Gandolfo Cascio, “Le ore del meriggio”

Gandolfo Cascio, credits ph. Dino Ignani

Estratto da Gandolfo Cascio, Le ore del meriggio: Saggi critici, Il Convivio, 2019.
Volume vincitore del Premio G.A. Borgese per la saggistica letteraria.

 

 

La libellula di Amelia Rosselli

 

Ricordo che lessi una prima volta La libellula[i] nell’elegante edizione SE. Era l’estate della maturità ed è grazie alla coincidenza con quell’evento che rammento con tanta fiducia l’incontro. Il libriccino riporta in copertina un ritratto molto bello di Amelia Rosselli. Allora non conoscevo Simone Weil, ma ora in quella foto ritrovo dei tratti comuni nel viso delle due ragazze: un volto giudeo, smilzo e stupendamente sdegnoso.

Il poemetto non m’impressionò granché, anzi, mi parse aspro come l’acido. Io, che in quegli anni ero incantato dalla poesia onesta, lo schifai con un orgoglio e l’insolenza giustificabili solo dall’età. Questa noia, ora lo so, mi veniva da un paragone con quelle divinità che avevo innalzato a trinità privata: per l’appunto Saba, Penna e Morante.

Qualche anno dopo venni però a sapere della simpatia di Amelia per Penna[ii], e fu così che mi rimisi a studiare quel testo. L’ostinazione mi fece indovinare che una lingua tanto agra poteva rivelarsi sincera e mirabile quanto quella dei miei patroni e intesi che tanta pesanteur voleva rendermi la vita difficile non per tediarmi ma per ‘scoraggiarmi’. Come i dossi artificiali hanno l’obiettivo di dissuadere gli automobilisti più scapestrati, così le difficoltà della Libellula, ma credo che questo valga anche per gli altri libri rosselliani, vogliono affermare che la poesia non è materia da prendersi di petto, ma che va assecondata con un andamento non dissimile dalla flânerie.

Questo appello alla lentezza e alla concentrazione è stato – tra le altre cose – il contributo di Amelia Rosselli al dibattito attorno alla lettura, che deve estraniarsi dai meccanismi mercantilistici della parola. La Poesia, vale a dire, non è roba di consumo e non deve seguire le norme middle-class di efficienza, fruibilità, smercio: «Il borghese non sono io» dirà in Impromptu[iii]. Al contrario il suo compito – se la poesia ne ha – è quello d’imporre la riflessione, d’incitare alla critica. In questo senso si potrebbe perfino affermare che l’atto poetico di Amelia Rosselli è sempre un gesto d’insubordinazione civica, di anarchica e pacifica resistenza, soprattutto quando si accorda al ritmo salmodiante della declamazione. Tutto ciò non vuol dire che Rosselli diserti volontariamente la comunicazione con il lettore ma, semmai, invera una sfarzosa elegia alla subìta incomunicabilità, una situazione che  richiama alla mente il Deserto rosso di Antonioni (1964).

Tale ineffabilità s’esalta nella ripetizione lamentosa dei vocativi: «O albero teso. O particella immensa. O lunario | da quattro soldi»[iv], o di lemmi identici sistemati a brevissima distanza, per esempio: «e ti chiamo e ti chiamo chimera. E io ti chiamo e ti chiamo | e ti chiamo sirena»[v]. Il tono del lamento si conferma nell’uso di rime anomale (derivative, omografe, a inizio di parola) poste magari nello stesso verso (fiore : sfiorisce, amare [verbo] : amare [aggettivo], addolorata : addolcisci[vi]). Le rime, in pratica, più sono bizzarre, cioè fuori dalla norma metrica, e più saranno «denunciatorie»[vii] dello straniamento.

Dove possiamo posizionare questo volumetto nel discorso letterario di quegli anni?

