Gabriele Gabbia, “L’arresto”

Gabriele Gabbia

LA PAROLA DIFFRATTA DI GABRIELE GABBIA
di Alessandro Bellasio

Libro scarno e ripido, L’arresto di Gabriele Gabbia (L’arcolaio, 2020) possiede il magnetismo proprio dei libri a lungo meditati e nei quali la parola ha stretto un patto di sangue con il pensiero, con una visione del mondo innegoziabile, univoca. Poche poesie, anch’esse scarne e ripide, a tratti quasi sbreccate o amputate, dove l’autore – alla seconda raccolta dopo La terra franata dei nomi – fa i conti con una condizione perfettamente espressa fin dalla copertina: uno spioncino attraverso il quale si scorgono delle sbarre. È da lì che si incontra il mondo – o meglio che non lo si incontra, ma lo si guarda nel tentativo di rievocarne il ricordo. L’arresto è, in prima istanza, il posto di blocco o lo sbarramento che media l’esperienza dell’essere, dell’esistere. Ed è quindi anche cella di detenzione, la prigionia di chi osserva le cose da una condizione di allontanamento originario, di esclusione dal dominio della presenza: l’arresto è questo essere sottratti da vivi ai vivi, fino alla vertigine di non essere più nessuno, o tutti.

Io sarò voi –
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me,
quando
solo, soffierò
lo sguardo,
da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me.

L’assenza è la cifra di chi è sottratto, la cifra dell’arrestato: egli viene meno, non c’è più. Ed è allora che le cose cominciano a giungergli da molto lontano, screpolate, diffratte. L’esperienza in Gabbia è vissuta e restituita già sempre come ricordo, prima ancora che accada, ferma «da sempre verso questi occhi in cui | tutto è stato». Nel dominio dell’assenza è la sostanza stessa a farsi vacua, volatile – e la vita è «il divenire incarnato di un calco». La tensione si raccoglie e si rivolge così verso l’interno, dove tuttavia non trova più l’appoggio di alcuna interiorità, ma solo la stessa voragine ontologica che aveva precedentemente rinvenuto nell’esterno. L’occhio allora arretra, si blocca, non ha che sé stesso sospeso a mezz’aria, nel vuoto, e la parola è questo grafema oculare arrestatosi un attimo sul nulla, prima di svanire. Continua a leggere

In ricordo di Franco Loi

Franco Loi

di Alessandro Bellasio

La voce più appassionata, struggente a tratti, di una lingua che non esiste più, che non si sente più, che più nessuno parla. Il milanese di laboratorio di Franco Loi esisteva solo in lui, per lui, certo, eppure c’era un’intera città che in quella lingua trovava forma, sensi, felicità. Poco si può aggiungere su un poeta tanto conosciuto e amato, se non che era forse proprio la gioia, perfino nelle poesie più nere e disperate, il tratto saliente della sua poesia, la sua energia segreta, quella forza centrifuga che la portava in giro per le strade, gli odori, i volti di una città che vi si specchiava, che vi ritornava dentro come nella sua custodia, come nel suo vestito. «Cunuss vör dí vardà e inamuràss» (conoscere vuol dire guardare e innamorarsi), scriveva Loi, e davvero nessuno più di lui ha saputo guardare, ascoltare, fiutare Milano e, dunque, amarla, conoscerla.

La gioia, accompagnata d’altro canto da una pietas lucidissima e spontanea, mai sentimentale né artefatta, così connaturata a una poesia fatta dei gesti, delle emozioni, delle parole di ogni giorno; e però sempre intesi a partire da un tratto mitico, da un trasporto epico. Epopea milanese, nella quale, tuttavia, sfilano ben riconoscibili le questioni essenziali e ineludibili del nostro destino: la morte, il dolore, la perdita. I testi di Loi (rigorosamente legati all’oralità, all’immediatezza del vissuto, all’istante) sono costellati da questo smarrimento, dalla meditazione sconsolata sulla fine, sull’irreparabilità del tutto.

Rari i poeti che con lo stesso nitore accorato siano mai riusciti a immortalare l’addio a un amico, come nella lirica che Loi scrisse in memoria del poeta Giulio Trasanna, suo maestro.

