Poesia come traduzione. Amelia Rosselli

Amelia Rosselli, Credits ph. Dino Ignani

 

di GIUSEPPE MARTELLA

L’ipotesi che avanzo in quanto segue, con la massima cautela poiché non sono un italianista di professione, è che la lettura delle poesie giovanili in inglese di Amelia Rosselli che appaiono in Sleep ci offra una chiave preziosa per comprendere la peculiarità e il fascino di tutta la sua produzione.

Questi testi appaiono infatti di una inattualità e di una pregnanza sorprendenti, come fossero estratti dalla matrice del tempo, dall’irripetibile età dell’oro della letteratura inglese, fra Cinque e Seicento, fra Shakespeare e John Donne. Per essere poi proiettati sulla tragedia storica del nostro Novecento, sugli incubi kafkiani di questo secolo breve segnato dalla Shoah e da due guerre mondiali.

Incubi vissuti sulla propria pelle e divenuti saga familiare della poetessa, traumi psicosomatici che ne hanno segnato insieme lo spaesamento esistenziale e la Stimmung poetica, che si può definire come un consapevole delirio prolungato o anche una meditata atonale “arte della fuga” che si arresterà come è noto con un taglio secco come quello dell’ascia che apre la luminosa sequenza di Sleep: “Pray be away/ sang the hatchet as it cut slittingly/ purpled with blood. The earth is made nearly/ round , and fuel is burnt every day of our lives.” “Prego vattene/ cantò l’accetta mentre acuminata tagliava/ imporporandosi di sangue. La terra è fatta quasi/ tonda, e carburante viene bruciato ogni giorno della nostra vita.” (8)

Fatta questa premessa, voglio sviluppare l’ipotesi che tutta l’opera di Rosselli si possa intendere come traduzione da una lingua madre fantasmatica. Lingua madre intendo, l’inglese, perché sua madre era inglese e le avrà probabilmente sussurrato suoni e parole di questa lingua nella prima infanzia; in quella fase precoce di formazione psichica che Lacan chiama “stadio dello specchio” e che si trova mirabilmente condensata nell’antichissimo mito del bambino Dioniso sbranato dai Titani mentre una nutrice gli regge uno specchio in cui egli può vedere i suoi assassini, coi volti coperti di maschere bianche identiche alla sua, circondarlo danzando per farlo infine a pezzi.

E’ il mito della nascita della coscienza individuale dalla nuda vita, dal sentirsi tutt’uno col copro della madre. La lingua materna (fonica, tattile e gestuale) ci offre perciò l’imprinting originario, il sostrato su cui si innesteranno tutte le lingue in seguito acquisite.

I suoi connotati di brusio farfugliante, cantilena, voce-corpo appassionata che detta precocemente la metrica del linguaggio come casa dell’essere, insistendo per essere rimembrata all’occorrenza come ciò che può mutare l’imperativo della legge in un gesto di perdono, appaiono tra le righe di questo mirabile ringraziamento in Sleep: “Pardon in the shape of mother with/ her pale lipstick sticks out/ its tongue at me…And thrice she shifted rule/ into comfort…lisping the three-hatched gum-stuck hole of/ a home: your teats, your mother-/ attitude, your smallest worms, giants/ in the passion.” “Perdono in forma di madre con/ il suo rossetto rosa pallido mi caccia fuori/ la lingua…E tre volte mutò la regola/ in conforto…sondando il campo, farfugliando quel/ buco di casa a tre botole e appiccicato con la/ colla: i tuoi capezzoli, il tuo atteggiamento/ di madre, i tuoi più piccoli vermi, giganti/ nella passione.” (160)

Lingua fantasmatica, però, nel caso della Rosselli, perché la prima parte della sua infanzia fu spesa a Parigi e dunque francese fu il contesto sociale in cui crebbe fino al tragico momento dell’assassinio del padre per mano di sicari fascisti, quando lei aveva sette anni, e dell’inizio delle sue peregrinazioni prima in Inghilterra, poi in Nord America e infine in Italia: della sua “Fuga di morte” (Todesfuge: Celan) fra le lingue del mondo.

