Giuseppe Conte, “Dante in love”

Giuseppe Conte

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Shakespeare in love? No, Dante. «Ai piedi del Battistero», tornato dall’aldilà. Gli capita una volta all’anno, per volere di Dio, a causa delle sue pene d’amor perdute per Beatrice: questa è la sua settecentesima notte («Alighieri viene da aliger, che significa “alato”. Ho volato alto, è vero. E ora come ombra volo ogni anno, una sera come questa, dal cielo alla terra e dalla terra al cielo. Migro come le gru e le rondini. Ma non in cerca della primavera e del sole»). E incontra una ragazza con capelli castani, «un paio di occhiali dalla montatura verde alzati sulla fronte», di nome Grace. Una studentessa straniera in Erasmus. Questa ragazza in qualche modo lo sente, ne avverte la fantasmagorica possanza («Io per la prima volta ho la sensazione che qualcuno sia pur confusamente mi veda, percepisca la mia presenza come qualcosa di immateriale tra tutte le cose materiali che mi stanno intorno»). Incomincia così un dialogo misterioso e serrato, in cui Dante le racconta la sua esperienza terrena tra i Fedeli d’Amore — una confraternita iniziatica sul modello dell’Ordine dei Templari — e l’umanissimo sentimento provato per la «gentilissima».


Dante in love è un saggio narrativo di Giuseppe Conte che intende mettere in luce, nel paradossale intarsio dei nostri giorni, la contemporaneità del poeta fiorentino e, ugualmente, la sua vocazione di uomo, oltre che di scrittore. La storia si svolge in prima persona (narratore omodiegetico) e ambientata per le vie di Firenze, dove l’autore della Divina Commedia incontra la sua nuova «Beatrice di strada». Con il guizzo del prosatore esperto e la lucidità del moralista (si ricordino i diversi romanzi, da La casa delle onde, finalista al Premio Strega, a L’ adultera, Premio Manzoni), Conte ci propone un Dante forse a noi più congeniale, meno ingessato certamente, scrostato da ogni alone di sterile accademismo. Ecco un esempio, in cui l’impasto linguistico fa scintille tra teologia allegorica e slang giovanile: «Beatrice… lo hai capito, Grace?… era più di una giova¬ne donna per me, era quella cui Amore aveva dato il mio cuore come si dà un’ostia consacrata nella comunione, il suo saluto era ben più di un cenno con la mano, come fate oggi, “ciao…”, come dite voi? “Ai, ellò…” Era una chiamata a puntare verso il cielo, una via per la beatitudine. Era una promessa di vera felicità eterna». Continua a leggere

Giuseppe Conte, “L’erica”

Giuseppe Conte, credits ph. Dino Ignani

I

Amo l’erica. Quando arriva l’autunno
ne poso un arbusto sul mio tavolo
in mezzo a libri, plichi, statuette, foto.
Sta lì, come se dovesse riempire un vuoto
che non c’è. Con le sue foglie aghiformi
con i suoi fiori non più grandi di pupille
colore del vento e del vino
mi parla di chissà quali brughiere
mi porta lo spirito dell’autunno vicino.
Poi dice che ineluttabile è il declino
e ascolta tutte le notti le mie preghiere.

II

Amo l’erica come amo il vento
come amo le poesie di Apollinaire.
Ricorda: non siamo sulla terra per
restarci, ma dove andremo lo sanno
loro, l’erica, l’autunno.

III

L’erica convive bene con le tempeste,
il vento lascia dentro di lei il suo soffio
le nuvole i loro vaganti riflessi
il sole le sue ultime, brevi feste.

E’ bella come lo è una capigliatura
di donna dopo un orgasmo burrascoso,
e come una donna in lacrime o nel sonno
è ispida, tenera, pura.

da: L’erica, Giuseppe Conte, 12 poesie, Fallone Editore, 2020 Continua a leggere

“Non finirò di scrivere sul mare”, finalista al Premio San Vito 2020

SPECIALE PREMIO SAN VITO 2020

Non finirò di scrivere sul mare, Giuseppe Conte (Mondadori, 2019)

di Giancarlo Pontiggia

 

La forza dolce e terribile di Eros, la libertà dello spirito, l’energia civile del canto sono le forze che agitano da sempre la poesia di Giuseppe Conte: forze in atto, sussultorie e scardinanti, che aprono alla contemplazione dell’infinità dei mondi, che ci ricordano ad ogni verso ciò che è la vita, il sogno, la morte, la dimensione simbolica del nostro sentire, la semplice gioia fisica dell’esserci, dello stare qui, nella vastità metamorfica e squassante del cosmo.