 

E nüm sèm chi amô, Giüli, a camenà,
liend, sulient, dré ´l luster del murtori,
e gh’è ‘n festà là nel prâ, tra i pagn al vent,
de fjö che scappa e pö ríden, e de dònn
ch’j se vòlta e j se sègna, e stan lí,
ne l’aria fèrma, a vardà, o a pensà,
e pö, prest, turnaràn a la sua câ,
a cüntàssela-sü, de la vita, e di mort,
ch’àn vist, o ch’àn sugnâ, e de biròcc cuj piüm…
E in due te sét, tí, amîs?
Ché la tua cartapelgura, i brasc,
el còll resgâ, j èm vist, lí, un mument,
cume a dundà sü ‘l büs lungh de la cassa,
nel finí vöj de quèl’umbra, lunga
cum’i ciel e i ciel quan’ se sprufunda,
quèl che nient nüm ne sèm, e fa paüra.

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Esecuzione dell’ultimo giorno

Lorenzo Chiuchiù

L’IRREVERSIBILE

Su Esecuzione dell’ultimo giorno di Lorenzo Chiuchiù

di Alessandro Bellasio

Da una parte, gli scrittori con la parola giusta per ogni occasione, sia essa lieta o funesta; dall’altra, gli scrittori con quelle e solo quelle, ineludibili parole – le parole del loro destino. Perché è del destino, è della frontalità irriducibile dell’esserci, che qui si tratta. Di un musicista, randagio e geniale, bersagliato dalla verità e dalle sue apparizioni saettanti, dedito anima e corpo alla realizzazione di un progetto devastatore e senza ritorno: comporre l’ultima sinfonia, la sinfonia dell’estremo, la partitura capace di intercettare la musica delle sfere e di piegarla a sé, evocando la fine del mondo. Questa (prendendoci licenza deittica) la vicenda al centro di Esecuzione dell’ultimo giorno, primo romanzo di Lorenzo Chiuchiù, nel quale avvertiamo tutta la potenza tellurica della sua poesia, ma qui votata a un respiro, a una orchestrazione che imbocca la via, a sua volta ultimativa e totalizzante, della letteratura assoluta. E per ottemperare a questo voto, Chiuchiù decide di seguire l’eco di una storia terribile e lontana, quella di Aleksandr Nikolaevič Skrjabin, pianista russo che ebbe l’intuizione di un’opera musicale capace di far divampare il cosmo, svellendone i cardini sonori. Da questa traccia prende ispirazione il racconto, che segue poi in realtà una direzione completamente autonoma, anzitutto tramutando Skrijabin in Viktor Semënov: il nome, carico di fatalità (nomina sunt numina), della piazza dove Dostoevskij, ormai certo della fine, venne graziato.


Ed ecco allora il problema: quale lingua convocare, che possa rendere giustizia alla scintilla e alla fiammata di un materiale tanto incandescente? Chiuchiù azzarda, e, come il suo Semënov, persegue la sola cosa che valga ancora la pena di perseguire, l’impossibile. O meglio: ne viene perseguito, perché si tratta di una scrittura dove, finalmente, non abbiamo l’impressione che chi prende parola si senta a casa propria, e che ci blandisca per farci accomodare: non vediamo disporsi davanti a noi il bel salotto di un repertorio autoriale, no, qui ci troviamo agli antipodi rispetto alla letteratura-prontuario – a quella forma di scrittura, subalterna e degradata, cui ci hanno abituati decenni di pubblicazioni votate all’immediatezza mortifera della trasparenza e della comunicabilità, che nella sua cifra significa poi reversibilità dei contenuti e permutabilità degli stili. Niente di tutto questo, e non per scelta, ma per forza di cose. Qui siamo in piena guerra, il lettore è travolto fin dalla prima riga, fin dal primo giro di frase, dalla furia del testo. Ma ciò accade perché è lo scrittore, lui per primo, ad essere stato sferzato, ad aver subìto la collisione frontale con quei nuclei psichici, con quelle potenze, e ad esserne stato polarizzato. Qui non ci sono coordinate, ambientazioni, nemmeno Perugia è davvero Perugia, bensì una città mnestica – siamo in territori siderali e inabitabili, siamo nell’irreversibile e vi sentiamo soffiare il vento gelido delle forze. Tutto è unico e conclusivo, è l’elementare a prendere parola e a dettarsi: chi scrive ha il compito di trasferirne nell’idioma lo scintillio e il brivido, sapendo che non vi sarà una seconda chance. Assistiamo così allo scatenarsi di una lingua fatta di accensioni e di torsioni, di illuminazioni ed estasi fulminee, dove ogni singolo atomo prosodico, ogni componente sintattica è agitata da tensioni estreme, proprio come quell’uomo, Viktor Semënov, di cui immortala tutta la furia, l’amore e il desiderio divorante. Continua a leggere

Bellezza e Destino

Su Olimpia di Luigia Sorrentino

di Alessandro Bellasio

 