Pasolini nella Confusione degli stili (1957) segnò nettamente il Novecento in un main-stream, ovviamente capitanato dall’Ermetismo, che s’avvale d’un:

 

gergo aristocratico anti-nazionale-popolare»; e dall’altra parte posiziona una letteratura ‘antinovecentesca’ che vi si oppose in nome e in virtù della ‘chiarezza’ e della ‘semplicità’[viii].

 

La data di pubblicazione di questo saggio è di grave importanza per comprendere appieno la sua portata.

L’anno dopo, difatti, lo stesso Pasolini insieme a Penna e Morante lasceranno che Nico Naldini stampi in una nuova collana longanesiana tre volumi – rispettivamente: L’usignuolo della Chiesa Cattolica, Croce e de­lizia e Alibi – che possono considerarsi campioni di quel movimento, affatto disorganizzato e eterogeneo, che senz’altro trova il proprio fondamento nell’esempio di Saba.

Insieme alle due correnti antagoniste dobbiamo noi conteggiare anche l’avanguardia, e in modo più specifico quella agguerrita del Gruppo 63: insofferente verso l’establishment e in fermento: tanto che da lì a poco avrebbe portato la poesia italiana a una scelta emancipatoria rispetto a entrambe le due opzioni di cui parlava Pasolini.

Noi oggi, come si dice in questi casi, con il senno di poi, sappiamo che questa controcorrente, per quanto utile a smuovere le acque, si è rivelata innocua; tuttavia, bisogna tenerne conto anche per rimediare alla svista di certa critica che ha provato a includere Amelia Rosselli in codesto côté goliardico. L’indicazione si giustifica in parte per motivi biografici: la frequentazione di qualche membro, e a causa della sede e data della prima pubblicazione di alcuni frammenti della Libellula, proprio nel 1963 nel «Verri».

Tuttavia una seconda pubblicazione, e questa volta per intera, si ebbe in «Nuovi Argomenti» nel 1966 e questo dato, con altrettanta superficialità, potrebbe riportarla nell’area antinovecentesca? Non credo.

Il fatto è che La libellula, né Amelia Rosselli, si possono assimilare a questo o ad altro clan; casomai, si può parlare di compagni di viaggio come, del resto, lo furono anche Scotellaro, Carlo Levi, lo stesso Pasolini e perfino Penna che s’ode in qualche verso come questo:

 

Bellissimo cameriere tu sei il re d’Italia tu che pazientisci e

corri per le camomille[ix].

 

O anche:

 

Raptus seduto, al bar dei Piccoli Angioli, presso la

Fontana della Vergine, che per oggi sono io[x].

 

Altrove, ritrovo perfino una eco morantiana, per quanto con l’abuso di una sintassi colpevolmente ambigua:

 

I bambini sono i padroni del paese

ladrocinii non vi sono solo incanti trasformati[xi].

Ripeto: tutti questi sono amici di baldorie. I suoi padri sono da ricercare altrove, in luoghi e stagioni ormai lontani: Campana e Rimbaud per la chiaroveggenza sentenziosa e, conseguentemente, per la scelta obbligata d’una lingua sibillina; D’Annunzio, per certa  ipersensualità libresca: «Egli premeva un nuovo rapporto di piacere, | egli correva al petto della donna amata»[xii]; o, addirittura, lontanissimi, come nel caso dei barocchismi di John Donne (o, perfino, caravaggieschi) per l’erotico misticismo: Continua a leggere

Procida, la rivincita della Poesia

di Monica Acito

 

 

La conquista dell’Italia minore, quella dei borghi e dei grappoli d’azzurro pescati sui fondali marini. La rivincita della lentezza,  del tempo dilatato e dell’odore dei limoni. “Procida, la cultura non isola”: questa è la formula del dossier che ha incoronato Procida Capitale Italiana della Cultura 2022. Ma Procida in quanto isola ci ricorda anche che ognuno di noi è un’isola, insondabile, irraggiungibile, impenetrabile, da difendere, da tutelare come bene assoluto. Ed è la prima volta che una piccola isola ha trionfato, sbaragliando una folta concorrenza. Procida si è laureata Capitale Italiana della Cultura per tante ragioni, ma vi è anche una motivazione poetica, una radice al di là del tempo.

