finali, in enjambement – ricreando così la possibilità frantumata del doppio settenario –, il poemetto, lontano parente di Parini e Testori, dunque pienamente ancorato alla tradizione lombarda, si muove lungo una scala valoriale (e linguistica) richiamante la corporeità, anche nei suoi aspetti più bruti e infimi, per indagare l’oltre, ossia per centrare l’esperienza del celeste nella dura scorza del terrestre, come attesta il frammento trentadue: «E di là il vento./ Vento d’inverno,/ sii più forte di me che ti resisto/ in questa sgangherata/ torre-lazzaretto;/ inchiodami a quella neve rossa/ di piscio, a quella nera/ di tutti gli escrementi,/ o tienimi con gli argani del gelo/ alto sopra le strade, spingi me/ e il mio peso verso aeroporti, scali,/ stazioni, moli. Alzami in volo/ come plastica, indifesa contro il cielo,/ odiosa e inerme, finché posi/ dentro immense, sconfinate sale/ d’attesa». L’alto e il basso, il lucente e l’oscuro.

È un chiaro esempio di scatologia ed escatologia, analisi di deiezione e tensione alle finalità ultime dell’essere umano, in una compresenza di mondi (ironica, spaesante) molto vicina all’ultimo Montale. L’evoluzione “drammaturgica” del racconto (non si dimentichi che Rollo nasce come autore di testi teatrali con Tempi morti Gli ultimi giorni di Lorenzo Mantovani), come per la Fortezza Bastiani abitata dal tenente Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari di Buzzati, è avvolta in un grigiore di senso, in un logorio di spente accensioni, mentre si fa sempre più essenziale la richiesta di eludere le catene del tempo («E poi salimmo – in quale compagnia/ il tempo sfuoca – per tornanti/ agganciati alla festosa, folle/ grazia di foglie e di ramaglia/ di farnie, carpini e castagni/ su per la sgretolata cieca vena/ del calcare, e il rovinio di acque/ timide, e di tremanti specchi»). Il gesto del “salire” racchiude in sé, quasi in forma archetipica, la speranza di una liberazione per l’uomo di oggi, soffocato nella prigione delle sue ansie. Continua a leggere

La poesia di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

L’arte del montaggio: Gabriele Galloni, Creatura breve, Ensemble, 2018
di Giuseppe Martella

 

Per comprendere a fondo la poesia di Gabriele Galloni, è bene tenere a mente le preziose indicazioni che egli ci ha offerto in diverse occasioni, a partire dall’intervista concessa a Michele Paoletti su Laboratori di poesia, dove, alla domanda su come nascano le sue poesie, risponde: “Di solito parto da un’immagine, un fotogramma di vicenda, una situazione – la narrativa non mi abbandona mai. Cerco di misurare e limare quello che voglio dire; lo costringo nella melodia della metrica, che mi permette di consumare il consumabile nel modo migliore possibile – cioè puntando all’essenziale e senza sprechi linguistici. Altre volte invece mi visita improvviso un verso, undici sillabe perfette, e da lì continuo sviluppando o riducendo, mutilando.” Questa bipolarità caratteristica della inventio di Gabriele è un indizio di un più decisivo dualismo che caratterizza la sua poetica: quello fra immagine e parola, che si manifesta poi con diverse modalità e a diversi livelli nei suoi vari testi. Come se fra l’ordine verbale (più pacato e tradizionale) e quello iconico (più convulso e sovversivo) corresse una continua tensione, irriducibile all’unità di un solo codice. Si tratta di un dialogismo radicale che non riguarda solo o tanto l’ambito dei generi letterari, coinvolgendo invece i vari media della espressione artistica, come se i suoi versi costituissero nel contempo gli appunti di una sceneggiatura cinematografica in fieri.

Le sue poesie nascono dunque da una istantanea che contiene un nucleo narrativo che poi si sgrana nel rosario dei versi da cui attinge da un lato la misura e dall’altro la possibilità della messa a fuoco di qualche dettaglio, nel gioco degli stacchi e dei controcampi, proprio come nell’esercizio del montaggio cinematografico. In questo duplice movimento si realizza in senso tecnico quella tensione fra discorso e figura, o fra vita e forma, che anima da un lato il testo artistico e dall’altro la creatura vivente, per quanto breve sia il tempo della sua esposizione allo sguardo altrui. E’ ciò che io chiamo poetica del foto-gramma intendendo con ciò la resa (o l’arrendersi) dell’istantanea nella traccia chirografica e nella gabbia del verso. Non si tratta dunque solo della traduzione dell’immagine viva in segni inerti, didascalie della vita, ma anche della tensione irrisolta fra due tipi di segno, l’icona e il simbolo, come se fossero entrati in un vortice gravitazionale che conduce a uno stravolgimento dello spazio-tempo del discorso: come nel vertice di una clessidra, o spirale di un passaggio epocale, doppia elica che segna il fissarsi di una traccia (treccia) nel DNA dell’esserci qui ed ora della “creatura breve”. Del Fanciullo Divino, il poeta millennial, scrittore ed editor di immagini, che si cala nella sua cesura epocale, giocando ai limiti della trasparenza dove ogni ritocco è a rischio di cancellazione.

