In memoria di Franco Loi

Franco Loi

di Gian Mario Villalta

C’è stato un lungo periodo che ha visto Franco Loi presente in Friuli con regolare e assidua frequenza. Qui aveva molti amici, non solo Amedeo Giacomini e tutti quelli che si raccolglievano intorno alla rivista «Diverse lingue», della quale Loi stesso era animatore, ma molti altri che volentieri partecipavano a incontri, letture e discussioni: ogni occasione era buona, per tutti gli anni ’90 e nei primi del nuovo millennio, per rinnovare il piacere di stare insieme, e non solo tra friulani, poiché spesso erano presenti i poeti e i critici di quella straordinaria stagione della poesia neodialettale, che provenivano da tutta Italia. Non di rado mi è accaduto di incontrare Loi anche fuori dai contesti casalinghi, a Milano, per esempio, o a Bologna, e sempre il momento della chiacchiera privata amichevole era altrettanto importante di quello della lettura e della discussione pubblica.

Franco Loi è stato uno dei principali protagonisti di quel processo di uscita dal novecentismo che oggi è un fatto (anche se a volte non del tutto consapevole) operante nelle scritture poetiche delle generazioni successive. La sua influenza diretta si è affermata non solo attraverso la sua opera, ma nelle relazioni personali e nell’instancabile e appassionato dialogo, anche e soprattutto con quelli che in quel periodo erano i “giovani poeti”. E il suo ascendente ha travalicato il confine di chi operava, in tutto o in parte, nell’area neodialettale, per interessare anche chi in dialetto o in una delle lingue minori italiane non ha mai scritto.

Dovessi riassumere in poche parole la sostanza di questo vero e proprio “magistero”, direi che ha riguardato soprattutto il richiamo costante al rapporto tra la lingua viva e la tradizione. Per lingua viva, però, non dobbiamo pensare l’allora dominante concezione “stilistica” di ciò che rappresentava la lingua viva: ovvero “l’effetto parlato” da produrre sulla pagina. Era ancora operante una distinzione molto forte tra lingua d’uso e lingua letteraria e troppo spesso ci si dimentica che l’accesso della lingua quotidiana alla poesia era considerato ancora fino a tutti gli anni ’80 come ambito di esperimento o di griffe personale. Ne è riprova il fatto che lo stesso impiego del dialetto o di una lingua minore, qualora risultasse nell’insieme legato da un rapporto di dialogicità diretta con un eventuale lettore, assumeva la definizione di “lingua della realtà”, a giusticazione dell’intenzione poetica, quando invece all’impiego di lessico e formule espressive arcaiche o desuete si conferiva il titolo di “lingua della poesia”. La contrapposizione tra “lingua della realtà” e “lingua della poesia” ha informato la distinzione critica della poesia neodialettale per molto tempo, infatti, e stava a fondamento esplicito di molte dichiarazioni di poetica da parte degli stessi autori, come si può riscontrare leggendo gli interventi del momento e ancora oggi si ritrova spesso come criterio di interpretazione.

Franco Loi, fuori da questa schematizzazione, ha proposto un’altra idea di “lingua viva”, che diventava al contempo lingua della realtà e lingua della poesia, perché non aveva nulla a che fare con la descrizione di un dato stilistico, ma riguardava la sostanza storica, psicologia, e oggi direi addirittura biologica della lingua. Che per Loi questa lingua viva fosse da reinventare dal dialetto era un fatto radicato nella sua personale esperienza, che non gli impediva di riscontrare nell’italiano della tradizione o in qualsiasi altra lingua straniera la possibilità e la realtà dell’evento poetico. La lingua viva era per Loi la memoria e la storia, sia conosciute che vissute, era l’innesto della percezione nei suoni e nell’espressione verbale, era una questione di appartenenza e di libertà nella lingua stessa, poiché dalla stessa lingua (e non da sovrapposte ideologie, teorie, strutture formali) proveniva la materia prima e il processo primario della creazione poetica.

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Lettera a Franco Loi

Franco Loi

Caro Franco,

non riesco a scrivere di te ma posso scrivere a te. C’è stata intimità tra noi, tu intimità costruivi con tutti, ma con me è difficile, perché se non c’è, me ne vado e nello stesso tempo sono troppo timida per scartavetrare io per prima.

E così ce l’hai fatta, sei diventato azzurro. Da quando avevi ottant’anni, il corpo ti sembrava un’ ingombrantissima coda da portarti appresso. E poi non c’era più Silvana, come restare? Era i tuoi occhi, la tua terra e anche il fuoco.

La prima volta che ci siamo incontrati avevo ventitre anni.