Non è stata decisiva solo la dimensione patrimoniale e paesaggistica, e nemmeno la possibilità di uno sviluppo sostenibile delle realtà isolane e costiere del Paese: a fare la differenza è stato, anche a detta della giuria, soprattutto il messaggio poetico che scaturisce da questa scelta. Una piccola isola che punteggia il golfo di Napoli, che brilla in mezzo al mare e colpisce, con la sua luce, tutta la penisola; un puntino che pulsa di vita, che insegna che la cultura non dipende dalla posizione geografica, ma dalla vocazione e dalla volontà di costruire un discorso comune. Perché la cultura non è isolamento o esilio; non è soltanto un orpello da indossare col vestito buono della domenica, o un trofeo da tenere su una mensola per impressionare il proprio interlocutore. La cultura è sale marino, villaggi di pescatori, sudore e orizzonti tremolanti di mare; la cultura è fatta di storie che attraversano le grotte e le insenature di un’isola e che diventano eterne, magnificando se stesse nel momento stesso in cui prendono corpo. L’isola non è soltanto un coagulo di terra e rocce, che svetta in mezzo al mare: possiamo affermare, con orgoglio e una certa dolcezza, che l’isola è un vero e proprio genere letterario.

Al di là del nome: che si chiami Procida, Ischia, Capri o Itaca, l’isola è sempre Madre e mai matrigna, un ventre a cui tornare per ritrovare quella vita ancestrale che solo la poesia può rievocare.

L’orizzonte letterario dell’isola di Konstantinos Kavafis è Itaca: un approdo, un punto d’arrivo, ma anche un posto del mondo dal quale ripartire, un luogo che ha l’odore dello iodio e la crudezza della libertà. Kavafis viaggia per scoprirsi e liberarsi, e l’isola diventa il suo corrispettivo terrestre.

Sì, perché l’isola, a prescindere dal nome con cui viene chiamata, è la meta finale del nòstos (νόστος): il poeta si mette in viaggio, solca il mare e lascia dietro di sé scie d’inchiostro. Alle rocce affida i suoi segreti e la dimensione dell’isola gli riconsegna sempre la verità luminosa e incandescente. Cosa rimane alla fine del viaggio verso l’isola? Gli rimane proprio il viaggio, che è il più prezioso dei doni da affidare all’immaginario del poeta, che saprà plasmarlo e addomesticarlo.

Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.

(Konstantinos Kavafis, Itaca, vv.31-36, Tutte le poesie, Einaudi, 2015, a cura di Nicola Crocetti)

Itaca come Procida, contiene e diffonde gli spasmi del poeta; isola a cui alla quale tornare, per sentirsi figli di divinità mai tramontate, perché i numi dell’isola sono semplici, composti di acqua, minerali ed elementi naturali.

E non importa quale sia il nome del lembo di terra o del costone roccioso, perché l’essenza spudorata e primigenia della poesia vivrà sempre, tra le fessure e gli anfratti di ogni isola.

Il nome di Procida è, innegabilmente, nome poetico di ampio respiro.

Iosif Brodskij

Procida riecheggia in una poesia del poeta russo Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987, ed è sempre emozionante osservare il profilo dell’isola attraverso gli occhi di un poeta che ha saputo essere sia “classico” che “contemporaneo”, qualsiasi sia l’accezione di entrambi i termini. Perché l’isola è classica, patria del mito, ma è anche e soprattutto contemporanea perché continua a contenere il sangue della nostra civiltà, è culla della poesia e attualità che non possiamo ignorare. E ancora di più non possiamo ignorarlo adesso.

Procida

Baia sperduta; non più di venti barche a vela.
Reti, parenti dei lenzuoli, stese ad asciugare.
Tramonto. I vecchi guardano la partita al bar.
La cala azzurra prova a farsi turchina.