Poetica del fotogramma, intesa poi anche nel senso proprio della istantanea predisposta al montaggio cinematografico o digitale, ma pertanto sempre esposta al rischio di essere scartata dalla versione finale del film, per diventare appunto un out take, come recita il titolo della prima lirica di questa silloge che ci dà la chiave per l’interpretazione di tutta la produzione di Galloni, che obbedisce a una poetica del ritaglio e del prelievo, del ritocco e della cancellazione, operando sulla soglia che distingue l’epoca della rappresentazione da quella della simulazione e la civiltà letteraria da quella digitale, fondendo l’ontologia dell’icona con quella del simbolo. Perché qui si tratta di un montaggio anomalo, spurio, che coniuga immagini e parole senza risolverne il dissidio, mantenendole in una esitazione prolungata che complica di fatto quella canonica fra suono e senso, caratteristica di tutta la poesia. La complica assumendola come un’eredità defunta, da un lato, e dall’altro consegnandola all’interazione con l’immagine-movimento, così come i nostri trapassati sono “le didascalie del mondo” e “l’indicibile/ della conversazione” e la loro musica “il contrappunto/ dei passi sulla terra”, per usare immagini tratte dalla silloge precedente che pone tra l’altro anche una domanda cruciale sul destino della creatura breve e della sua traccia, del singolo e della specie umana.

I due testi sono infatti intimamente connessi nella loro struttura radicale, al di qua della tematica stessa. Se insieme a Slittamenti e a In che luce cadranno questa Creatura breve è infatti terza di una trilogia, bisogna precisare però che si tratta della costola di una costola, dal momento che Slittamenti costituisce il repertorio tematico-strutturale da cui viene poi estratta ed espansa la pantomima dei morti viventi, di cui a sua volta Creatura breve costituisce un ritaglio che ne espande certi dettagli, mostrando scorci inediti e sorprendenti. Si tratta dunque a mio avviso di un’opera cruciale nella breve carriera di Galloni, come uno spasma rivelatore del “poco tempo concesso all’autore”[1], perché qui raggiungiamo il massimo della contrazione del discorso e le sue figure raggiungono la massa critica, scomponendosi in gesti spasmodici che preparano il Big Bang, quella loro dissoluzione in atmosfera che si attuerà mirabilmente nell’Estate del mondo. Se è vero infatti che qui si interroga la natura della brevitas letteraria in quanto tale, sondando i limiti dell’aforisma e dell’epigramma in quanto forme di chiusura del senso nello spazio chirografico, tali limiti si sfumano e sfrangiano poi nel rinvio all’immagine, nel passaggio di genere dal racconto alla sceneggiatura, nella mutazione funzionale della scrittura dal momento che è divenuta un pretesto di quel racconto per immagini che è il film e più in generale di tutte le composizioni audiovisive che gli hanno fatto seguito. Di queste mutazioni Creatura a breve reca una traccia da non sottovalutare perché, se in una prospettiva puramente letteraria questa silloge è probabilmente la meno riuscita della triade, nella dimensione intermediale in cui effettivamente opera essa è assolutamente rivelatrice della poetica di Galloni, in quanto nuovo paradigma in cui comprendere la poesia dei millennials. In questa prospettiva essa dischiude anche la bellezza e il valore di una serie di gemme in sottotraccia, perché il terreno di questo discorso porta le crepe, i segni di un terremoto metafisico. Si osservi infatti la struttura frattale dell’opera intera di Galloni, di cui ogni parte riprende il disegno dell’intero come in un effetto zoom in cui affiorano particolari imprevisti, veri e propri annunci angelici icasticamente e perversamente condensati per esempio nello sperma che l’angelo pazzo e muto depone in bocca alla Vergine o alla Beatrice di turno (8.) Messaggio in codice genetico (16), fenotipica torsione di ogni progetto esistenziale o storico, nonché dell’intero genere della profezia biblica, mutazione della parola incarnata (poetica o evangelica) in quanto testimonianza dell’offerta del Creatore che si fa creatura, e più in generale del sacrificio del capro espiatorio di turno (parte maledetta e pietra angolare di ogni comunità immaginabile) e della sua trasfigurazione nel Dio di un popolo. O si prenda per l’appunto il tema dei “morti viventi”, prelevato di peso dalla raccolta precedente e messo subito a fuoco e a soqquadro all’inizio di questa silloge, come scarto di montaggio, Outtake recuperato, messo in rilievo e riassunto in una immagine folgorante che coniuga il destino della eredità culturale con quello della speculazione, affondando nel medesimo naufragio il retaggio della civiltà letteraria e l’atto della sua rappresentazione: “I morti naufragano negli specchi.” (7) Da cui emergono poi, nello spazio della simulazione intermediale, squisiti e blasfemi, osceni e perversi, gli ologrammi della nuda vita. Naufragio epocale alla presenza di una divinità interdetta e ammutolita, nel vortice di angeli ed annunci che segna il nuovo gioco del mondo: “Giocammo a ciò che ci sembrava/ essere il gioco giocato dagli angeli -/ ma Lui non potrebbe mai dirvelo.” (9) Continua a leggere