Allora stavi in via del Sambuco, abbiamo parlato tanto, anzi tu parlavi e io rispondevo alle domande. A un certo punto mi hai detto: “Tu sei un poeta, lo vedo dai tuoi occhi, perché vivi ai bordi della follia.” Mi sono spaventata tantissimo, perché allora per me la follia era solo quella della psichiatria. Mi sono attaccata al tavolo con le mani.

Comunque era come essere presi da un fulmine sentirsi riconosciuti così giovani da un vero poeta. Facevi sentire che l’altro esiste. Che cosa rara! E tu hai continuato a farla, di generazione, in generazione.

La tua poesia potevo leggerla solo nelle tue traduzioni, ma da te mi piaceva anche ascoltarla nella tua lingua musicante, lingua straniera eppure sotto casa, lingua umile che si metteva a parlare di mistica terrestre, della tua religione degli affetti. A casa tua mi sembrava che ci fosse Dio in pigiama, stava lì con noi, lui seduto sul divano e noi al tavolo.

Mi chiedevi solo dopo un po’ che ero con te: “Come stai?” e dopo che avevo risposto, mi dicevi tu come stavo, come mi sentivi. Restavo strabiliata perché scoprivi cose che io non vedevo, non guardavo dalla parte giusta, ma erano lì, proprio lì.

Poi sei andato a vivere in una casa a un piano alto e io avevo le vertigini ma tu ti ricordavi sempre di aprirmi la porta dell’appartamento e così mi infilavo dentro di corsa senza guardare la tromba delle scale.

Negli ultimi anni non ci siamo più visti perché io sono una che abbandona, tengo nel cuore ma devo andare via. Soffro di altre vertigini. Dove sto adesso ti piacerebbe. Gli asini ti piacerebbero più di tutto.

Come sto, Franco?

 Chandra Candiani

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In ricordo di Franco Loi

Franco Loi

di Alessandro Bellasio

La voce più appassionata, struggente a tratti, di una lingua che non esiste più, che non si sente più, che più nessuno parla. Il milanese di laboratorio di Franco Loi esisteva solo in lui, per lui, certo, eppure c’era un’intera città che in quella lingua trovava forma, sensi, felicità. Poco si può aggiungere su un poeta tanto conosciuto e amato, se non che era forse proprio la gioia, perfino nelle poesie più nere e disperate, il tratto saliente della sua poesia, la sua energia segreta, quella forza centrifuga che la portava in giro per le strade, gli odori, i volti di una città che vi si specchiava, che vi ritornava dentro come nella sua custodia, come nel suo vestito. «Cunuss vör dí vardà e inamuràss» (conoscere vuol dire guardare e innamorarsi), scriveva Loi, e davvero nessuno più di lui ha saputo guardare, ascoltare, fiutare Milano e, dunque, amarla, conoscerla.

La gioia, accompagnata d’altro canto da una pietas lucidissima e spontanea, mai sentimentale né artefatta, così connaturata a una poesia fatta dei gesti, delle emozioni, delle parole di ogni giorno; e però sempre intesi a partire da un tratto mitico, da un trasporto epico. Epopea milanese, nella quale, tuttavia, sfilano ben riconoscibili le questioni essenziali e ineludibili del nostro destino: la morte, il dolore, la perdita. I testi di Loi (rigorosamente legati all’oralità, all’immediatezza del vissuto, all’istante) sono costellati da questo smarrimento, dalla meditazione sconsolata sulla fine, sull’irreparabilità del tutto.

Rari i poeti che con lo stesso nitore accorato siano mai riusciti a immortalare l’addio a un amico, come nella lirica che Loi scrisse in memoria del poeta Giulio Trasanna, suo maestro.

 

E nüm sèm chi amô, Giüli, a camenà,
liend, sulient, dré ´l luster del murtori,
e gh’è ‘n festà là nel prâ, tra i pagn al vent,
de fjö che scappa e pö ríden, e de dònn
ch’j se vòlta e j se sègna, e stan lí,
ne l’aria fèrma, a vardà, o a pensà,
e pö, prest, turnaràn a la sua câ,
a cüntàssela-sü, de la vita, e di mort,
ch’àn vist, o ch’àn sugnâ, e de biròcc cuj piüm…
E in due te sét, tí, amîs?
Ché la tua cartapelgura, i brasc,
el còll resgâ, j èm vist, lí, un mument,
cume a dundà sü ‘l büs lungh de la cassa,
nel finí vöj de quèl’umbra, lunga
cum’i ciel e i ciel quan’ se sprufunda,
quèl che nient nüm ne sèm, e fa paüra.