Un gabbiano artiglia l’orizzonte prima
che si rapprenda. Dopo le otto è deserto
il lungomare. Il blu irrompe nel confine
oltre il quale prende fuoco una stella.

(Iosif Brodskij, “Poesie italiane” Adelphi, 1996, traduzione di Giovanni Buttafava)

Reti stese ad asciugare e fissate, nello sguardo del poeta, come parenti dei lenzuoli. Uno sguardo quasi chiaroveggente, purificato dal sale dell’isola, che rende tutto più nitido. I colori sono perfettamente messi a fuoco, la mossa del gabbiano è precisa e chirurgica, e il blu di Procida è un vero e proprio manto che avvolge tutta la poesia con grazia e decisione.

Il tocco finale, con la stella incandescente che s’incendia, sembra offrirsi al lettore come un martirio estremo, quello della poesia che prende fuoco nel cielo e si offre a tutti, disperdendosi negli atomi di sale, acqua e sabbia.

Che l’isola possa assumere le sembianze di una Madre lo riscontriamo anche nel poema in versi di Luigia Sorrentino. Olimpia si trasforma in una creatura immensa, gravida di mare e di umanità. Ed è con il peso dell’umano nel grembo che la creatura approda alla piccola isola.

Coro 1

tutto stava su di lei
e lei sosteneva tutto quel peso
e il peso erano i suoi figli
creature che non erano ancora
venute al mondo
lei stava lì sotto e dentro

questa pena l’attraversava ancora
quando venne meno qualcosa

le acque la accolsero

e quando si avvicinò alla costa
della piccola isola, tutti
portava nel suo grembo

(Luigia Sorrentino, Olimpia, Coro I, Iperione, La caduta, Interlinea, 2013, 2019)

L’isola è dunque l’approdo gravido d’umanità di una Madre in un luogo senza confini dal quale si staglia una voce che rivela all’umano la notte del grembo.

La Sorrentino come un oracolo, con versi chiari e luminosi, sembra sussurrare al mare parole che smuovono le onde: “c’è una notte arcaica in ognuno di noi / una notte dalla quale veniamo/ una notte piena di stupore/ quella perduta identità dei feriti,/ si popola di volti”, e ci ricorda che tutti proveniamo dallo stesso seme notturno, e quella notte arcaica rimarrà sempre nel nostro codice genetico, come una condanna o una rivelazione.

Ed è proprio dall’approdo al profilo roccioso dell’isola, da quella notte arcaica, che possiamo scoprire la nostra vera identità di naufraghi. Dalla notte possiamo risollevarci, rinascere e purificarci, guardando il mare dal profilo dell’isola che accoglie e rigenera.

Non è Procida l’isola della Sorrentino, o forse sì, potrebbe esserlo. Perché un’isola è sempre un’isola, da qualunque parte la si osservi, è una terra emersa dalla quale far emergere la coscienza, la consapevolezza di ciò che siamo. Continua a leggere

Patrizia Cavalli, anatomia di una poeta

Patrizia Cavalli / Credits ph. Dino Ignani

NOTA DI MONICA ACITO

Patrizia Cavalli è poeta, non poetessa.
Cavalli ha ancora la pelle perfetta di chi non si è mai resa conto di essere stata bella, nemmeno in gioventù.

Tra le lievi rughe del collo, la nuca e gli zigomi, Cavalli ha sbuffi di fumo e ragnatele, da cui si sprigiona la sua poesia, che fluisce con lo stesso ritmo sincopato del suo respiro.

Se dovessimo fare un nome, tra i tanti, capace di riannodare i fili tra il Novecento e il nostro secolo, sceglieremmo senz’altro la poeta di Todi.

Cavalli scappò dalla città di Jacopone, perché il suo carattere ruvido e orgoglioso mal sopportava le restrizioni di un borgo ancora medievale.