«Tutto sta nel sentire o non sentire miticamente». Questa fulminante intuizione nietzscheana potrebbe essere posta in epigrafe al «libro di una vita» (come scrive Milo De Angelis in prefazione) di Luigia Sorrentino. Perché Olimpia si colloca in effetti nel novero di quelle opere che fanno i conti con le grandi questioni del destino e dell’origine, della morte e del sacro, senza però cedere alla facile tentazione dell’elegia e di un sublime di maniera, di una retorica magniloquenza del verso. Tutt’altro. La sintassi fluida, la lingua priva di asperità, il tono fermo, lontanissimo da effusioni nostalgiche contraddistinguono questa lirica. Imbastita, come i lettori del libro già ben sanno, su uno scenario di memoria dichiaratamente hölderliniana (ma cruciale ci è sempre parsa anche la presenza di Rilke, specialmente quello dei Neue Gedichte), e che diventerà scena vera e propria il prossimo 16 luglio, quando al Giardino Romantico di Palazzo Reale a Napoli vedremo sfilare su un palcoscenico reale Iperione, Olimpia, Empedocle: le figure decisive di una Grecia arcaica, sfuggente e sibillina, ancora in bilico tra partecipazione cosmica e aggregazione politica, tra sentimento panico e stabilizzazione nel logos, una Grecia ancora immersa nella luce stellare dell’epica, e dove si combatte la guerra tremenda per l’assegnazione del limite, per la sanzione del confine tra umano e divino e il solo, imperdonabile peccato è quello della hybris. Di cui è figura emblematica non solo il titano Iperione, ma lo stesso Empedocle, figura leggendaria con la quale si cimentò, in un’opera celebre e incompiuta, il nume tutelare Hölderlin, ma che non mancò di attirare l’attenzione, in tempi più recenti, di un grande studioso come Giorgio Colli. Continua a leggere

La materia frangibile del ricordo

Stefano Pini

Su MANDATO A MEMORIA di Stefano Pini
Nota di lettura di Alessandro Bellasio

Sospeso tra rievocazione e divieto, tra reviviscenza e perdita, il nuovo libro di Stefano Pini ci conduce in quel luogo impraticabile e familiare, vicinissimo eppure inaccessibile, che è il ricordo. Mandato a memoria (Interlinea, 2019) imbastisce un fitto dialogo con le ombre, ombre delle persone ma anche ombre dei luoghi, delle cose, una lunga incursione nei territori del passato la cui prerogativa – come vuole la citazione di Faulkner posta dall’autore in esergo alla silloge – è quella di non essere mai davvero tale. Esso alimenta e configura il nostro presente, ma lo fa anzitutto sottraendovisi: ellissi repentine, vicoli senza uscita e strade improvvisamente sbarrate si susseguono nella raccolta di Pini, in cui il non detto svolge un ruolo forse ancor più determinante di ciò che invece perviene alla parola.

Qui il silenzio è decisivo, permea di sé uomini e vie, attraversa le esistenze e guida segretamente gli incontri. Un silenzio da non intendersi, tuttavia, come reticenza o omissione, bensì come confine invalicabile dietro il quale sta l’essenza inviolabile delle cose, e della parola stessa. Un confine che non può, non deve essere oltrepassato, perché è proprio il suo perimetro a proteggere la memoria e la fragile sostanza di cui si compone: un solo ulteriore tentativo di precisarne i contorni farebbe svanire tutto come per eccesso di luce. Il libro di Stefano Pini è un libro di penombra, di chiaroscuro, sorretto da una peculiare oculatezza del vedere e del dire, che sa riconoscere l’interdetto e circoscrivere il sottratto. Proprio da questo moto di sottrazione provengono le ingiunzioni a «non chiamare», a «non parlare», di uno dei testi iniziali: ogni gesto scomposto potrebbe compromettere la materia infinitamente perturbabile, frangibile della memoria. Proprio tale eccesso costituirebbe l’infrazione, la colpa da riscattare, qualora avvenisse. «Proviamo insieme | la memoria chiusa da perdonare | nel livido per tutto questo tempo». «Ogni corsa dovrebbe essere muta | tra i rami, non eludere, non sapere».

Attenzione e ascolto, silenzio e attesa: sono queste le dimensioni entro cui esplorare l’edificio interiore, nel raccoglimento. Dal quale guizza poi d’un tratto il particolare decisivo, la frase indelebile, il gesto irreparabile o prodigioso cui ciascuno è vincolato per sempre: sarà il lettore a ricostruire l’accadimento, la situazione d’insieme, in base alle poche pennellate suggerite dall’autore.

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