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Ricordo Franco Loi

Franco Loi, credits ph. Luigia Sorrentino. Milano, 7 marzo 2005 

di Luigia Sorrentino

Ero partita da Roma in aereo il pomeriggio del 6 marzo 2005. Il direttore di Rai News 24 mi aveva inviata a  Milano per un’intervista televisiva alla poetessa Alda Merini, molto popolare in quegli anni in Italia. Avevo detto al mio direttore che mi faceva piacere incontrare la Merini, ma che, trovandomi a Milano, doveva concedermi la possibilità di intervistare anche il grande poeta di lingua dialettale, Franco Loi, quasi per nulla noto al pubblico televisivo. Lui accettò, di buon grado. Si fidava di me. Aggiunsi che la Merini era persona molto “umorale” e non potevamo fare affidamento solo su di lei… lo avvertii che avrebbe potuto far “saltare” l’intervista all’ultimo minuto, nonostante gli accordi presi al telefono.

E andò esattamente come avevo previsto.

Mi ero organizzata così. La mia personale scaletta, prevedeva il 7 marzo 2005 prima l’intervista a Loi, poi quella alla Merini, anche perché sapevo che Alda aveva l’abitudine di svegliarsi tardi.

Avevo concordato, quindi, per le 10:00 l’incontro con Franco Loi, dopo, alle 14:00, avrei raggiunto la Merini nella sua casa sui navigli.

Alle 10:00 in punto arrivai con la troupe a casa di Franco Loi, in Via Misurata, 60.

Fummo accolti molto calorosamente da Franco e dalla moglie, Silvana, una donna intelligentissima, colta, affabile e curiosa, studiosa d’arte e di Letteratura. La casa era calda e si stabilì subito un contatto umano fra tutti noi.

Rimasi colpita dal fatto che Franco ci avesse ricevuto con la giacca da camera, indumento che Franco volle tenere anche durante l’intervista televisiva. Solo dopo, riflettendoci, mi resi conto che quella giacca indossata con tanta disinvoltura era il segno di una grande disponibilità. Era come una porta che si apriva e conduceva a una dimensione “privata”, di grande intensità.

Il nostro primo colloquio durò complessivamente quattro ore. Prima di congedarci Franco ci mostrò la casa, i libri, i quaderni. Tutto era perfettamente ordinato e pulito.

Quel primo incontro suggellò la nostra amicizia.

Alle 14:00 eravamo davanti alla porta d’ingresso della casa di Alda Merini, in Via Ripa Ticinese, 47.

Ebbi una leggera esitazione prima di suonare il campanello, ma poi decisa lo feci.  Quale sarebbe stata la sua reazione? Mi chiedevo. Saremmo stati bene accolti, oppure no? La Merini aprì la porta. Mi presentai.  Alle sue spalle riuscii a intravedere il “muro degli angeli”,  ma lei mi richiuse subito la porta sulla faccia.

Cercai di convincerla a riaprirla e a farci entrare ma lei non lo volle nella maniera più assoluta. Disse che le era venuta la febbre.

Vero o non no, dopo aver insistito ancora un po’ senza ottenere più alcuna risposta, ce ne andammo scendendo velocemente giù per le scale.

Probabilmente non le ero piaciuta. Non ci fu mai più una seconda occasione d’incontro.

Sulla strada i ragazzi della troupe mi proposero con un sorriso: “Andiamo dalla Nanda”. Io chiesi ridendo: “Chi è la Nanda?” “La Nanda! Fernanda Pivano!”

Fui entusiasta della proposta, ma come avrebbe potuto riceverci senza appuntamento?
Comprai in libreria alcuni dei suoi libri che non avevo con me.

Luigia Sorrentino e Fernanda Pivano, Milano 7 marzo 2005

Arrivammo sotto casa della Pivano. Fui io a citofonare e a presentarmi. Lei fu molto gentile, ma disse che dovevamo aspettare perché doveva consultarsi con il  suo avvocato. Ci chiese, quindi, di ritornare alle 16:00. Ritornammo e lei disse al citofono che potevamo salire. Fu una bella esperienza. Fummo accolti dal grande sorriso di Nanda saggista, traduttrice, scrittrice e giornalista di grandissimo talento. E’ lei che ci ha fatto conoscere molti artisti e scrittori della letteratura e della cultura americana: grandi scrittori classici, come Ernest Hemingway, William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, Saul Bellow, fino ai poeti della Beat Generation fra i quali Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, Ferlinghetti, e molti altri. Ma soprattutto la Nanda ci parlò del suo mentore, Cesare Pavese del quale era stata allieva (nel 1935 prima dell’arresto e del confino) quando Fernanda frequentò a Torino il liceo D’Azeglio.

Quando tornai a Roma e comunicai al mio direttore che avevo realizzato l’intervista a Loi e a Fernanda Pivano, e non quella alla Merini per la quale ero stata inviata a Milano, come era solito fare, prima mi diede una pacca sulla spalla e poi disse con la sua voce tonda: “Brava! Sei riuscita a intervistare gratuitamente la grande Fernanda Pivano!”