Approdò così a Roma, dove conobbe la Morante, che la laureò poeta, non con l’alloro di Petrarca e nemmeno con le tamerici di Virgilio, bensì con la poesia che non avrebbe cambiato il mondo.

E Cavalli forse scelse di prendersi il titolo di poeta proprio per non deludere Elsa, perché Cavalli, come tutte le donne pigre, aveva bisogno di qualcuno che la costringesse a credere fermamente in se stessa.

Non ho seme da spargere per il mondo
non posso inondare i pisciatoi né
i materassi. Il mio avaro seme di donna
è troppo poco per offendere. Cosa posso
lasciare nelle strade nelle case
nei ventri infecondati? Le parole
quelle moltissime
ma già non mi assomigliano più
hanno dimenticato la furia
e la maledizione, sono diventate signorine
un po’ malfamate forse
ma sempre signorine.

da “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (Einaudi, 1974)

La poesia di Cavalli è fatta di nervi, sangue e muscoli: ha salde gambe, sta in piedi da sola e non ha bisogno di arabeschi di spiegazioni, di arringhe e di sillogismi aristotelici.

Le sue parole sono chirurgiche, spaccano il capello: in un’intervista recente al Corriere della Sera, Cavalli ha dichiarato che la poesia ha il compito di narrare il corpo, perché è inutile parlare dell’anima.

Cavalli è poeta e donna che abita la sua fisicità, e i suoi versi sono scienza del corpo e dei sentimenti.

Il suo sguardo tattile riesce, infatti, a dare parole a quei particolari trasalimenti privi di parole del corpo.

Ne “Il Cielo” (1981) vi è il ricamo del silenzio, che Cavalli cuce sul lenzuolo della sua solitudine.

Il rumore la intossica, le impedisce di scrutare la realtà con occhio chiaroveggente e con quell’endecasillabo che fa pensare alla mano del Montale di “Ossi di Seppia”. Continua a leggere

Mario Benedetti (1957 – 2020)

A due mesi dalla scomparsa di Mario Benedetti, poeta italiano, pubblichiamo alcune poesie di Benedetti tradotte in inglese da  Roberto Binetti. 

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Da Moriremo guardati (1994)

Quando s’incatina il cielo
che non è più fermo.
Mi perde la tranquilla tersità
già dell’estate.

Più non si sfugge
dalle vie calde di portici.
Al refrigerio murato
del fingersi sovrani
più non riporta
l’incarto rotto del pensiero.

When the sky’s bulging
to the point that is no longer still.
The calm terseness gets me lost
of the late summer.

No longer one could slip away
from the hot lanes of the colonnades.
No longer the cracked wrapping
of thought recalls
the walled relief
from faking regality.

Da Umana gloria (2004)

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

 

To live was a great dream
and real, always, painful and full of joy.
They came for our laughter,
for our tears burst against the table and the work in the fields.
They came to stare at us, here’s the miracle:
that is a man, those are all men.
He was the needle for the straw bags, the clear eye,
the knee pressing on the grass
in the etching with the clearly-drawn child in a clear day,
the dead father, smooth and clear
like a clean tile, an apple in a glove-box.
A poor man arrived from the woods’ banks and beneath the sky
with stories from other poor men that used to amass over the benches
and I was staring at him as I would stare at these buildings
with the ripped walls of the houses that do not stand anymore. Continua a leggere

Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943


Nel pomeriggio di lunedì 28 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, la famiglia Debenedetti e la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma organizzano un incontro dedicato al racconto 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti, che descrive la tragica storia della deportazione di migliaia di ebrei dal ghetto di Roma. L’incontro sarà quindi l’occasione per discutere di uno dei più importanti critici letterari italiani del Novecento ma anche un modo per ricordare una delle pagine più terribili della nostra storia più recente. Durante l’incontro verranno esposte alcune prime edizioni di 16 ottobre 1943, tra cui l’esemplare postillato da Elsa Morante. Infatti il libro di Debenedetti fu una fonte primaria per la scrittura del romanzo La Storia. Continua a leggere