In tali peregrinazioni, alcuni anni a suo dire relativamente sereni dell’adolescenza, li trascorse negli Stati Uniti, proprio accanto alla madre, ed è lì che probabilmente la lingua inglese deve avere riaffermato il suo primato poetico nell’espressione di un vissuto travagliato, gettando i semi della splendida fioritura che pochi anni appresso si sarebbe manifestata nelle prime liriche di Sleep (1953), che costituiscono come il preludio di quel lungo sonno-sogno cui avrebbe poi in seguito costantemente anelato come balsamo di una insopportabile tensione psichica, quale appare già in Variazioni belliche (1964) e che sarebbe sfociata infine nella vera e propria psicosi paranoide attestata da Serie Ospedaliera (1969).

In ogni caso è evidente che l’italiano viene buon terzo fra le lingue correntemente parlate dalla poetessa, manifestando infatti quelle improprietà e idiosincrasie, inciampi e giri di frasi inconsueti, che non sfuggono all’orecchio di un parlante nativo e che Pasolini, al momento della pubblicazione sul Menabò delle prime poesie che sarebbero confluite in Variazioni belliche, ebbe a chiamare i “lapsus” caratteristici del suo dettato poetico.

Il mio assunto è qui che l’italiano sia per Rosselli una lingua d’arrivo in cui ella inconsciamente traduce il dettato fantasmatico della madrelingua inglese. Se è vero infatti che la poesia costituisce una lingua di secondo grado, elaborata a partire dalla lingua ordinaria, così come sostiene Jurij Lotman, ciò accade in Rosselli in modo del tutto peculiare. Ed è in quest’ottica che va compreso anche l’interesse della poetessa per la musica atonale, come quella in cui sentiva di poter conseguire quella “emancipazione delle dissonanze” che non sono per lei solo di carattere psichico ma anche eminentemente linguistico, in quanto la prosodia dell’italiano in cui scelse di scrivere è radicalmente diversa da quella dell’inglese, dove per esempio l’enjambement suona molto più naturale almeno fino dai tempi di Shakespeare. Sicché ciò che può sembrare sperimentale nella nostra lingua poetica non è spesso che la norma in quella inglese. L’insistita ricerca dell’enjambement, quel suo andare a capo su particelle enclitiche o sincategorematiche, è un tratto ben noto della versificazione di Rosselli che corrobora questa ipotesi lettura. Continua a leggere

Gandolfo Cascio, “Le ore del meriggio”

Gandolfo Cascio, credits ph. Dino Ignani

Estratto da Gandolfo Cascio, Le ore del meriggio: Saggi critici, Il Convivio, 2019.
Volume vincitore del Premio G.A. Borgese per la saggistica letteraria.

 

 

La libellula di Amelia Rosselli

 

Ricordo che lessi una prima volta La libellula[i] nell’elegante edizione SE. Era l’estate della maturità ed è grazie alla coincidenza con quell’evento che rammento con tanta fiducia l’incontro. Il libriccino riporta in copertina un ritratto molto bello di Amelia Rosselli. Allora non conoscevo Simone Weil, ma ora in quella foto ritrovo dei tratti comuni nel viso delle due ragazze: un volto giudeo, smilzo e stupendamente sdegnoso.

Il poemetto non m’impressionò granché, anzi, mi parse aspro come l’acido. Io, che in quegli anni ero incantato dalla poesia onesta, lo schifai con un orgoglio e l’insolenza giustificabili solo dall’età. Questa noia, ora lo so, mi veniva da un paragone con quelle divinità che avevo innalzato a trinità privata: per l’appunto Saba, Penna e Morante.

Qualche anno dopo venni però a sapere della simpatia di Amelia per Penna[ii], e fu così che mi rimisi a studiare quel testo. L’ostinazione mi fece indovinare che una lingua tanto agra poteva rivelarsi sincera e mirabile quanto quella dei miei patroni e intesi che tanta pesanteur voleva rendermi la vita difficile non per tediarmi ma per ‘scoraggiarmi’. Come i dossi artificiali hanno l’obiettivo di dissuadere gli automobilisti più scapestrati, così le difficoltà della Libellula, ma credo che questo valga anche per gli altri libri rosselliani, vogliono affermare che la poesia non è materia da prendersi di petto, ma che va assecondata con un andamento non dissimile dalla flânerie.

