Piero Bigongiari, “L’enigma innamorato”

Piero Bigongisri

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Piero Bigongiari, crescendo dai concimi di una dizione che può essere definita biblica – a patto che l’aggettivo sia letto non soltanto stricto sensu ma anche nella sua accezione più larga, nell’occorrenza di un’arcana solennità –, non poteva fiorire per acclamazione di pubblico. È infatti una lirica insidiosa, elusiva, a tratti severa, che rilascia un nettare melodico (a differenza del primivitismo betocchiano).

Eppure dietro alle sinuosità formali si incrociano significati sfingici, legati da un rapporto non esattamente (non del tutto) “ermetico”, come ci si aspetterebbe, bensì allegorico-metafisico, insomma lungo quella linea discontinua che scorre da Browning e Baudelaire.

I versi di Bigongiari non appartengono di rigore né alla poésie pure di marca simbolista né al «classicismo paradossale», al ragionamento modernista. Sono un ibrido, un ircocervo.

Certo è che Carlo Bo lo considerava «il più concettualistico rappresentante del movimento [ermetico] nella sua fenomenologia fiorentina». Nondimeno l’obscurisme della penna, al pari del Barocco pittorico che egli predilesse assieme alla moglie Elena, sin dall’inizio si muove sull’asse di una saturazione di motivi, spesso confinante in quell’«oltranza manieristica» (Pavarini) che ricompone un mondo nella sua impermeabile perfettività: e di lì, stabilita l’insufficienza del reale, oltre l’orizzonte di un’algida lontananza.
La tentazione che Bigongiari sia dunque un poeta per poeti è scottante e deriva dai presupposti filosofici con cui sorge la sua ispirazione. Continua a leggere

Seamus Heaney, “Field Work”

Seamus Heaney, ph. Luigia Sorrentino – Roma, maggio 2013

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

L’espressione field work nella sua lingua originaria non evoca solo l’ambito georgico, ma sembra presupporre la ricerca scientifica «sul campo». Nel 1979 Seamus Heaney, dopo il graffio politico e metafisico di North (1975), manda alle stampe la sua quinta silloge (l’ultima in ordine di tempo pubblicata in Italia, ancora grazie alla cura generosa di Marco Sonzogni e Leonardo Guzzo), che segna un passaggio inderogabile all’interno della vicenda poetica ed esistenziale dell’autore irlandese: registra cioè con i dieci Sonetti di Glanmore, cuore pulsante dell’opera, il travagliato trasferimento (di un «émigré interno») da Belfast a Dublino, dall’Ulster all’Eire. Il «lavoro sul campo» si rende dunque tanto più necessario quanto più urgente: Heaney sente di dover conciliare la contemplazione all’impegno civile con un approccio lirico orientato sulle cose, prone e sicure, nel momento in cui il suo paese sta soffrendo una lacerante lotta intestina (sintomatica è la traduzione dell’episodio dantesco di Ugolino, posta in chiusura di libro).

Quali sono i temi principali della raccolta? «L’altezza della poesia — commenta Guzzo nell’introduzione —, la malinconia del ricordo, la memoria personale e familiare, l’amore carnale e spirituale (espresso con le metafore naturali, splendide e inconsuete, della lontra e della puzzola)». Così il sapore sapido delle ostriche che risveglia «al verbo, al puro verbo», l’isola «piena di rumori sconsolati», l’omphalos «invisibile» e «inviolato», il sorso d’acqua che ingiunge di ricordarsi del donatore, la giovane Musa gutturale («mentre la sua voce fluiva e sguazzava nel riso / mi sentivo un vecchio luccio ornato di piaghe / che sogna di nuotare lambendo vita dalla bocca tenera») sono segnali lampeggianti non della rivendicazione di un’unità algida e ideologica, bensì di un senso di appartenenza al reale, vischioso, terrigno.

Il tradurre — attività che impegna Heaney in quegli anni di profondo cambiamento e di un (problematico) ritiro-clausura nel mestiere di poeta — diviene lo strumento epistemologico a presa diretta con cui agguantare la sfuggente essenza del mondo, effettuare il transito di umanità («Vocali arate dentro altre: terra aperta. / Il febbraio più mite in vent’anni / è bande di foschia sopra i solchi, un non-suono profondo / vulnerabile al distante gargarismo dei trattori»). Anche l’amore coniugale, fatto di momenti di gaudio onirico («Tutto quanto ho di te è un bosco di betulle tra i lampi») e comprensibili incomprensioni («Lei calerebbe tutti quanti i poeti dentro il nono cerchio / e li aggancerebbe, denti nei crani, le lingue a lambire i cervelli»), è il luogo in cui testare le drenate e le arature della vanga — da sempre un Leitmotiv heaniano —, nel barbaglio lucido dell’istante («tregua sulle nostre roride facce sognanti») e nell’estatico confondimento di due nature in una («il terreno / germoglia e ti tinge / il dorso della mano come una voglia — / mia unica terra d’ombra, sei macchiata, macchiata alla perfezione»). Continua a leggere