Post-scriptum

L’intervista a Franco Loi e a Fernanda Pivano aprì la strada a tutta una serie di interviste televisive che realizzati per la Rai e Rai Educational con molti altri poeti e scrittori internazionali negli anni a seguire per Rai News 24. Tutto questo materiale non si trova negli archivi di Rai Play perché in quegli anni Rai News 24 non aveva un archivio. Rai News 24 è stata la prima emittente pubblica italiana a trasmettere in digitale questo significa che tutto il materiale “girato” per essere “montato” doveva essere trasferito da analogico a digitale. Per fare “spazio” sui server era necessario “cancellare il pregresso” e quindi anche quello che avevamo già trasmesso. Ecco perché l’archivio in analogico con tutto il girato e il montato delle interviste che ho realizzato in quegli anni, è stato donato a me dalla Rai dal direttore del personale nel 2012. Un materiale prezioso, che andrebbe “acquisito”, e messo in rete attraverso i moderni canali di diffusione per ricostruire un periodo della storia della Letteratura e della poesia nel nostro Paese.

4 gennaio 2021

 

Franco Loi e Luigia Sorrentino, Milano, 7 marzo 2005

INTERVISTA A FRANCO LOI
Milano, 7 marzo 2005

Per prima cosa, Franco e io parlammo di Giovanna Sicari. Stavo preparando un servizio per la Rai su di lei e raccoglievo le testimonianze di poeti che l’avevano conosciuta e amata, e Franco era uno di questi. Mi lesse una sua poesia inedita dedicata a Giovanna, sua grande amica scomparsa prematuramente il 21 dicembre 2003. Continua a leggere

Franco Loi, un mistico dentro le “cose” del mondo

Franco Loi, Credits ph. Dino Ignani

di Umberto Piersanti

 

Con Franco Loi si chiude l’antologia di Pier Vincenzo Mengaldo e si chiude un’epoca. Il grande interprete della poesia novecentesca, non a caso, ha sempre asserito che gli era molto difficile se non impossibile parlare degli autori venuti dopo. Si chiude anche la stagione dei grandi poeti dialettali che ho conosciuto di persona e che con lui hanno portato questo tipo di scrittura a livelli molto alti: Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Nino Pedretti e Franco Scataglini che lo stesso Loi fece scoprire ad un pubblico più vasto.

Ho sentito Loi leggere molte volte: la sua lingua così difficile e complessa riusciva a raggiungere tutti, anche quelli che non sapevano una parola del dialetto milanese. Un’oralità straordinaria che aveva in comune, in modi certamente molto diversi, con Tonino Guerra.

Non è questa la sede per disquisire sulla complessità di un dialetto che univa al milanese le voci degli inurbati lombardi negli anni cinquanta, apporti emiliani e parole di sua pressoché totale invenzione. A differenza di Pasolini la sua non era una lingua materna, ma una lingua paterna, formatasi più che attraverso le memorie tramandate, attraverso il duro apprendistato della vita, tra osterie, strade e impegno civile.

La forza della sua poesia sta in una visionarietà che penetra nel reale con un’intensità drammatica dove il teatro è la scena del mondo vissuto dentro un panico e assoluto microcosmo milanese.

Molto si può discutere sulle sue prospettive ideologiche, sulla sua visuale “politica” del mondo. Antifascista, militante comunista, vicino alle posizioni della sinistra radicale: li ha delusi però tutti, a cominciare da Franco Fortini e Pier Vincenzo Mengaldo, per il suo misticismo di cui loro avevano individuato solo una componente evangelico-comunista. No, questa tensione religiosa è molto più totale ed assoluta, investe ogni aspetto del vivere. È presente fin dall’inizio, è presente anche tra le opere come Strolegh che appaiono apparentemente dominate da una concezione tra socialista e anarchica, dalla denuncia del mondo capitalistico. Si potrebbe dire che per Loi il regno dell’utopia non è il regno di questo mondo, ma l’aspirazione ad una pace e armonia universale che ha una caratteristica assolutamente trascendente. Niente è più lontano da Loi non dico dal rigore di un’analisi marxista, ma semplicemente da un’analisi razionale del sociale. Loi crede che la poesia viene dettata al poeta stesso da una qualche entità misteriosa e trascendente: quante volte gli ho sentito dire che il poeta è un semplice tramite di una forza che lo trascende. Una volta abbiamo avuto una discussione sulla sconfitta di Hitler nella seconda guerra mondiale: per me Hitler era stato sconfitto dai carri armati sovietici e dagli aeroplani alleati, per Loi carri armati e aeroplani contavano poco davanti a una qualche forza superiore che aveva deciso e sempre decide il corso della storia. Continua a leggere