Questo appello alla lentezza e alla concentrazione è stato – tra le altre cose – il contributo di Amelia Rosselli al dibattito attorno alla lettura, che deve estraniarsi dai meccanismi mercantilistici della parola. La Poesia, vale a dire, non è roba di consumo e non deve seguire le norme middle-class di efficienza, fruibilità, smercio: «Il borghese non sono io» dirà in Impromptu[iii]. Al contrario il suo compito – se la poesia ne ha – è quello d’imporre la riflessione, d’incitare alla critica. In questo senso si potrebbe perfino affermare che l’atto poetico di Amelia Rosselli è sempre un gesto d’insubordinazione civica, di anarchica e pacifica resistenza, soprattutto quando si accorda al ritmo salmodiante della declamazione. Tutto ciò non vuol dire che Rosselli diserti volontariamente la comunicazione con il lettore ma, semmai, invera una sfarzosa elegia alla subìta incomunicabilità, una situazione che  richiama alla mente il Deserto rosso di Antonioni (1964).

Tale ineffabilità s’esalta nella ripetizione lamentosa dei vocativi: «O albero teso. O particella immensa. O lunario | da quattro soldi»[iv], o di lemmi identici sistemati a brevissima distanza, per esempio: «e ti chiamo e ti chiamo chimera. E io ti chiamo e ti chiamo | e ti chiamo sirena»[v]. Il tono del lamento si conferma nell’uso di rime anomale (derivative, omografe, a inizio di parola) poste magari nello stesso verso (fiore : sfiorisce, amare [verbo] : amare [aggettivo], addolorata : addolcisci[vi]). Le rime, in pratica, più sono bizzarre, cioè fuori dalla norma metrica, e più saranno «denunciatorie»[vii] dello straniamento.

Dove possiamo posizionare questo volumetto nel discorso letterario di quegli anni?

Pasolini nella Confusione degli stili (1957) segnò nettamente il Novecento in un main-stream, ovviamente capitanato dall’Ermetismo, che s’avvale d’un:

 

gergo aristocratico anti-nazionale-popolare»; e dall’altra parte posiziona una letteratura ‘antinovecentesca’ che vi si oppose in nome e in virtù della ‘chiarezza’ e della ‘semplicità’[viii].

 

La data di pubblicazione di questo saggio è di grave importanza per comprendere appieno la sua portata.

L’anno dopo, difatti, lo stesso Pasolini insieme a Penna e Morante lasceranno che Nico Naldini stampi in una nuova collana longanesiana tre volumi – rispettivamente: L’usignuolo della Chiesa Cattolica, Croce e de­lizia e Alibi – che possono considerarsi campioni di quel movimento, affatto disorganizzato e eterogeneo, che senz’altro trova il proprio fondamento nell’esempio di Saba.

Insieme alle due correnti antagoniste dobbiamo noi conteggiare anche l’avanguardia, e in modo più specifico quella agguerrita del Gruppo 63: insofferente verso l’establishment e in fermento: tanto che da lì a poco avrebbe portato la poesia italiana a una scelta emancipatoria rispetto a entrambe le due opzioni di cui parlava Pasolini.

Noi oggi, come si dice in questi casi, con il senno di poi, sappiamo che questa controcorrente, per quanto utile a smuovere le acque, si è rivelata innocua; tuttavia, bisogna tenerne conto anche per rimediare alla svista di certa critica che ha provato a includere Amelia Rosselli in codesto côté goliardico. L’indicazione si giustifica in parte per motivi biografici: la frequentazione di qualche membro, e a causa della sede e data della prima pubblicazione di alcuni frammenti della Libellula, proprio nel 1963 nel «Verri».