Rilke, “Lettere a un giovane poeta”

Rainer Maria Rilke

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

Nell’autunno del 1902 il giovane austriaco Franz Xaver Kappus viene a sapere dal sacerdote Horaček che l’emergente poeta Rainer Maria Rilke aveva frequentato la scuola militare di Sankt-Pölten, nella quale il sacerdote era stato insegnante di religione.

Dall’Accademia militare di Wiener Neustadt dove Franz Xaver Kappus legge furiosamente i libri rilkiani, il giovane decide di contattare l’autore appena ventisettenne.

Incomincia una corrispondenza epistolare — dal tardo autunno 1902 al 5 gennaio 1909 (la prima e l’ultima sono di Kappus, dieci in tutto le missive del praghese) — che è in realtà la chiarificazione di un magistero poetico tra i più importanti e vivi del Novecento.

Le Lettere a un giovane poeta, pubblicate nel 1929, tre anni dopo la morte di Rilke, sono ora ristampate dal Saggiatore con una bella prefazione di Valerio Magrelli, che chiosa: «Siamo nel cuore della poetica di Rilke, per cui l’amore e la morte sono “compiti, che noi portiamo nascosti e trasmettiamo ad altri senza aprirli”. Nel laborioso movimento della trasformazione in cui il nuovo entra in noi come “un elemento estraneo” o un “ospite”, occorre sempre attenersi al “difficile”, e giungere ad appropriarsene dopo un sofferto itinerario esistenziale».

Kappus apre il suo cuore all’unico possibile amico, al quale riconosce la dignità di mentore, e Rilke sorprendentemente fa lo stesso: non risparmia nulla di sé, delle sue convinzioni letterarie, delle sue preferenze artistiche. Non lesina raccomandazioni, ammonimenti, lui che a quella giovanissima età viaggia per l’Italia e ha già pubblicato una quindicina di opere (!).

 

Mirabile la prima lettera, datata al 17 febbraio 1903, in cui Rilke risponde alla richiesta di un schietto giudizio sulle poesie di Kappus: «Mi chiede se i suoi versi sono buoni. Lo chiede a me. Prima lo ha chiesto ad altri. Li manda alle riviste. Li confronta con altre poesie e si inquieta se certe redazioni respingono i suoi tentativi. Ora — giacché mi ha consentito di darle consigli — la prego di abbandonare tutto questo. Lei guarda all’esterno, cosa che, più di ogni altra, ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consigli e aiuto, nessuno. C’è un unico mezzo. Si immerga dentro di sé. Indaghi la ragione che le impone di scrivere; verifichi se affonda le sue radici nell’intimo del suo cuore, confessi a sé stesso se le toccherebbe morire qualora le venisse negato di scrivere. Soprattutto questo: si chieda, nell’ora più quieta della notte: devo scrivere?». Continua a leggere

Ludovico Ariosto, “Satire”

Tiziano, Ritratto di uomo, già Ludovico Ariosto, National Gallery Londra fonte: ferraraitalia.it

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Composte tra il 1517 e il 1525, dunque nel torno di tempo tra la prima versione del Furioso (1516) e la seconda, decisiva (1532), le Satire di Ludovico Ariosto sono uno dei classici della letteratura italiana grazie alla spontaneità del dettame, all’innovazione formale (terzine dantesche con andamento epistolare), al forte ethos che si respira pur nella pianezza dei motivi.

Einaudi propone oggi una versione aggiornata della storica edizione del 1987 a cura di Cesare Segre: vi è una nuova introduzione, mutuata dalla collana francese «Les Belles Lettres» del 2014, anno della scomparsa dello studioso, alcune variazioni negli apparati testuali, in bibliografia e nel commento.

È insomma un’ottima occasione per rileggere e respirare nuovamente l’intensità dell’opera ariostesca alla luce del laboratorio critico, sempre molto puntuale e ordinato, di Segre.

Cominciamo col dire che le urticanti idee sulla realtà curtense che emergono dalle Satire rivelano sì il carattere (ispido) del loro autore, ma offrono uno specchio quanto mai vivido della vita quotidiana in un Cinquecento tutt’altro che idillico. Dice bene Segre quando, nel contributo prefatorio, sottolinea che con la sua «attenzione etica» l’Ariosto, «fingendo di difendersi, accusa senza reticenze».