Fin dai versi di Figlia del Sole e di Perseide, che apparvero a metà degli anni Settanta, Conte ha gettato nel catino ideologico e sperimentalistico della poesia di quegli anni una passione che era nuova e arcaica nello stesso tempo. Era una poesia che parlava di mito, di natura, di cieli, di mare, e che racchiudeva in sé la lunga, meravigliosa lezione dell’intera lirica d’Occidente, aperta anche ai sogni d’Oriente: dai versi severi, animati da una forza immaginativa e fantastica di un Alcmane fino ai grandi esiti romantici e postromantici della nostra modernità, da Goethe al Foscolo, da Shelley e da Victor Hugo al D’Annunzio di Alcyone e di Maia. Quei versi, nutriti di una retorica lussuosa e fiammeggiante, centrata sull’uso erratico e immaginoso della metafora, cólti e insieme così immediati, come nel memorabile modello leopardiano, presentavano una dicibilità e una leggibilità, una limpidezza di scrittura e di vocabolario che d’incanto ci conducevano fuori dai giardini ardui e scuri, grandiosi nella loro tensione ma rovinosi nel loro esito, di gran parte della poesia novecentesca. Dicevano, a chi voleva intendere, che la poesia è energia vitale, e che compito dei poeti è elargire parole forti, decisive, che sappiano entrare nella realtà delle cose forzandone la crosta indifferente, opaca. Anche per questo Non finirò di scrivere sul mare è un libro che ci appare, oggi, inevitabile, come se ad esso ambissero tutti i libri precedenti, e non solo perché il mare è presenza fatale – originaria – della poesia di Conte, ma perché qui l’autore presta il suo verso, liricissimo, a una modulazione poematica, a una sorta di carmen continuum, ricco di variazioni e di riprese, di slanci e di moti che trovano la loro rappresentazione proprio nel movimento, ondoso e sovrano, possente ed enigmatico, del mare.

C’è tutto Conte, la sua umile sapienzialità, il suo generoso spendersi in vortici lucenti di suoni e di rime, in questo libro ventoso e aurato, in cui alla verticalità degli scandagli esistenziali si alternano i moti di un’anima infiammata delle cose del mondo, fosse anche solo un riflesso, un soffio, un barbaglio di essere: il suo anarchismo indocile, l’esercizio di una pietas mai retorica, la tensione meditativa e contemplativa del verso, il sentimento della precarietà e della povertà del nostro vivere, lo slancio figurativo della parola che s’impregna di mondo. Ci sono le domande di sempre, le stesse che leggemmo, adolescenti, nei versi sublimi del Canto notturno. Ci sono le struggenti pagine familiari dedicate alla madre, madre-mare, in cui si toccano gli estremi della vita e della morte. Ci sono le contraddizioni dell’animo umano, che si rispecchiano negli indomabili moti del mare, «eternamente eguale e diverso / e fedele e infedele a te stesso». C’è la forza conoscitiva e irradiante del mito, che s’incarna nelle figure-archetipo di Orfeo e di Ulisse – polytropos e polymetis –, di Nausicaa che non offre solo cibo e vesti al naufrago di ogni tempo, ma «sogni d’amore». Continua a leggere

Canzian, Conte e Grassi in finale al premio San Vito al Tagliamento

NOTA DI MATTEO BIANCHI

Sono migliaia i premi letterari nel nostro Paese e annualmente è impossibile tenerne un conto esatto. Purtroppo, però, seguendo i consigli di sedicenti portali a pagamento ben indicizzati emerge un’immagine del nostro panorama poetico alla stregua di un sottobosco, di un agglomerato di salotti e di baronie asfittiche che senza il canto della vanità svanirebbero. Oltre agli ambiti in cui per accaparrarsi una medaglia è necessario comportarsi da cortigiani e blandire il critico di riferimento, si mantengono alcune eccezioni, alcuni contesti nei quali premiare significa trovare e riconoscere, riconoscere una continuità con il passato e negli stessi versi trovare un buon motivo per lasciarlo andare. In sostanza, c’è chi si prende ancora cura delle opere pubblicate e non solo dei loro autori.