Tuttavia una seconda pubblicazione, e questa volta per intera, si ebbe in «Nuovi Argomenti» nel 1966 e questo dato, con altrettanta superficialità, potrebbe riportarla nell’area antinovecentesca? Non credo.

Il fatto è che La libellula, né Amelia Rosselli, si possono assimilare a questo o ad altro clan; casomai, si può parlare di compagni di viaggio come, del resto, lo furono anche Scotellaro, Carlo Levi, lo stesso Pasolini e perfino Penna che s’ode in qualche verso come questo:

 

Bellissimo cameriere tu sei il re d’Italia tu che pazientisci e

corri per le camomille[ix].

 

O anche:

 

Raptus seduto, al bar dei Piccoli Angioli, presso la

Fontana della Vergine, che per oggi sono io[x].

 

Altrove, ritrovo perfino una eco morantiana, per quanto con l’abuso di una sintassi colpevolmente ambigua:

 

I bambini sono i padroni del paese

ladrocinii non vi sono solo incanti trasformati[xi].

Ripeto: tutti questi sono amici di baldorie. I suoi padri sono da ricercare altrove, in luoghi e stagioni ormai lontani: Campana e Rimbaud per la chiaroveggenza sentenziosa e, conseguentemente, per la scelta obbligata d’una lingua sibillina; D’Annunzio, per certa  ipersensualità libresca: «Egli premeva un nuovo rapporto di piacere, | egli correva al petto della donna amata»[xii]; o, addirittura, lontanissimi, come nel caso dei barocchismi di John Donne (o, perfino, caravaggieschi) per l’erotico misticismo: Continua a leggere

Gino Scartaghiande, da “Oggetto e circostanza”

Gino Scartaghiande / Credits ph. Dino Ignani

 

Non ho mai conosciuto la collocazione

Ricordo la sera esattamente
Da collocare, temporalmente parlando,
in un anno compreso tra
Dei muri, delle strade.
Che non (si) potevano (chiamare) più
(essere chiamati) muri, strade.

Il nome

I

Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.

Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.

Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d’acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.

L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.

Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza.

So di certo chi sei, chi sono. L’asfalto
grigio della strada. Il tuo sangue sull’
asfalto penetratomi sin d’allora. E so
che altre strade dovrò ancora assorbire,
altro vetro frantumare, prima di poter
pronunciare il tuo nome, che sarà anche mio
e infine nostro. Ti chiamerò Rosa Luxemburg.
Mi darai il nome. (lasciare 2 spazi)
Ti chiamerò mentre ti uccideranno. Sarà
come ricevere una tua lettera d’amore.
Dovrò meritarla. Ora ancora no.

I gradini scorrono lontano, fuggono come
tastiere di pianoforte, fuggono in tutte le
direzioni. Non so se muovermi coi piedi o se
affidarmi all’ascolto. Ma devo assolutamente
trovare il punto ove tutti i gradini e
tutte le voci confluiscono. Un foglio
trasportato dal vento, un grido d’aiuto
basterà?

Ora. Sono pronto a barattare ogni cosa
per questo incontro. E vedo talmente bene
il nero che cola sui gradini. Anche dagli
occhi, anche gli occhi che vedono colano
nero, come assassini che complottano,
che attentano.

Sono pronto. Ma non ancora in stato di
grazia. Cara Rosa, oggi è stata una
giornata piovosa, ma stasera il cielo

era sgombro e c’erano le stelle.
Sento di svegliarmi, non so ancora
dove. Con ostinata certezza percorro
tutte le ferrovie della terra.

Morire è un lusso che non possiamo permettere
né alla fantasia né alla pratica quotidiana.
E soprattutto a quest’ora di notte, nella strada
così nera e deserta, col silenzio gravido
che vorrebbe scoppiare in fragorosa giornata
d’estate, con bagnanti al mare e bambini
che giocano, mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini neri
coinvolti nelle miriadi di combinazioni.
Ora sai bene, lo sai per certezza:
il mare d’acqua azzurra non esiste.

