Emilio Rentocchini, tre poesie

Emilio Rentocchini

Quand l’alséra parola la s’imposta
al servési a gratis d’un pensér, viva
e in fuga, fida e tradidoura aposta
ed la becca impasteda dla saliva,
al corp al vébra e cal pensér se scosta
da la not primordiela seinsa riva
e sillaba per sillaba al s’avira
nal fiê ordinê dal teimp, al va, e al delira.

Quando la lieve parola s’imposta
al servizio gratuito di un pensiero, viva
e in fuga, fida e apposta traditora
della bocca impastata di saliva,
il corpo vibra e quel pensiero si scosta
dalla notte primordiale senza rive
e sillaba per sillaba si apre
nel fiato ordinato del tempo, va, e delira.

***

Tótta la véta ster pugê al preseint
dmand post pasê o pre futur, cioè gnint,
sbater ded sà e ded là s’as léva al veint
in st’oasi luminousa ed nóvli e gint
ch’la bev a becca in sò al sô nutrimeint:
relétt alién in dov as réd per gnint
in dov as pians d’amour, e a per realtê
soul la testa d’un dio ch’al s’ha pensê.

Tutta la vita appoggiarsi al presente
come post-passato o pre-futuro, cioè niente,
sbattendo di qua e di là se s’alza il vento
in quest’oasi luminosa di nuvole e gente
che beve a bocca in su il suo nutrimento:
relitto alieno dove si ride per niente
o si piange d’amore, e pare realtà
solo la mente d’una divinità che ci ha pensato.

***

Sa gh’è ’d piò bel che sparir via nal senn
in bras a un dormivéglia, meşa ghessa
ed memoria la blésga in un acenn
seimper piò liquid ed spensieratezza.
La vén sò na nebióla doulsa ed denn
snucedi per d’ed là, d’ed sà la fessa
d’in dóve as vén al mend e as tourna a spenda,
la véta na róda, la bala tenda.

Cosa c’è di più bello che svanire nel sonno
in braccio a un dormiveglia, mezza goccia
di memoria scivola in un accenno
sempre più liquido di spensieratezza.
Sale una nebbiolina dolce di donne
inginocchiate all’aldilà, di qua la fessura
da cui si viene al mondo e si ritorna a sponda,
la vita una ruota, la palla rotonda.

Da: 44 OTTAVE, di Emilio Rentocchini, Book Editore, 2019 Continua a leggere

Emilio Rentocchini, “44 ottave”

Emilio Rentocchini, credits ph. Giorgio Gilberti

Tre e-mail
a Maria Cristina Cabani
sull’ottava

(Estate 2014)

– Caro Emilio, in attesa di spedirti il libretto /Amori/, che è finalmente uscito, mi rivolgo a te in cerca di suggerimenti. A settembre andrò a Città del Capo dove sono stata invitata ad un Convegno sulla poesia del ’900. Avrei intenzione di parlare della fortuna dell’ottava e dei poeti che la usano, prendendo le mosse dal /Requiem /di Patrizia Valduga.
In particolare vorrei esaminare come i poeti sfruttano la doppia natura, lirica e narrativa, del metro (tu mi sembri uno dei pochi che ne apprezza la liricità). Ti chiedo se puoi indicarmi interventi o saggi in proposito (anche e soprattutto tuoi) e anche se puoi dirmi in poche parole che cosa ti affascina dell’ottava, visto che è fra le tue forme predilette.
Un caro saluto.

Cristina

Temo, cara Cristina, che ti toccherà concentrarti sulla sfortuna dell’ottava nel Novecento, perché, a memoria, non mi viene in mente nessun poeta che l’abbia usata: a parte Sanguineti. Mi sembra anche di ricordare che nel discorso di accettazione del Nobel, Montale abbia esplicitamente affermato che nel suo -e nostro- secolo non si poteva più scrivere in ottave.
Comunque, per quel che mi riguarda, si è trattato di un colpo di fulmine, dopo aver riletto tutto d’un fiato il Furioso, nei pigri pomeriggi della primavera del 1988.
Ero partito con l’idea sonnolenta di leggiucchiare qua e là, in un noiosissimo periodo di insegnamento, dal quale tornavo avvilito. Be’, la magia del cristallino e liquido
endecasillabo ariostesco mi obbligò a leggerlo avidamente, senza scartare un verso, senza perderne una sillaba, o meglio, una nota…
E mentre leggevo mi chiedevo se non si potesse arditamente provare a riprendere in dialetto quella struttura di otto versi, coi quali tutto era stato detto, e così bene, un
tempo; in cui ogni cosa aveva trovato il suo posto, alonata di stupore. Il Novecento non crede ai poemi, non conosce cavalieri, mi dicevo. Ovvio che occorresse ripensare l’uso
dell’ottava. Il poeta è isolato, il dialetto è accerchiato, pensavo. Isoliamo l’ottava e facciamone un rifugio ed un mondo, pensai in conclusione. Il limite era proprio questo: tentare di tenere all’interno di otto endecasillabi una goccia di vita che continuasse
a muoversi, senza scivolare via o prosciugarsi. Ma praticando l’ottava mi accorgevo via via che l’angustia del metro offriva spazi insperati. E vivevo come in una continua scoperta speleologica, su un terreno carsico dove sprofondare equivaleva spesso a riemergere in un altrove luminoso. Al punto che non mi sono mai sentito così libero come prigioniero dell’ottava. Uno dei momenti più commoventi e pieni della mia vita. Tanto più se pensavo che stavo usando la lingua degli avi, a cui per certi versi davo voce, una lingua atemporale, mitica. E in quanto mitica, in grado di reggere l’anacronismo della misura chiusa.
Altro grande vantaggio dell’ottava, poi, la brevità memorizzabile che mi permetteva di lavorare a mente, in qualunque momento: di levigare e ritoccare e portare a compimento senza bisogno d’altro che di una buona concentrazione… non mi è mai piaciuto scrivere. Con la sensazione di poter tenere dentro quello scrigno da niente musica e pensiero, poesia e poetica. Continua a leggere