La missione del Premio San Vito al Tagliamento, fondato nel 1976 e oggi a cadenza biennale, si può riassumere in cinque versi di Andrea Zanzotto, che fu a lungo nella giuria tecnica: «Natali così lontani / da bloccarci occhi e mani / come dentro fatate inesistenze / dateci ancora di succhiare / degli infantili geli le inobliate essenze», da Dintorni natalizi (1997). Il riconoscimento, che tra gli atri è stato presieduto anche da David Maria Turoldo, Fernando Bandini e Silvio Ramat, in quasi mezzo secolo ha raccolto la partecipazione dei poeti più significativi del contemporaneo, dimostrando un impegno costante nel portare alla luce, o meglio all’udito, il legame indissolubile tra tessuto sociale e fatto poetico. Inoltre non è da tralasciare una certa declinazione dialettale, al di là dell’attenzione alla poesia in dialetto, che indica la stessa sostanza di responsabilità etica e poesia nel Sanvitese; infatti qui non è indifferente l’eredità del Pasolini di Casarsa, distante pochi chilometri da San Vito.

Per l’edizione 2020 la giura tecnica presieduta da Elvio Guagnini e composta da Gian Mario Anselmi, Nico Naldini, Marco Marangoni, Giacomo Vit ha selezionato tre finalisti, tra i quali domenica 21 marzo sarà dichiarato il vincitore dagli ottanta lettori che compongono la giuria popolare. Sono arrivati in finale Alessandro Canzian con Il “Condomio S.I.M.”  (Stampa2009, 2020), Giuseppe Conte con “Non finirò di scrivere sul mare” (Lo Specchio Mondadori, 2019), e Amilcare Mario Grassi con “la Figùa de pórvoa – Figure di polvere” (Manni, 2019).

Per l’occasione il blog “Poesia” della Rai, diretto da Luigia Sorrentino, ha invitato tre voci della poesia italiana contemporanea  a commentare i volumi dei tre finalisti:  Mario Santagostini, Giancarlo Pontiggia e Alberto Rollo.

Ve ne daremo conto nei prossimi giorni proprio su questo blog.

 

I FINALISTI Continua a leggere

Giuseppe Conte, “Davanti ai miei occhi il mare”

Giuseppe Conte, Credits ph. Dino Ignani

di GIUSEPPE CONTE

Tristi record si sono accumulati durante l’isolamento in casa per l’Epidemia. Me ne sono reso conto all’improvviso. Dal compimento dei diciotto anni in poi, non ero mai stato settanta giorni di fila sotto lo stesso tetto , né settanta giorni di fila nella stessa città. Non ero neppure mai stato ininterrottamente per settanta giorni insieme a mia moglie. E non ero mai stato tanto senza vedere né sognare il mare. Perché nella mia vita ho sempre vissuto sul mare, in Liguria, in Bretagna, a Nizza, e quando abitavo giocoforza lontano dalle sue rive, non passava certo più di una settimana che non mi chiedessi dove era, vedendolo in un sogno ad occhi aperti.

Fuggito per l’Epidemia da Milano, in Riviera non ho trovato pace. Impaurito, angosciato, snervato, ho avuto bisogno di ricorrere al mio antico amico chiamato Valium. E alla mia amica ancora più antica chiamata poesia. Mi sono inchiodato al computer, stretto tra due tavoli in questo antro cavernoso dove i libri stanno come stalattiti e stalagmiti , deciso a non fare più un passo, a commerciare con le ombre e a diventare un’ombra io stesso. L’inverno finiva, una primavera inutile baluginava al di là della vetrata. Continua a leggere