Il ritardo assunse toni fatali. Erano
esattamente 5 giorni d’assoluto silenzio.
Muti io e lei. Neri e muti. Da 5 giorni
seduti al tavolino del bar, bevendo un caffè
che non finiva mai. 5 giorni oscuri come 10
notti. Vestiti di una pesante e appiccicosa
calzamaglia nera, sentimmo il turbamento
di una rondine su di un umido filo di
telegrafo, prima di partire, in autunno,
giornata piovosa, quasi sera. E un’altra
rondine sul filo opposto. Continua a leggere

Amelia Rosselli, da “Sonno – Sleep”

Amelia Rosselli, Credits ph. Dino Ignani

Vi propongo qui alcune poesie tratte da “Sleep”, che Amalia Rosselli scrisse tra il 1953 e il 1966 in inglese. Le venti poesie trovarono una prima pubblicazione a cura di Antonio Porta nel 1989 che le tradusse (Rossi e Spera Edizioni) e una seconda pubblicazione nel 1992 con Garzanti a cura di Emmanuela Tandello.

Qui vi proponiamo la versione italiana di Antonio Porta.

Well, so, patience to our souls
the seas run cold, ‘pon our bare necks
shivered. We shall eat out of our bare hand
smiling vainly. The silver’ pot is snapped;
we be snapped out of boredom, in a jiffyrun.
Tentacles of passion run rose-wise
like flaming strands of opaque red lava. Our soul
tears with passion, its chimney. The wind cries oof!
and goes off. We were left alone with our sister
navel. Good, so we’ll learn to
ravish it. Alone. Words in their forge.

(1955)

Dunque, va bene, pazienza per le nostre anime
i mari sono freddi, sopr’i nostri colli nudi
tremati. Mangeremo dalla nostra mano vuota
sorridendo vanitosamente. La teiera d’argento è
sbattuta;
ci siamo liberati subito dalla noia, in un attimocorsa.
Tentacoli di passione corrono come fanno le rose
come fiammanti colate di opaca lava rossa. La
nostra anima
si lacera con passione, suo camino. Il vento grida uffa!
e se ne va. Fummo lasciati soli con nostra sorella
ombelico. Bene, dunque impareremo
a stuprarla. Sola. Parole nella loro fucina.

**

no i did not love you i see this clear again or think i do
find my heart fundamentally cold yet
it was before a stone of heat, begging
to aid you come to the final point
between us, and so again i part from you and
never must i seek again to find you helpless
in my grasp, never more shall i put the
ax between us never shall i run to you crying
see this music!

(1955)

no non ti volevo bene questo mi è ancora chiaro
o così credo io trovo il mio cuore essenzialmente
gelido
ma una volta era una pietra di fuoco, pregando
di aiutarti a venire al punto finale
fra di noi, e così ancora una volta ti lascio e
mai più devo cercare di trovarti indifeso
nella mia stretta, mai più metterò
la scure tra di noi mai più correrò verso di te
gridando
guarda questa musica! Continua a leggere

Paola Febbraro (1956 – 2008)

Paola Febbraro

 

Se s’avvicina ciò che di me è stata
senza differenza tra chi ci fa nascere e chi ci abbandona
non è di poco conto una domanda
se non è di muoversi di stanza in stanza
ma occupar le stanze dire
non cerco strade non voglio camminare ma stare
in casa a più piani a più riprese d’ossigeno e di rose
dire: ce l’ho da fare

II

Se s’avvicina ciò che di me è stata
interrotta
allora mi allontana la sconfitta
come se non fossi stata io
convertita

ho fretta
voglio invecchiare
come la terra che sotto ha l’animale.

III

Se s’avvicina ciò che di me è stato
insonne sogno di clausura mio possesso lotta
per la supremazia dello spavento

allora trema e tremi la ragione
di uno stato terremoto
mio sesso nato da sesso uguale.

*

Ogni soffio di vento è una lama di gelo

scricchiola un velo diventato dal freddo
La natura fa visibile il respiro di anime e viceversa.
Nate comunque d’inverno
lode al Vostro silenzio e al Nostro
sesso dal primo respiro.

Da Turbolenze in aria chiara, Empiria, 2008 Continua a leggere