Ed è proprio l’aspra recusatio a conferire al testo un tono genuino, agonico, ancor più teatrale delle stesse commedie (è ancora un suggerimento di Segre). Di cosa parlano e a chi sono indirizzate le sette missive? La prima, scritta tra il settembre e il dicembre 1517, è rivolta al fratello Alessandro e al nobile mantovano Ludovico da Bagno: il poeta non ha seguito Ippolito d’Este ad Agria in Ungheria e ne spiega le ragioni (non senza un certo sense of humor: «So mia natura come mal conviensi / co’ freddi verni; e costà sotto il polo / gli avete voi più che in Italia intensi. / E non mi nocerebbe il freddo solo; / ma il caldo de le stuffe, c’ho sì infesto, / che più che da la peste me gli involo»).

La seconda, del novembre ’17, indirizzata all’altro fratello Galasso, ha una trama da «romanzo poliziesco»: alla ricerca di benefici ecclesiastici Ludovico parte alla volta di Roma ma incontra prevedibili ostacoli e neghittose virtù.

Nella terza, la quarta e la quinta si interpellano invece due cugini: Annibale e Sismondo Malagucio (o Malegucio). I temi non sono dissimili dai precedenti: il passaggio del servizio da Ippolito ad Alfonso d’Este, il fastidio dei viaggi, la nomina a commissario in Garfagnana — e quindi la nostalgia per Ferrara —, i rischi e i vantaggi del matrimonio (di Annibale). Le date di composizione abbracciano gli anni ’18, ’20 e ’23 all’incirca. Le due restanti risalgono al biennio ’24-’25.

La Satira VI è rivolta all’amico Pietro Bembo: Ariosto chiede lume al letterato riguardo al possibile nome di un istitutore per il figlio Virginio (con incipit dantesco: «Bembo, io vorrei, come è il commun disio / de’ solliciti padri, veder l’arti / che essaltan l’uom, tutte in Virginio mio»). L’ultima vede protagonista il cancelliere ducale Bonaventura Pistofilo «che aveva proposto all’Ariosto la carica di ambasciatore presso il nuovo papa, Clemente VII, sfruttando la sua amicizia con la famiglia dei Medici». Continua a leggere

Il teatro di Mario Luzi

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

 

 

Il saggio critico che il giovane studioso Michele Cencio ha dedicato alla figura di Mario Luzi, Un luogo della mente. Teatro e tragico, prende in considerazione non soltanto l’opera drammaturgica del poeta fiorentino, ma più approfonditamente il suo itinerario esistenziale, segnato da una seria riflessione «sul senso del male e del tragico nell’uomo contemporaneo».

Luzi approda al teatro nel momento in cui si accorge dell’inesauribile dialettica dell’essere e dell’«incessante metamorfosi» che colma il mondo, sostanzia le cose. Complice la conoscenza degli scritti di Teilhard de Chardin (il «gesuita moderno» di Montale), la parola luziana si spoglia della purità dura e trasparente propria dell’ermetismo fiorentino degli anni ’30 e ’40 per entrare nel patibolare agone delle vicende umane, a partire grossomodo da Nel magma (1963), silloge di snodo, se non addirittura di ripensamento delle strutture formali e contenutistiche fino ad allora utilizzate.

Scrive Cencio: «Tutta la critica è unanime nel ritenere che dagli anni Sessanta in poi la produzione poetica luziana andrà di pari passo con quella teatrale in maniera quasi inscindibile favorendosi perfino l’innescare ulteriori prospettive. Non sussiste, perciò, l’idea di un Luzi poeta e uno drammaturgo come fossero due persone distinte, poiché la ricerca è la stessa così da poterla leggere in filigrana da entrambe le parti». Insomma, il teatro è un’altra morphé (un’altra faccia) della lirica. O meglio: il teatro, precipuamente in versi, permette di lasciar cogliere con maggiore precisione all’autore e al lettore la «strada tortuosa» del divenire, la sua capitale tensione all’Uno.

Con l’«uccisione del sacro» il poeta deve scovare il santo, ossia il ripristino del «giardino delle delizie» oltre il «cammino purgatoriale» della storia: esso va rintracciato dunque in quel «luogo della mente» grazie al quale si supera l’«appiattimento» e la «stasi» fornite dalla sofferenza, che è espressa artisticamente con la modulazione della tragedia (i modelli principali, in tale direzione, sono Shakespeare e Racine). Luzi incontra il genere impossibile par excellence della modernità, la tragedia appunto, per riannodarsi all’anelito divino che non può essere eluso dall’uomo, causa ed effetto dei suoi stessi desideri. Continua a leggere